[Traduzione a cura di Luciana Buttini dall’articolo originale di Francis Ghilès pubblicato su openDemocracy]
Sembra che molti potenti muoiano dalla voglia di combattere le violenti milizie libiche e le loro Nazioni amiche all’interno della regione. Il ministro dell’Interno italiano Angelino Alfano prevede che il Vaticano, in quanto “centro della cristianità”, probabilmente sarà il prossimo obiettivo dello Stato Islamico. Anche il presidente egiziano, generale Abdelfattah al-Sisi, dopo la decapitazione, ormai divenuta un rito, dei ventuno lavoratori cristiani copti emigrati nel Paese, pensa a un intervento armato. La decapitazione dei cristiani copti ha fatto seguito a una serie di attacchi sanguinosi alle forze di sicurezza nell’incontrollata Penisola del Sinai da parte del gruppo terroristico Ansar Beit al-Maqdis, e l’aumento degli atti di terrorismo al Cairo e nel Nord dell’Egitto (dove le forze di al-Sisi hanno preso di mira i membri dei Fratelli Musulmani, condannando in processi farsa centinaia di persone all’impiccagione).
Lo Stato Islamico sta facendo di tutto per provocare l’Egitto, la Giordania e i Paesi occidentali. Prima dell’uccisione dei cristiani copti, il pilota giordano Muath al-Kasasbeh era stato arso vivo in una gabbia dai terroristi dell’Isis. Atti di questo sono brutali tuttavia non sono privi di senso per chi li compie, poiché hanno uno scopo ben preciso: portare i “crociati” – ovvero i soldati europei – nei territori arabi. Questa dialettica jihadista non è così diversa dagli aerei, dirottati dai terroristi di al-Qaida, che l’11 Settembre 2011 vennero scagliati sulle torri gemelle del World Trade Center di Manhattan e sul Pentagono di Washington.
Il capo dello Stato egiziano sta cercando di convincere Roma, Parigi e Washington a fare davvero sul serio in Libia, tuttavia il suo entusiasmo non è condiviso né a Tunisi né ad Algeri. In queste capitali, coloro che sono più cauti sostengono che la Libia è in uno stato di metastasi – vale a dire la diffusione del cancro da un organo a un altro non direttamente collegato al primo. Entrambi i leader di questi Paesi credono che il loro dovere sia quello di prevenire la violenza che tormenta la Libia e rischia di diffondersi anche in Occidente.
La precauzione della Tunisia
La Tunisia si trova in prima linea e ha molto da perdere in caso di qualsiasi intervento in Libia sostenuto dalla Nato, poiché ospita almeno mezzo milione di rifugiati libici. Attualmente la maggior parte di loro ha i mezzi necessari per sopravvivere, tuttavia queste persone presto rimarranno senza denaro dato che la moneta libica è in discesa a causa della mancanza di ricavi dalla vendita di petrolio e di gas. I tunisini negli anni 2011-2012 hanno mostrato una grande solidarietà per i rifugiati libici e hanno ricevuto, al contrario, ben poco aiuto per i loro problemi da parte dell’Unione Europea o delle organizzazioni internazionali. Tuttavia, oggi, la pazienza si sta esaurendo e molti nel Paese temono che questi “ospiti” libici diventeranno un peso per un Paese che, dopo quattro anni di politica turbolenta, sta cercando di mettere radici democratiche e traghettare la propria economia verso la ripresa.
Tutto sommato però l’esperienza della Tunisia è stata molto diversa da quella della Libia. Infatti la caduta del dittatore Zine El Abidine Ben Ali, a gennaio 2011, era stata organizzata da una rivolta da parte dei tunisini stessi e senza interferenze dall’esterno. Il nuovo capo di Stato del Paese, Beji Caid Essebsi, è consapevole di questo potere ricevuto in eredità e anche del risultato delle elezioni che lo hanno portato al potere lo scorso dicembre. Le province tunisine meridionali di Medenine, Ben Guerdane e Tozeur hanno votato in massa a favore del suo predecessore Moncef Marzouki. Poche settimane prima alle elezioni parlamentari avevano votato per il partito islamico An-Nahda che, anche se sconfitto dal partito Nidaa Tounes di “Si Beji’s”, rimane comunque il secondo blocco più grande dei deputati nel nuovo gruppo.
Tradizionalmente, la Tunisia del Sud ha sempre guardato di più verso l’Egitto e l’Arabia Saudita rispetto alle città costiere più ricche e alla capitale Tunisi. Dopo aver ottenuto l’indipendenza nel 1956, i cittadini del Sud sognavano il panarabismo, cosa che però li metteva in rotta di collisione con il fondatore dell’attuale Tunisia, Habib Bourguiba. Il nuovo presidente è l’erede della convinzione di Bourguiba, ovvero il fatto che alle donne debbano essere concessi gli stessi diritti degli uomini. La Tunisia accetta il governo libico di Tobruk riconosciuto a livello internazionale, tuttavia molti nella Tunisia meridionale propendono verso il dissidente governo islamista a Tripoli, città che si trova vicino alla frontiera. Il Sud del Paese ha dipeso a lungo dai posti di lavori in Libia piuttosto che dalla Tunisia stessa e perciò qualsiasi intervento da parte dell’Occidente potrebbe infiammare quell’area del Paese.
L’esperienza dell’Algeria
Dal canto suo, l’Algeria ha subito l’umiliazione dell’invasione, nel gennaio 2013, del giacimento di gas di In Amenas, località vicino al confine che separa l’Algeria dalla Libia, da parte di terroristi provenienti dalla Libia. Nell’attacco quaranta operai persero la vita e, di conseguenza, la produzione fu interrotta per oltre un anno. Così da quel momento il confine tra l’Algeria e la Libia è stato rinforzato e si è ricorsi anche all’adozione di nuove armi. Tutto ciò coincide con le folli e massicce spese, a partire dal 2000, da parte dell’esercito algerino. Queste, infatti, mirano a sostituire il vecchio armamento sovietico con uno più moderno e sofisticato – in cui appaiono in gran parte russi ma anche tedeschi, italiani e americani. Pertanto l’Algeria costruirà il primo drone supersonico africano seguendo l’esempio del Kosovo, Iraq e Siria, vale a dire l’inizio di una guerra asimmetrica. Nel corso di questi eventi Algeria è diventata uno dei dieci, principali Paesi per l’importazione di armi nel mondo e nell’Africa.
Inoltre anche l’esercito è stato ridistribuito a livello geografico. Dalla fine degli anni ’90, le priorità della sicurezza dell’Algeria sono cambiate e l’attenzione si è allontanata dal Marocco, dove il contenzioso riguardante lo status internazionale dell’ex colonia spagnola del Sahara occidentale ha messo in opposizione i due Paesi dal 1975. Invece, la lotta al terrorismo islamico è diventata il punto principale all’ordine del giorno sia nella stessa Algeria sia lungo i confini del Mali, del Niger, della Libia, della Tunisia e anche oltre. Infatti tutto questo ha dato luogo a nuove preoccupazioni e allo spiegamento delle truppe lungo i confini deserti del Paese da Sud a Est.
È stato proprio il fallito tentativo dell’Algeria di introdurre nel 1989-92 riforme politiche ed economiche coraggiose, a obbligare le sue forze di sicurezza e l’esercito a imparare a proprie spese come far fronte all’islamismo radicale. Un tempo guardata con sospetto dalle capitali occidentali, l’Algeria che ha tenuto il comando dell’Assemblea nazionale africana (ANC) e dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (PLO), è diventato un Paese pronto a mantenere lo status quo nell’Africa Nord occidentale. I leader avevano avvertito gli Stati occidentali circa le probabili conseguenze del loro intervento in Libia nella primavera del 2011, ma la loro raccomandazione è stata ignorata. A Parigi, a Londra e a Washington, l’arte del pensiero geo strategico sembrava essere stata “dimenticata quasi del tutto” – come disse un ambasciatore americano che conosce la regione.
Dal 1962, anno in cui il Paese ha conquistato l’indipendenza, la dottrina militare algerina è stata in genere molto restia a consentire un intervento armato oltre i confini del Paese, il più grande dell’Africa. Attualmente, il ministro degli Esteri è Ramtane Lamamra, ex ambasciatore a Washington, alle Nazioni Unite e all’Organizzazione per l’Unità Africana (OUA), il quale proprio per le cariche rivestite precedentemente ha una profonda conoscenza del Paese ed è consapevole dell’intricata natura della crisi in Libia. Inoltre sa bene che non c’è una soluzione immediata all’enorme caos generato dall’intervento occidentale in Libia.
Si tratta di una precauzione condivisa sia dal suo presidente sia da quello della Tunisia. Infatti oggi l’Algeria e la Tunisia cooperano strettamente poiché cercano di rendere sicuro il loro confine comune. È semplice fare, a Parigi e a Roma, discorsi a vanvera sull’intervento militare, quando invece l’Europa non è disposta a intervenire. L’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno capito che né la Tunisia né l’Algeria condividono il programma dell’Egitto. Potrebbero quindi fare molto di più che ascoltare, e cooperare pienamente con i due Paesi del Maghreb, i quali hanno molto da perdere dal crescente caos in Libia.