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“Fake news”, perché ci si crede e come frenarne la diffusione

[Traduzione a cura di Marika Giacometti, dall’articolo originale di Simeon Yates pubblicato su The Conversation]

Barack Obama ritiene che le “fake news” siano una minaccia per la democrazia. Il presidente uscente degli Stati Uniti ha affermato di essere preoccupato per il modo in cui “così tanta disinformazione attiva” produca notizie “montate a regola d’arte” e diffuse come fatti nei social media. In una recente conferenza in Germania ha dichiarato:

Se non siamo seri sui fatti accaduti e su cosa è vero e cosa no, se non distinguiamo tra gli argomenti seri e la propaganda, allora avremo dei problemi.

Ma come possiamo distinguere tra fatti, dibattito legittimo e propaganda? Dopo il voto sulla Brexit e la vittoria di Donald Trump i giornalisti hanno versato fiumi d’inchiostro per discutere l’impatto dei social media e la diffusione di “fake news” nei discorsi politici, il funzionamento della democrazia e il giornalismo. Deve ancora emergere un progetto di ricerca articolato nell’ambito delle scienze sociali, anche se si può imparare molto dagli studi già esistenti sui comportamenti online e offline.

Questione di fiducia

Cominciamo con la definizione generale di “fake news” come informazione diffusa tramite un medium, spesso a beneficio di attori sociali specifici, che poi si dimostra essere non verificabile o sostanzialmente non corretta. Come è stato scritto, le “fake news” sono ciò che una volta veniva denominata propaganda. E nelle scienze sociali è presente un’ampia letteratura sulla propaganda, la sua storia, il suo scopo, e i suoi legami con lo Stato sia democratico che dittatoriale.

Poster inglese della Prima Guerra Mondiale che attacca le atrocità dei Tedeschi in Belgio.

In realtà, come dimostrano le indagini condotte negli Stati Uniti e in Italia, una delle maggiori fonti di “fake news” è la Russia. Full Fact, un sito del Regno Unito, si occupa di scovare le storie dei media che distorcono la verità, e non sono poche.

Una causa potrebbe essere che, siccome i media “tradizionali” vengono considerati dal loro pubblico meno affidabili (giustamente o no), diventa più difficile distinguere tra coloro che hanno presumibilmente un legittimo interesse nel dire la verità e coloro che non condividono necessariamente gli stessi valori etici. Come fa il giornalismo tradizionale, anch’esso chiaramente politicamente fazioso, indipendentemente dall’orientamento, a dichiarare una superiorità morale? Questo problema precede senz’altro quelli collegati alle tecnologie digitali.

Le bolle e le camere di risonanza

Questo ci lascia con il quesito se i social media abbiano peggiorato tutto ciò. Molto inchiostro è stato versato in riflessioni sulle “bolle nei social media” e su come noi tendiamo a parlare con le persone che condividono la nostra visione, ancora un altro aspetto che non è tipico soltanto dell’era digitale. Ciò avviene in due modi diversi.

Le bolle sono un prodotto della posizione di classe e culturale. Un recente studio del Regno Unito sulle classi sociali lo ha dimostrato. È bene precisare un’importante sottigliezza: nonostante coloro in possesso di uno “status sociale” più elevato possano tendere ad aggregarsi, hanno anche più probabilità di avere una rete di conoscenze socialmente diverse rispetto a quanto accade nei gruppi con un reddito e uno status inferiore. Probabilmente hanno anche l’opportunità di avvalersi di una più ampia gamma di media, soprattutto nelle abitudini di utilizzo su Internet. Non tutte le bolle hanno le stesse dimensioni e non sono neanche tutte monocromatiche, e le nostre bolle sui social media riflettono le nostre bolle quotidiane “offline”.

In realtà le bolle nei social media potrebbero essere molto pertinenti alle interazioni giornalista-politico. Infatti una delle bolle meglio definite di Twitter è quella che circonda i politici e i giornalisti.

Ciò ci riporta a concentrarci sui modelli più antichi degli effetti dei media, come il Modello del flusso a due fasi nel quale l’ “opinione chiave del leader”, nodo influente nella nostra rete sociale, ha un impatto sul nostro consumo di media. Le analisi sulla “storia di una fake news” sembrano additare non i social media di per sé, ma come le storie che girano nei social media possano essere prese dai siti più seguiti o dagli attori con molti follower ed essere amplificate.

Oltre ad aver vinto i Collegi Elettorali con una vittoria schiacciante, ho vinto anche il voto popolare se togliamo i voti dei milioni di persone che hanno votato illegalmente.

La falsa assunzione nel tweet di un individuo diventa una “fake news” su un sito giornalistico fazioso o anche il tweet del presidente eletto e diviene un “fatto” per molti. E noi per questo ci lasciamo prendere ancora di più dal panico, visto che i social media rendono sia il messaggio che la sua diffusione molto visibili.

Smascherare la disinformazione

Qual è il carburante di tutto questo e come possiamo approntare delle contromisure? Innanzitutto gli aspetti economici dei social media favoriscono i gossip, gli articoli di scarso valore, la velocità e la “condivisibilità”. Confondono la socialità con i valori sociali. È riprovato il fatto che una notizia falsa che gioca su un pregiudizio esistente ha più probabilità di ricevere “Mi piace” e quindi crea più profitto per chi la sviluppa. Si tratta dello stesso meccanismo dei giornali scandalistici. Le notizie ben documentate ed esaminate hanno una minore probabilità di essere ampiamente condivise.

L’altro punto chiave è che, come ha notato Obama, diventa difficile distinguere i fake dai fatti ed è provato che molti hanno difficoltà in tal senso. Come io e i miei colleghi sostenevamo già 20 anni fa, i media digitali rendono più difficoltosa la distinzione della veridicità di un contenuto semplicemente in base al formato fisico da cui deriva (giornale in formato largo, notiziari di alta qualità, libro di testo o tabloid). Le notizie online sono più difficili da distinguere.

Il problema successivo è che ritrattare una “fake news” sui social media non è attualmente aiutato dalla tecnologia. Nonostante i post possano essere cancellati, si tratta di un’azione passiva, con un impatto addirittura minore rispetto alle ritrattazioni in un trafiletto nei giornali. Per avere effetto servirebbe non solo l’eliminazione del post ma la messa in evidenza e la pretesa che gli utenti possano vedere e riconoscere che l’oggetto è stato rimosso poiché era una notizia falsa.

Quindi, che le fake news siano o meno una manifestazione dell’era digitale, è evidente come i social media siano capaci di aumentare la diffusione della disinformazione. I loro aspetti economici favoriscono la condivisibilità rispetto alla veridicità e la distribuzione rispetto alla ritrattazione. Questi non sono “requisiti” della tecnologia, ma scelte fatte dagli ideatori dei sistemi e dai loro regolatori (dove ce ne sono). Inoltre i media tradizionali, sporcando la propria reputazione attraverso i “fake” e le copertine visibilmente allineate dal punto di vista politico, possono aver aperto la porta ad altre fonti di notizie.

Usa la zucca. Un bel video che mostra l’importanza della verifica delle fonti e di pensare prima di condividere

Comprendere questo complesso mix di fattori è compito delle scienze sociali. Ma forse il vero messaggio è che noi come società e come individui dobbiamo rispondere a delle domande su come educare le persone a leggere le notizie, sulla nostra scelta di non regolamentare i social media (come facciamo con la televisione e con la stampa) e sul nostro stesso comportamento. Dobbiamo chiederci: quante volte abbiamo verificato le fonti di una storia prima di ripubblicarla?

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