[Nota: Questo articolo è stato scritto per Voci Globali da Elena Paparelli. L’autrice, giornalista free lance, lavora attualmente a Rainet . Ha pubblicato il libro “Technovintage-Storia romantica degli strumenti di comunicazione” (Tunué), “Donne di fiori” (Morellini), “Da posta a post@ – La cartolina ai tempi di internet” (Tunué).]
“In questi anni la fotografia è sempre stata per me un elemento fondamentale di informazione, sensibilizzazione e denuncia“. Lo dice la fotoreporter Sara Prestianni che nel 2011 ha pubblicato, con Michel Agier, il libro “Je me suis refugié la. Bours de route en exil“, (ed. Donner Lieu), in cui racconta degli accampamenti dei migranti alle frontiere interne ed esterne, visibili e invisibili, da Patrasso a Roma, da Parigi a Calais. Laureata in scienze politiche, Sara ha cominciato ad interessarsi al fenomeno della migrazione durante il percorso universitario. Dopo un Master in Mediazione Intermediterranea e uno stage di formazione come assistente giuridico all’aereoporto di Parigi per i richiedenti asilo detenuti in zona internazionale, è partita con l’associazione Migreurop in Spagna, a Malaga.
“Là – racconta Sara – ho cominciato i miei primi lavori di reportage/inchiesta. Era il 2006. Centinaia di migranti tentavano il passaggio in Europa ‘assaltando’ la frontiera che separa le enclavi di Ceuta e Melilla dal Marocco. Pochi mesi prima decine di migranti avevano perso la vita ai piedi di queste frontiere, uccisi dalla polizia marocchina e spagnola, che non aveva esitato ad aprire il fuoco per proteggere le frontiere europee. In quei mesi ho fatto anche vari viaggi alle Canarie“. Il rafforzamento delle barriere a Ceuta e Melilla avevano obbligato i migranti a cercare nuovi punti di accesso al territorio europeo. Nuove rotte, più lunghe e pericolose. “Si cominciava a partire dalla Mauritania e poi, sempre più a Sud dal Senegal. Il viaggio durava 15 giorni. L’oceano Atlantico visse in quei due anni un’ecatombe“.
Tornata a Parigi Sara è stata coordinatrice di Migreurop, la rete euro-africana che fa da “osservatorio” delle violazioni dei diritti umani alle frontiere. “Il mio lavoro si svolgeva alle frontiere interne dell’Europa: Grecia e Spagna, da Calais a Lampedusa, e a quelle esterne, da Tinzaouaten (frontiera Algeria/Mali) a Oujda (Marocco/Algeria) fino a Dakar. Ma facevo anche un lavoro di sensibilizzazione e informazione rivolto alla società civile e alle istituzioni, soprattutto europee, prime responsabili delle violazioni dei diritti dei migranti“. Tra le altre attività, uno studio per la commissione LIBE del Parlamento europeo, riguardante i centri di accoglienza, detenzione e transito di Italia, Spagna e Slovenia. Poi, la partenza per il Mali e il Senegal come coordinatrice della rete JSFM (Justice sans frontières pour les migrants) e l’impegno nelle attività della CADH (Corte africana dei diritti dell’uomo).
Dal 2013 svolge attività di consulenza per organizzazioni internazionali sempre nell’ambito della migrazione. Nel suo lavoro fotografico ha scelto di dedicarsi al fenomeno della migrazione, in tutti i suoi aspetti.
Sara, fra le mete dei tuoi reportage fotografici c’è anche l’Africa. Quali sono le zone che hai attraversato e quali impressioni hai riportato da quesi viaggi?
Dell’Africa conosco soprattutto il Maghreb e alcuni paesi dell’Africa Subshariana: Mali, Senegal, Niger, Burkina Faso. Il Paese che più mi ha colpito è il Mali, sia per esserci stata svariate volte, sia per l’evoluzione politica che ho percepito durante i vari viaggi, a distanza di pochi anni. La prima volta che sono arrivata a Bamako era il 2007. Con un autobus sono arrivata fino a Gao, e poi in 4×4 fino a Kidal. Nell’estremo Nord. L’idea era quella di fotografare e raccogliere le testimonianze dei migranti espulsi dall’Algeria, in mezzo al deserto. La ribellione era già una presenza ingombrante nella regione, ma la situazione per gli occidentali sembrava tranquilla. Solo dopo qualche mese ci sono stati i primi rapimenti e quella zona è diventata off limits. Nell’ottobre del 2008, con un’organizzazione umanitaria decidiamo però di fare una missione fino a Tinzaouaten, la frontiera tra l’Algeria e il Mali. In questo no man’s land desertico sono “gettati come spazzatura” – cosi come loro stessi dicono – centinaia di migranti. Tinzaouaten è anche chiamata la “città della follia” per le condizioni di vita che vi trovano i migranti respinti. Nel giro di pochi mesi il grande Nord è diventato impraticabile per i “bianchi”. Mi ero trasferita a vivere a Bamako da poche settimane quando, nel gennaio del 2012, il governo di ATT è stato rovesciato da un colpo di Stato. Così ho lasciato il Paese, ma solo per qualche mese perché sono tornata a marzo, in pieno conflitto. Quando sono tornata in Europa ho raccontato quello che avevo visto ma poi mi sono concentrata sopratutto sulle storie dei sfollati. Di chi, obbligato a lasciare il grande Nord, ha trovato rifugio nelle case dei familiari a Bamako, o nel centro di accoglienza di Mopti. Ho seguito i profughi del Mali fino in Burkina Faso. Nel campo di Sagniogo ho trovato principalmente tuareg che fuggivano eventuali ripercussioni dell’esercito nazionale che li accusava di alleanza con i ribelli.
La fotografia come “azione immediata”: ma dietro i tuoi scatti ci sono tante storie di difficoltà e sofferenza…
L’obiettivo delle mie foto è quello di raccontare le difficoltà e sofferenze che derivano principalmente da un rafforzamento delle politiche repressive nell’ambito dell’immigrazione. Rinforzare una frontiera non provoca l’arresto del fenomeno migratorio, ma ha come principale effetto che l’accesso al territorio europeo diventi più difficile, più lungo e più caro. Portando con sè un numero di morti sempre maggiori. Pensiamo al Mediterraneo che si è ormai trasformato in un cimitero liquido. Ma non bisogna, a mio parere, limitarsi a questo aspetto. Quando sono a Calais, Patrasso, negli squat occupati della periferia di Roma, è per me fondamentale anche raccontare come uomini e donne, pur subendo quotidianamente un trattamento inumano e degradante e vivendo in condizioni di degrado, conservano una profonda dignità. Una dignità che traspare dai loro sguardi dritti nella camera.
La fotografia come “esercizio di osservazione” continua: quali fra le tue foto sono legate a esperienze/riflessioni particolarmente significative nel tuo percorso di vita?
Ogni reportage è legato a una esperienza significativa, in quanto tassello di una storia. Il lavoro che più mi ha marcato è probabilmente quello in Libia. Dopo anni che lavoravo alla raccolta di testimonianze sul trattamento dei migranti nel Paese, con la difficoltà di entrare nel Paese durante la dittatura di Gheddafi, il viaggio fatto nel giugno del 2012 mi ha permesso di visualizzare la tragica realtà che avevo ricostruito attraverso le testimonianze raccolte. Purtroppo, quanto al trattamento dei migranti, il nuovo governo libico non è migliorato rispetto a Gheddafi. Semmai è peggiorato, con la sola differenza che ora l’accesso al Paese è più facile. Osservare centinaia di uomini e donne rinchiusi in gabbie per mesi e mesi per il solo fatto di cercare di fuggire da persecuzioni; vedere le case in cui si nascondono somali ed eritrei, nel terrore continuo di essere vittime di vessazioni da parte dei vicini per il semplice fatto di essere stranieri, è stato un esercizio fondamentale quanto difficile. Sentire l’importanza di portare, attraverso uno scatto, le storie di questi soprusi al di là di quelle gabbie. Da questo lato del Mediterraneo. Avevo sentito queste storie per anni. Vederle e fotografarle è stato di una crudezza ancora più profonda. Qualcosa che mi ha segnato.