[Elena Butti è candidata al dottorato presso il Centro di Studi Socio-Giuridici dell’Università di Oxford. La sua ricerca indaga le esperienze dei minori colpiti dal conflitto armato colombiano e le loro idee sul processo di costruzione della pace e di giustizia in Colombia. Da più di un anno vive in Colombia dove svolgendo il suo lavoro sul campo nelle zone più colpite dal conflitto. Recentemente ha collaborato con il Centro Internazionale per la Giustizia di Transizione (ICTJ) e il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia (Unicef)]
Negli ultimi giorni, ho ripetutamente provato a spiegare a familiari ed amici fuori dalla Colombia ciò che appare inspiegabile: com’è possibile che i colombiani abbiano detto “no” alla pace?
Il risultato negativo del plebiscito di domenica 2 ottobre, che chiamava i colombiani ad esprimersi sull’accordo di pace tra il Governo e il più importante gruppo della guerriglia, ha profondamente sorpreso la comunità internazionale. In una reazione che contiene dell’ironia, venerdí scorso si è deciso di premiare il presidente Juan Manuel Santos con il Premio Nobel per la Pace. Si spera che questo aiuti a riaprire i negoziati e a raggiungere un più amplio consenso politico.
Tuttavia, l’attenzione mediatica a questi sviluppi, che sono certamente importanti, distoglie l’attenzione dall’aspetto più preoccupante del risultato del plebiscito: il tasso di astensione più alto degli ultimi 22 anni in Colombia (63%). Nessun Nobel per la Pace può risolvere immediatamente questo problema, le cui radici profonde si possono capire meglio dalle aree più remote e segnate dal conflitto della Colombia, dove vivo da un anno.
Stampa e analisti si sono per lo più concentrati sulle ragioni del “no”. Pochi hanno invece approfondito il più importante problema delle ragioni dell’astensione. La questione più rilevante non è perché i colombiani abbiano votato “no” alla pace, ma piuttosto: perché si siano mostrati indifferenti ad essa?
Molti spiegano sbrigativamente l’alto tasso di astensione con la diffusa apatia politica, consolidatasi con il tempo: “L’astensione è sempre stata alta in Colombia“. Tuttavia, per capire davvero le ragioni di un tale tasso di astensione in una votazione definita come “storica”, dobbiamo cercare di entrare nella realtà quotidiana di questa parte della società colombiana.
Da quasi un anno, vivo e svolgo ricerca sul campo a San Carlos, uno dei villaggi colombiani più pesantemente colpiti dal conflitto, e in cui pure il “no” ha vinto nel plebiscito. Quando chiedevo alla gente se sarebbero andati a votare, le due risposte più comuni erano: “Perché dovrei votare, visto che le cose comunque non cambieranno?” (pa’ que, si igual seguimos en lo mismo?) e “Meglio non aver a che fare con la politica” (mejor no meterse con eso de la política).
Queste risposte, apparentemente superficiali, rivelano in realtà due concetti profondamente radicati nel modo di vedere la vita di molti colombiani. Il primo è un diffuso scetticismo verso il cambiamento sociale e l’abbandono della violenza. Molti sono convinti che i negoziati di pace fossero solo una messa in scena, inadatta a generare cambiamenti significativi nella loro vita quotidiana. Il secondo è una significativa riluttanza verso la partecipazione e il diretto coinvolgimento nei processi di cambiamento sociale. Presumibilmente, questa è una strategia di sopravvivenza, appresa in un Paese dove i leader della società civile e i difensori dei diritti umani sono stati uno dei principali bersagli di tutti i gruppi armati.
Queste “verità sociali collettive” rappresentano la saggezza di generazioni che hanno sperimentato la guerra e sono state costrette ad imparare come sopravvivere ad essa. Le medesime parole di saggezza, peraltro, sono state trasferite alle nuove generazioni, coloro che saranno adulti nella diversa e riappacificata società per la quale si suppone che le elites politiche stiano lavorando.
A San Carlos, ho trascorso lunghe serate con gruppi di adolescenti il cui passatempo notturno preferito è fumarsi uno spinello mentre si raccontano reciprocamente le drammatiche storie di guerra che hanno sentito da genitori e nonni, o le storie della “nuova guerra” che sta sviluppandosi, nelle città, tra diverse bande di giovani. Mentre si entusiasmano per i dettagli più macabri, questi giovani spesso confondono attori del conflitto completamente opposti: “Paramilitari è solo un altro modo di dire guerriglia“, mi ha detto un quindicenne una volta.
Pertanto, la violenza, nelle sue diverse sfaccettature, diviene parte dei loro schemi di riferimento, come dell’immaginario collettivo. Spesso, tuttavia, ciò prescinde da qualsiasi coscienza politica circa le cause strutturali, economiche, sociali e ideologiche del conflitto. Piuttosto che una strategia politica, la violenza è uno stile di vita, replicato peraltro ogni giorno all’interno delle case di questi giovani (dal marito verso la moglie, dalla madre verso i bambini, e così di seguito). La violenza fisica e psicologica all’interno della famiglia, una pratica largamente accettata in Colombia, è la prima origine di un modo di pensare dove la violenza è uno strumento legittimo ed efficace per imporre sugli altri la propria volontà.
Quando chiedo agli adolescenti se essi considerano la possibilità di diventare politici, per migliorare la società che li circonda, mi rispondono sempre con un chiaro “no”, seguito da una risata, come se la mia domanda fosse ridicola. La convinzione quasi universalmente condivisa è che “i politici sono tutti corrotti“, e ciò non sorprende, considerato che questo è ciò che viene loro insegnato dai professori a scuola. E perché si dovrebbe mai cercare di cambiare le cose, dopo tutto? “Fatti gli affari tuoi e ti lasceranno in pace” (si uno piensa en lo suyo vive tranquilo). Questa è un’altra delle lezioni di vita trasmesse dalle vecchie generazioni a quelle nuove.
Il mio vicino di casa, un ottantenne che è passato attraverso gli anni più duri della guerra, mi ripete spesso: “Non ho mai avuto problemi, perché non ho mai messo il naso nelle faccende altrui. Fingevo di essere amico di tutti, e nessuno se la prendeva con me“. Le buone madri di famiglia mi descrivono sempre una buona educazione come “da casa a scuola, da scuola alla Chiesa, dalla Chiesa a casa“. Il messaggio-chiave è: non sprecare tempo al di fuori, non impegnarti nella cosa pubblica. Creerebbe solo problemi.
Il sogno della pace, nel quale la campagna per il “si” chiedeva al popolo di identificarsi, si reggeva su due premesse di fondo: prima di tutto, che la pace possa essere raggiunta, poi, che possa essere raggiunta attraverso la partecipazione collettiva. Per molte persone, però, queste due premesse sono del tutto false. Per questo, molti hanno deciso di non votare. Non ha senso votare in favore di qualcosa, o contro qualcosa, che è percepito come una pura illusione: “In ogni modo, la pace non arriverà.”
Alla disperata ricerca di ottimismo all’indomani dei risultati del plebiscito, alcuni sostengono che, quanto meno, ha vinto la democrazia. Si tratta però di una vittoria discutibile. Forse, se per “democrazia” intendiamo rimettersi al voto della maggioranza, allora, si, la democrazia ha vinto. Se però democrazia significa genuina partecipazione, questo risultato dimostra che essa è ancora ben lontana dal divenire realtà, in Colombia. E, se le cose proseguiranno in questo modo, è improbabile che diventi realtà anche per la prossima generazione.
Molto di più che un Nobel per la Pace è necessario per cambiare l’atteggiamento di molti colombiani nei confronti delle istituzioni pubbliche.
[Tutte le foto sono di Elena Butti]