19 Marzo 2024

Ghayath Almadhoun, quando il dolore diventa poesia

Sono una macchina che genera poesia e la mia poesia non è nient’altro che l’espressione, il risultato della mia vita. È come uno specchio rotto che riflette la vita, l’intera vita, fatta di letture, memorie, esperienze”. Quelle di Ghayath Almadhoun sono esperienze tali da cambiartela la vita, rivoltarla, farla in mille pezzi, appunto, da ricomporre – o anche da lasciare lì, dolorosamente taglianti.

Madre siriana, padre palestinese, Ghayath, ha vissuto per tutta la sua vita come figlio di una diaspora forzata. Come rifugiato, esiliato, o – lasciando da parte le etichette – semplicemente come un viaggiatore. Un viaggiatore che ama Walt Whitman e Baudelaire, ma soprattutto i grandi poeti arabi della poesia postmoderna del IX e X secolo.

Nato nel 1979 a Damasco, in un luogo che dopo il 1948 era stato un campo profughi, dove il padre era stato forzato a vivere cacciato dalla sua terra occupata, senza documenti da sempre come altre migliaia di persone che in Siria non hanno diritto alla nazionalità – e dunque non hanno diritti – Ghayath nel 2008 colse al volo un’occasione e sapeva che sarebbe stata forse l’unica che la vita gli avrebbe offerto: un invito ad un Festival della poesia in Svezia. Da quel Paese non sarebbe più  rientrato in Siria. La Svezia gli ha fornito – finalmente – dei documenti, un passaporto e di certo un’esistenza diversa. Lui, riconosciuto come rifugiato che scappava da una dittatura, ha cominciato da lì a girare il mondo – quasi come un forsennato – sempre a parlare di poesia, a declamare poesie o lunghi poemi, i suoi lavori, frutto della sua esperienza.

Con un senso diverso, sicuramente, di come avveniva quando ancora viveva a Damasco. Non che in quel Paese gli sia mai mancata la possibilità di scrivere, di poetare. “In Siria – racconta a Voci Globali – puoi scrivere quello che vuoi, criticare quanto vuoi e non ti accade niente, ma è quando cerchi di cambiare le cose, quando cerchi il cambiamento con l’azione, allora sì che accade qualcosa. Accade che la persona scompare, la sua famiglia viene uccisa, la sua città rasa la suolo”. Così si cancella la dissidenza in Siria.

Quella siriana non è una dittatura classica, come tutte quelle che abbiamo conosciuto o studiato, è molto più intelligente – continua -. Loro sono più intelligenti. ‘Scrivi pure quello che vuoi’… Poi però la rivoluzione la cancellano cancellando totalmente persone e città”.

Foto di ©Antonella Sinopoli

Incontriamo Ghayath nel corso della seconda edizione del Festival Internazionale di Poesia, Video e Arti Visive organizzato dalla Macchina Sognante e ospitato a Forlì e Cesenatico. In questo contesto – tra le altre cose – è stato presentato al pubblico italiano un video di estrema forza visiva e impatto emotivo, “The Celebration“.

Si tratta di un lavoro del 2014 – realizzato insieme con Marie Silkeberg che fa parte di un progetto più ampio, un gruppo di 5 “poetry films“, avviato con Stoccolma/Gaza nel 2009.

Il testo usato – qui in italiano – è tratto dal poema I dettagli, di cui utilizza una parte. Le parole sovrastano (e ne sono sovrastate) immagini di repertorio del bombardamento di Berlino nel luglio 1945.  Sono immagini in copyright che però Ghayath ha deciso di  violare. “Si tratta di un evento che riguarda il mondo intero e quindi anche quelle immagini sono patrimonio dell’umanità, non dovrebbero ‘appartenere’ a qualcuno”.

 

Ma le ragioni per cui il poeta  ha deciso di rischiare utilizzando quelle immagini è forse ancora più importante. Una riguarda la speranza “quella – dice Ghayath  – che come Berlino, anche la splendida Damasco, oggi distrutta, possa un giorno essere ricostruita”. L’altra ragione è legata al timore che anche Bashar al-Assad nasconda al mondo immagini/testimonianza, che danno la misura di quanto è accaduto e sta accadendo laggiù, che vengano celati per sempre allo sguardo del mondo documenti che, invece, sono storici e come tali ‘appartengono’ al mondo intero. Perché anche se i social sono importanti nel diffondere certi eventi e immagini, i “documenti di Stato” hanno un loro peso.

Ghayath vive di fatto in esilio e di questa condizione è piena anche la sua poetica, fatta di esperienze, appunto, oltre che di ricordi. Una condizione in qualche modo privilegiata, almeno agli occhi del poeta. “Provo tristezza per coloro che non hanno mai sperimentato l’esilio. È qualcosa di importante per la poesia, per la scrittura. Vedi Brecht, vedi Arendt, e tutti coloro che dall’esilio hanno tratto ispirazione per le loro opere. La letteratura è piena di questi esempi. Non a caso ci sono oggi scrittori europei che l’esilio vanno a cercarselo, con le scholarship per esempio, una sorta di metafora dell’allontanamento, dell’esilio, appunto. ”.  “Scrivere però – chiarisce Ghayatah – è difficile, è una responsabilità: aggiungere qualcosa di unico all’esistente”.

Ma ci sono esili che – nei cittadini comuni – non lasciano spazio alla creatività. Sono esili dolorosi e forzati più di qualunque altro.  L’esilio degli immigrati, l’esilio dei rifugiati. “Dopo la Seconda guerra mondiale è rimasto solo un popolo a pagare per tutti, a pagare per tutti  i crimini del Nazismo, il popolo palestinese. Gli ebrei presero la terra come soluzione, per costruire una sola nazione che fosse la loro e per i palestinesi non c’è stato più spazio”.

La poetica di Ghayath  Almadhoun non è altro, dunque, che il riflesso della sua storia, ma anche di tante storie. Nel conflitto siriano ha già perso 300 amici e membri della sua famiglia,  il fratello poche settimane fa, ma se cerchiamo di soffermarci su questo aspetto quasi si arrabbia e risponde “chiedete ai due milioni di morti che ha già fatto questa dittatura, chiedete ai loro parenti”.

E allora bisogna affidarsi alla parola poetica, che dalla vita non si allontana e da questa vita non si sottrae. Sarebbe impossibile. “Quando tutto questo sarà finito scriverò d’altro, i miei versi saranno diversi. Ora sono un po’ bui, lo so, ma sento che le persone sono toccate dalle mie parole. In un modo positivo o anche negativo, ma sono toccate. Purtroppo, però, la poesia non è ovunque, come vorrei che fosse. Quelli che amano, la poesia, sono persone uniche ”.

Ghayath ha già pubblicato 4 collezioni di poesie, l’ultima – dal titolo “Adrenaline” – quest’anno a Milano. Le sue opere sono state tradotte in 14 lingue e molte sono state le installazioni realizzate con i suoi poemi.

Il suo sito è una polveriera di parole, immagini, emozioni.

Antonella Sinopoli

Giornalista professionista. Per anni redattore e responsabile di sede all'AdnKronos. Scrive di Africa anche su Nigrizia, Valigia Blu, Ghanaway, e all'occasione su altre riviste specializzate. Si interessa e scrive di questioni che riguardano il continente africano, di diritti umani, questioni sociali, letteratura e poesia africana. Ha viaggiato molto prima di fermarsi in Ghana e decidere di ripartire da lì. Ma continua ad esplorare, in uno stato di celata, perenne inquietudine. Direttore responsabile di Voci Globali. Fondatrice del progetto AfroWomenPoetry. Co-fondatrice e coordinatrice del progetto OneGlobalVoice, Uniti e Unici nel valore della diversità.

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