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Coltelli e forbici, l’Intifada ‘privata’ delle donne palestinesi

[Traduzione a cura di Luciana Buttini, dall’articolo originale di Karin Attia pubblicato su openDemocracy]

Coltelli da cucina, mannaie da macellaio, forbici, sassi. Sono queste le armi oggi scelte e utilizzate dai palestinesi nell’ultima ondata di violenza in Israele e in Cisgiordania. Le ultime cifre parlano di 22 israeliani, 150 palestinesi, un americano e un eritreo. Negli ultimi tre mesi, ci sono stati 105 accoltellamenti – e molti degli autori di questi crimini erano donne.

Secondo alcune voci quest’ondata di violenza rappresenterebbe una nuova rivolta – una terza Intifada – io credo che se fosse davvero così, questa “terza Intifada” sia molto diversa rispetto alle prime due per un paio di ragioni: è meno controllata ed è più “personale”. Un’Intifada segreta. Al momento, i sedici aggressori di quest’intifada “segreta” sono state donne. Sette di loro sono state viste mentre accoltellavano uomini ebrei in spazi pubblici e sette erano state fermate prima di un tentativo di accoltellamento, una di loro aveva tentato uno scontro automobilistico e un’altra aveva un ordigno esplosivo in macchina, che aveva precedentemente fatto esplodere.

La novità preoccupante di quest’Intifada non risiede nel fatto che le donne siano capaci di prendere parte a episodi di violenza quanto nel carattere “privato” di questi attacchi.  Le donne, infatti, per secoli hanno commesso volontariamente e con passione atti di terrorismo, così come è stato studiato a fondo dagli studiosi di terrorismo Mia Bloom e Yoram Schweitzer. Si tratta, invece, di qualcosa di personale poiché le armi scelte, come i coltelli appunto, richiedono una vicinanza fisica tra l’aggressore e la vittima. A differenza del terrorismo suicida o degli attentati dinamitardi, dove non c’è alcuna distanza fisica che protegga l’aggressore dagli occhi della vittima.

Si tratta di una rivolta”privata” perché gli esecutori non sono soldati jihadisti ma piuttosto persone auto-motivate, che agiscono per conto di una propria organizzazione. Queste sedici donne incarnano due caratteristiche principali: sono giovani; dodici di loro hanno meno di 23 anni, la più giovane ha 14 anni e, inoltre, sono auto-motivate poiché agiscono come “lupi solitari”.

Donne nate nel periodo successivo agli accordi di Oslo, un’epoca caratterizzata dalla continua presenza dell’occupazione e dall’assenza di un dialogo significativo o di risoluzioni  sul tavolo di scontro tra Israele e la Palestina. Sebbene io non tolleri questa violenza, la mancanza di speranza e la disperazione da parte degli aggressori assumono delle dimensioni importanti per tutto ciò. Perché c’è un numero così consistente di donne palestinesi che improvvisamente impugna le armi?

La prima Intifada, durata dal 1987 al 1993, non aveva chiamato all’azione le donne. Al contrario, come afferma Mira Tzoreff, le donne avevano il compito di essere “coloro che davano origine” alla rivoluzione, coloro che “coltivavano” la rivoluzione, le madri dei figli che avrebbero eseguito gli attacchi. La seconda Intifada, dal 2000 al 2005, ha portato la prima donna kamikaze palestinese, Wafa Idris, e anche il coinvolgimento diretto delle donne negli atti di violenza e nel terrore.

Come ha sostenuto Yoram Schweitzer, queste donne erano per lo più ventenni, non sposate oppure divorziate, e senza figli. Si crede che cercassero un modo per liberarsi dalla vergogna e/o dal disonore che gravavano su di loro e sulle loro famiglie. Per questo il martirio sembrava essere un modo per combattere il loro disonore o la loro vergogna. Che cosa spinge le donne a comportarsi in questo modo?

Io penso che una delle ragioni per cui assistiamo ad un incremento del numero di donne che prende parte a quest’Intifada sia il fatto che questi attacchi richiedono poca o nessuna pianificazione. Infatti accoltellare qualcuno usando un coltello da cucina è qualcosa che un individuo può eseguire senza il bisogno di avere l'”infrastruttura” di un’organizzazione terroristica. Inoltre credo anche che la natura di questi attacchi sia direttamente collegata alla disperazione provata da molti palestinesi, soprattutto donne, che portano il peso maggiore, e l’idea che tempi disperati richiedano misure disperate. Le donne agiscono in questo modo perché vogliono fortemente cambiare la loro situazione; agiscono perché credono che gli uomini non stiano facendo abbastanza nella lotta contro l’occupazione.

Poiché la maggior parte degli aggressori sono stati uccisi sul posto, si sa davvero poco su ciò che abbia realmente portato queste donne a prendere parte a quest’intima forma di violenza, o meglio ad impugnare i loro coltelli. Da quel poco che sappiamo possiamo solo mettere insieme i tasselli di un mosaico incompleto fatto di motivazioni diverse. Capiamo davvero solo due antefatti. Il primo riguarda Isra’ ‘Abed che ha commesso un attacco ad Afula lo scorso 9 ottobre. Questa donna è stata fermata dopo essere stata vista brandire un coltello alla stazione locale degli autobus. Tuttavia, le forze dell’ordine hanno presto concluso che lei stessa voleva essere presa e uccisa, di fatto ha indotto la polizia a spararle. Omicidio attraverso un suicidio. Isra’ ‘Abed è una madre divorziata affetta da malattie mentali, ha una storia fatta di ricoveri e ha perso la custodia di suo figlio dopo aver tentato il suicidio. Si è finta terrorista, sperando e forse sapendo, che reazione avrebbe causato.

'Awakening' di Akrem Boutora, lavoro che ha registrato molte condivisioni tra gli attivisti palestinesi. Foto di Haaretz.

All’estremo opposto, lo scorso 9 novembre una giovane palestinese, Rasha Ahmad Hamed ‘Oweissi, ha commesso un tentativo di accoltellamento nella città cisgiordana Qalqilia. Rasha è stata uccisa mentre si avvicinava a un posto di blocco impugnando un coltello e avendo con sé  una lettera in cui parlava del suicidio.

Nella lettera la giovane palestinese mette in evidenza le sue motivazioni per l’attacco e scrive :

Cara madre, non so che cosa stia accadendo. So solo di aver raggiunto la fine della strada. E questa è la strada che ho scelto in piena consapevolezza, a difesa della mia patria, dei giovani e delle giovani donne, non riesco più a sopportare ciò che vedo. Quello che so è che non lo tollero più… Perdonami per tutto, non ho altro che questa strada. Mi dispiace darti questo addio.”

Il coltello e la lettera di suicidio di una giovane donna palestinese Rasha Ahmad Hamed ‘Oweissi uccisa in un tentativo di accoltellamento lo scorso 9 novembre. Foto del Ministero delle Difesa israeliano.

Mentre le azioni di queste due donne rappresentano tentativi di accoltellamento, e siamo in grado di capire il motivo per cui volevano prendere parte a questa violenza, è importante ricordare che in altre aggressioni le protagoniste usano a loro vantaggio il fatto di essere donne.

L’attacco dello scorso 8 novembre a Beitar Illit (a Sud di Gerusalemme) ha ripreso con una telecamera l’atto violento di Halawa Alian, che dopo aver parlato per diversi minuti  con una guardia di sicurezza israeliana, ha preso la sua borsa, ha tirato fuori un coltello e  ha accoltellato la vittima. E ancora…

Lo scorso ottobre, Hamas (il movimento politico di ispirazione religiosa che controlla di fatto la Striscia di Gaza) aveva pubblicato un video tutorial di 45 secondi che forniva alcune linee guida ai palestinesi su come accoltellare un ebreo. In questo video, gli attori rappresentavano due ebrei religiosi messi con le spalle al muro da un uomo palestinese e accoltellati a morte.

Per quanto il video possa essere inquietante, è importante osservare che le donne non hanno avuto nessun ruolo in tutto ciò. Nonostante quest’assenza importante, altri aggressori, come Muhannad Halabi (un giovane palestinese che ha accoltellato due israeliani lo scorso 3 ottobre) e Ishaq Badran (che ha eseguito un accoltellamento lo scorso 10 ottobre) hanno detto chiaramente che il motivo delle loro azioni era dettato dalla necessità di proteggere le loro sorelle musulmane.

Questione di sfumature. Mia Bloom e  Yoram Schweitzer affermano che solo quando i tempi diventano estremamente disperati le donne vengono coinvolte attivamente in azioni terroristiche. I palestinesi sono arrivati dunque al limite di sopportazione?

Le armi scelte per gli attacchi non sono più bombe e ordigni improvvisati ma il nuovo corso vede gli aggressori scendere in piazza e accoltellare le vittime. Credo che azioni di questo genere evidenzino un livello completamente nuovo di rabbia e disperazione tra i palestinesi.

Riconoscere e comprendere l’impegno senza precedenti delle donne palestinesi nell’ultima ondata di violenza in Israele e in Cisgiordania rappresenta un piccolo ma importante passo nel porre fine a questa nuova rivolta.

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