Nella classifica dei 166 Paesi del mondo il Benin si colloca al 142esimo posto per quel che riguarda il Prodotto Interno Lordo pro capite. L’economia di questo Paese così povero si basa su un’agricoltura prettamente di sussistenza, ma nel corso degli ultimi anni, si è fatta strada, in questo come nei Paesi confinanti – Senegal e Burkina Faso – una nuova metodologia di coltivazione chiamata permacultura.
La permacultura nasce in Australia come modello di agricoltura sostenibile intorno al 1978, grazie agli studi condotti da Bill Mollison e David Holmgren che cercarono di conciliare attività e bisogni umani con quelli della natura, puntando alla costruzione di un equilibro fra ambiente naturale e ambiente antropizzato. Successivamente, da sistema di agricoltura sostenibile basata sulla coltivazione consociata di alberi perenni, arbusti, erbacee, funghi e tuberi, essa è arrivata a significare molto più che un metodo di agricoltura biologica e finalizzato solo all’autosufficienza dell’alimentazione della famiglia.
L’autosufficienza, in ogni caso, non è possibile se la gente non ha accesso alla terra, all’informazione e soprattutto alle risorse economiche. Così, negli anni più recenti la permacultura ha iniziato a riflettere le trasformazioni intervenute, nei sistemi di valori e di conoscenza, occupandosi anche delle strategie per l’accesso alla terra e delle strutture di autofinanziamento regionale. Nel caso specifico del Benin, il punto nodale risiede nel garantire l’accesso ai terreni a tutti coloro che vogliono coltivarla e non solo ad una ristretta fascia di individui, magari vicino a chi detiene il potere. Un accesso non più “esclusivo” alle terre, condurrebbe inoltre all’affrancamento da una condizione di immobilità sociale in cui vive larga parte della popolazione.
Anche a sostegno di questo urgente bisogno e grazie al supporto dei finanziamenti ricevuti dalla Comunità Europea, dal 3 al 21 aprile scorso si è svolto in Benin un corso di formazione incentrato appunto sulla metodologia e sui principi della permacultura.
Il corso, supervisionato e condotto dal rettore dell’Università francese di permacultura, Steve Read, è stato parte integrante del progetto International Youth Cooperation For Sustainability finanziato dai Programmi comunitari europei.
Al periodo di formazione hanno partecipato 18 ragazzi provenienti dai 5 Paesi partner del progetto: Francia, Italia, Estonia, Senegal e Benin unendo motivazione e saperi da spendere in un territorio tanto lontano, quanto realmente conosciuto solo da chi vi abita.
Il 3 aprile, a Porto Novo, nella sede messa a disposizione dal Comune di Akpro-Misserete, si è svolta la prima giornata di dibattito che ha fatto da “finestra” ai temi che il corso ha poi sviluppato, coinvolgendo la presenza delle autorità locali e i rappresentanti di alcune Ong. Il primo passo è stato capire se sul piano della prassi, i principi cardine della permacultura fossero concretamente applicabili in questa parte del mondo e non si limitassero a chimere rincorse da cuori colmi di speranza. Dal periodo di formazione è emerso come non solo la permacultura sia una tipologia di coltivazione già largamente utilizzata in Benin e nel Burkina, ma quanto essa possa apportare un consistente miglioramento all’economia dei Paesi africani (e non solo), a patto però di una presa di coscienza e della messa in atto di buone politiche da parte degli amministratori locali.
Emblematico è stato il mio incontro con alcuni ragazzi di Porto Novo, rappresentanti di ONG locali, che mi hanno illustrato alcuni progetti fondati sulle linee d’azione sposate dalla permacultura. Uno di loro, Ibrahim, appena 22 anni, è già presidente e fondatore di un’Associazione, Itinerance, con sede a Ouaga in Burkina Faso. Ibrahim, dopo aver visitato numerosi villaggi del Burkina si appresta ora a fare lo stesso in Benin, conducendo una battaglia contro l’ignoranza e la disinformazione attraverso una campagna di sensibilizzazione verso l’impiego di forme di agricoltura sostenibile. Come ci ha spiegato:
Spesso i coltivatori ricorrono a questi sistemi di coltivazione senza saperlo, per pura intuizione. Non è raro infatti trovare radici di piante diverse assemblate in unico spazio di terra. Le coltivazioni a ciclo corto di mais e di manioca sono gli esempi più comuni da osservare. Vengono chiamate a “ciclo corto” perché i tempi di produzione sono dimezzati.
Secondo Ibrahim, la permacultura può costituire un’autentica svolta per l’economia del Paese. L’Africa è ricca di distese di terra che però bisogna sottrarre agli utilizzi scorretti o alla cosiddetta pratica del land grabbing che consiste nel permettere a Stati esteri e multinazionali di utilizzare le terre per la produzione alimentare in larga scala, o per la produzione di biocombustibili, a discapito dell’economia e della produzione alimentare locale.
La direzione perseguita da Ibrahim e da quanti collaborano con la sua Associazione è quella di costruire degli “ecovillaggi” composti da 20 – 30 persone al massimo, basati su sistemi di riciclo delle risorse territoriali, dove vengano posti in primo piano i principi di utilizzo di energie rinnovabili, la difesa dell’ambiente e dell’economia locale, sistemi di irrigazione strettamente correlati alla morfologia dei terreni e uno spirito di cooperazione fondato su un senso del “noi” che costituisce la base irriducibile per il rispetto della vita presente, ma anche di quella delle generazioni future.