28 Marzo 2024

Verso l’abolizione della pena di morte, questione di attivismo

[Nota: traduzione a cura di Daniela Versace dall’articolo originale di William Schabas su OupBlog e ripreso dagli studenti del PhD Studies in Human Rights]

È da dieci anni che il 10 ottobre si celebra la Giornata mondiale contro la pena di morte, importante tappa per il movimento globale contro la pena capitale. Ed è dagli anni ‘70 che Amnesty International conduce campagne sull’argomento. Ma è sin dai primi del Novecento che il movimento ha iniziato a crescere e, regolarmente, si sono tenuti congressi in tutto il mondo per sostenerne l’abolizione; vi è anche una prestigiosa commissione internazionale che di frequente interviene con annunci e dichiarazioni. Nel 2007, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione contenente una moratoria globale sulle esecuzioni. Da allora, simili provvedimenti sono stati presi ad intervalli di due anni, e ogni volta con una maggioranza sempre più estesa.

Quasi quarant’anni fa, nel suo primo rapporto periodico sulla pena di morte, il Segretario Generale delle  Nazioni Unite ha riferito che non sarebbe stato possibile individuare in maniera attendibile le tendenze relative alle esecuzioni capitali; a quel tempo, gran parte degli Stati che conservavano il ricorso alla pena capitale nel loro sistema giuridico ne imponevano l’applicazione mentre solo una decina l’aveva abolita completamente. Tra questi, al fine di aumentare il numero degli Stati abolizionisti, il Segretario Generale delle Nazioni Unite incluse quelli che non la eseguivano più, quantomeno per i ‘crimini ordinari’, pur non avendola ufficialmente abolita, riconoscendo però il fatto che molti Paesi continuavano comunque a ricorrervi in tempo di guerra e in situazioni di emergenza. Anche il Consiglio d’Europa, nel 1983, è intervenuto con un Protocollo alla Convenzione europea sui diritti umani che ha proclamato l’abolizione della pena di morte, anche se solo in tempi di pace.

Articolo 2 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. CC-BY-SA. Foto di Trounce/Wikimedia Commons.

Vediamo come sono cambiate le cose. Dobbiamo sottolineare, innanzitutto, che quegli Stati che continuano ad applicare la pena di morte non possono negare di andare contro una forte tendenza globale. Infatti, sin dal 1980, circa tre Paesi all’anno si sono schierati con il fronte abolizionista, così,  se nel 1973 erano solo 30 gli Stati abolizionisti ora sono più di 150.

Molti Stati hanno abolito la pena capitale attraverso riforme legislative, qualche volta accompagnate da emendamenti costituzionali. Ma un numero significativo ha semplicemente interrotto le esecuzioni, oppure è ricorso a moratorie proclamate ufficialmente.

Passati 10 anni senza nemmeno ricorrere ad un’esecuzione, le Nazioni Unite considerano abolizionisti di fatto tali Stati e proprio nel rapporto del Segretario Generale del 2009 si dimostra come difficilmente gli Stati che non abbiano erogato sanzioni capitali per almeno 10 anni ritornino alla vecchia pratica. Lo stesso accade quando l’abolizione viene sancita per legge. Negli ultimi decenni solo in un caso c’è stato un ritorno alla pena di morte: nelle Filippine, ma solo temporaneamente. L’abolizione è, sostanzialmente, una strada a senso unico.

L’analisi del numero di Paesi abolizionisti o meno permette di cogliere solo parzialmente le dinamiche che sottendono questo processo.

È invece significativo osservare che molti Stati, tra quelli appartenenti all’ormai esigua categoria di chi continua ad applicare tale misura estrema, in realtà vi fanno ricorso sempre  meno. Dei 40 Stati che ancora eseguono la pena di morte, solo una ventina lo fa con cadenza annuale. Gli Stati Uniti e la Cina sono tra questi, ma entrambi, rispetto a una decina di anni fa, registrano un calo di circa un terzo nell’applicazione della pena capitale. Sia che i numeri si riferiscano agli Stati abolizionisti sia agli Stati che perseverano nelle esecuzioni capitali, le statistiche raccontano la stessa storia, e non solo la tendenza sembra inarrestabile ma pare addirittura in accelerazione.

Diverse solo le regioni del mondo che non ricorrono più alla pena capitale. Negli anni recenti, in Occidente, le uniche esecuzioni si sono registrate negli Stati Uniti, soprattutto negli ex stati schiavisti, caratterizzati da sistemi giuridici che ancora riflettono la brutalità e il razzismo dei loro antenati. La Bielorussia è, invece, l’unica nazione europea a conservare questa pratica, con due o tre esecuzioni l’anno. Quanto agli Stati africani, solo pochi, concentrati essenzialmente nel Nord-Est del continente, applicano regolarmente la pena capitale. Nessuno degli Stati della ‘Primavera araba’ – Egitto, Libia, Tunisia −   riporta un’esecuzione dal 2011, stando al rapporto annuale di Amnesty International.

Così, la pena capitale resta oggi, principalmente, un fenomeno asiatico, ma il continente è ben lontano dal presentarsi come una realtà omogenea. La maggior parte dell’Asia del Sud e Sud-Est, inclusi la Cambogia, la Birmania, le Filippine, la Tailandia, il Nepal e lo Sri Lanka, hanno posto fine alle esecuzioni capitali. L’India, il Pakistan e il Bangladesh si mantengono su un numero ridotto di esecuzioni. In Cina, invece, il numero risulta essere spaventosamente alto, ma anche qui si registra una rapida diminuzione; gli studenti cinesi e i giuristi premono affinché il Paese l’abolisca definitivamente.

Fanalini di coda del continente asiatico restano l’Iran, l’Iraq, l’Arabia Saudita e alcuni degli Stati limitrofi. Questi rimangono profondamenti legati all’uso della pena capitale, offrendo giustificazioni, davvero poco convincenti, basate sulle Scritture. Infatti, in questi Paesi la pena capitale è applicata per lo più per reati quali il traffico di droga, comportamento su cui i testi religiosi non prendono posizione. La verità è che il ricorso alla pena capitale continua non perché i leader politici siano pii e devoti ma per il loro carattere autocratico e repressivo.

In questo autorevole testo dal titolo The Better Angels of our Nature, Steven Pinker colloca la diminuzione del ricorso alla pena capitale nel tema più generale della riduzione della violenza istituzionalizzata. La sua interessante tesi può essere sintetizzata così: il mondo è sempre meno violento, come dimostrano le tendenze relative al tipo di sanzioni, i conflitti armati e i crimini ordinari commessi. Dalla sua osservazione ne scaturisce però un’altra: l’abolizione della pena capitale ha rappresentato un tema centrale nell’ambito del moderno movimento per i diritti umani.

Semplici statistiche confermano il minor numero di esecuzioni capitali rispetto al passato e parte del merito dei risultati ottenuti va proprio al suddetto movimento. Su molte altre questioni, come la discriminazione razziale o di genere e la pratica della tortura, non ci sono grandi analisi di tipo quantitativo come è invece per la pena di morte. Ma il fatto di avere numeri accurati a disposizione in questo caso specifico, può essere considerato un utile metro di giudizio che ci segnala una più ampia e generale tendenza al miglioramento nel campo dei diritti umani. Il fatto che ci siano assai meno esecuzioni capitali che nel passato può essere considerato l’indicatore di un profondo miglioramento anche in quegli altri ambiti, la cui quantificazione risulta però meno chiara: ecco perché diverse sono le ragioni che rendono il 10 ottobre una ricorrenza importante.

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