Voci Globali

Fermare le violenze alle frontiere, lo chiedono i cittadini europei

Nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti

Il principale obbligo degli Stati membri dell’Unione Europea consiste nel “riconoscere a ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà enunciate nel Titolo I della presente Convenzione“.

Questo campeggia all’inizio del Toolkit che la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) dedica ad agenti delle forze dell’ordine, funzionari dell’immigrazione, personale di strutture di accoglienza per persone vulnerabili, assistenti sociali, ecc…, come guida ai “diritti conferiti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli e ai relativi obblighi spettanti agli Stati”.

In particolare, la Convezione stabilisce, all’articolo 3, che “Nessuno può essere sottoposto a tortura o a trattamenti inumani e degradanti”. Come scritto dallo stesso Consiglio d’Europa, si tratta di uno dei rari casi in cui le disposizioni della Convenzione non consentono alcuna eccezione o limitazione: né l’interesse generale, né i diritti altrui, né la condotta personale, né contesti dichiarati emergenziali possono giustificare i trattamenti vietati da questo articolo.

Tale divieto è presente anche in molte Convenzioni internazionali e, ovviamente, all’interno della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani che lo ricorda all’articolo 5.

E lo ribadisce l’Unione Europea nell’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE o “Carta dell’UE”). Questa, pur essendo limitata alle sole materie di competenza della Commissione Europea (la CEDU si applica in modo ampio e generale invece), ha un impatto più forte, diretto e immediato sugli ordinamenti giuridici nazionali comprensivi “di trasferimenti di sovranità” all’UE.

Il divieto di tortura diventa divieto di estradizione verso un altro Stato qualora vi siano ragioni per ritenere che lì la persona rischi di essere sottoposta a tortura (principio del «non-refoulement» o non respingimento).

Eppure…

Che in Europa sia vietato operare tortura o trattamenti inumani e degradanti potrebbe, a primo avviso, apparire scontato. E, in genere, lo è. Ma non sempre, non dovunque e non per tutte le persone.

Per le persone migranti non è così.

I rapporti di organizzazioni e associazioni (es: UNHCR, Amnesty International, MSF o Human Rights Watch), varie inchieste giornalistiche, le numerose testimonianze delle vittime (ad esempio quelle raccolte da Refugees in Libya) raccontano di torture, stupri e minacce nei centri di detenzione della Libia, Paese con il quale l’Italia ha stretto accordi (Memorandum) per il controllo delle partenze, e – di recente – del deserto tra la Tunisia e la Libia.

Raccontano di condizioni di estremo degrado nei campi in Grecia e in Bosnia, dove sovraffollamento, assenza di sevizi igienici e di assistenza mettono a rischio la vita dei soggetti più vulnerabili; dell’uso spropositato della forza e di episodi ripetuti di vera e propria tortura da parte della polizia croata nei confronti di richiedenti asilo alla frontiera con la Serbia e la Bosnia; di situazioni di detenzione illegale di migranti in diversi Paesi della UE o finanziati dalla UE, di respingimenti violenti lungo tutte le frontiere d’Europa, di sospensione di fatto del diritto a richiedere asilo.

Immagine tratta dal sito dell’associazione Stop Border Violence, gentilmente concessa

L’ICE di Stop Border Violence

Per questo, proprio in relazione all’articolo 4 CDFUE, un gruppo di attivisti per i diritti umani si è recentemente costituito nell’associazione Stop Border Violence e ha presentato alla Commissione Europea il testo di una Iniziativa dei Cittadini Europei (ICE/ECI: European Citizen Initiative) dal titolo “Articolo 4: Stop tortura e trattamenti disumani alle frontiere dell’Europa”.

La richiesta oggetto della campagna è quella di tutelare le persone migranti o richiedenti asilo:

Il 12 gennaio 2023 la Commissione europea ha registrato l’ICE di Stop Border Violence e dal 10 luglio 2023 è stata ufficialmente avviata la campagna europea di raccolta firme. L’iniziativa sollecita, quindi, l’istituzione di un quadro teso a garantire il rispetto del divieto della violenza e dei trattamenti inumani e degradanti sancito dalla Carta dell’UE.

Iniziativa dei Cittadini Europei

L’ICE è uno strumento di democrazia partecipativa dell’UE, grazie alla quale un milione di persone residenti in un quarto almeno degli Stati membri può chiedere alla Commissione di presentare un atto legislativo finalizzato all’attuazione dei trattati europei.

Se si riuscirà a raggiungere l’obiettivo (ambizioso) di raccogliere un milione di firme in Europa superando una soglia minima in almeno sette Stati membri entro un anno, la Commissione sarà tenuta a prevedere strumenti legislativi idonei a implementare quanto disposto dal testo dell’ICE o a giustificare pubblicamente l’eventuale non accoglimento della richiesta.

Maggiori informazioni su cosa sia e come funzioni un’ICE si possono trovare sulla Piattaforma ufficiale.

Per comprendere meglio

Proviamo a capirne di più, parlando con alcune delle persone che formano il Comitato promotore dell’iniziativa.

Hanno risposto alle nostre domande Marco Ciurcina (Italia), avvocato, docente di Diritto ed etica della comunicazione presso il Politecnico di Torino e attivista per la promozione dei diritti fondamentali nel digitale, Debora Camarda (Spagna), componente del Consiglio Direttivo e responsabile degli Equipaggi di Terra di Mediterranea Saving Humans, Francesco Cibati (Italia), documentarista e lavoratore autonomo, co-fondatore di Linea d’Ombra, e Maria Cristina Francesconi (Germania), interprete e attivista per i diritti delle persone migranti.

Iniziamo dallo strumento: l’ICE, secondo l’avvocato Ciurcina, “permette ai cittadini di far sentire la propria voce e di costruire sensibilità su temi importanti. Questo è certamente positivo anche perché aumenta la fiducia nelle Istituzione UE”.

Nello specifico, sulla solidità dell’impianto dell’ICE di Stop Border Violence, Ciurcina specifica come l’Iniziativa abbia già “passato il vaglio della Commissione UE, che l’ha approvata dopo aver verificato che avesse i requisiti per essere portata all’attenzione dei cittadini europei”.

Dopo l’autorizzazione, con l’avvio della raccolta firme è necessario avere il supporto di persone e associazioni all’interno di una rete distribuita sul territorio dell’Unione.

Per diffondere un’iniziativa come quella dell’ICE è importante avere una rete di associazioni e collettivi su cui poter contare”, specifica infatti Debora Camarda del Direttivo di Mediterranea. “Stiamo puntando sui contatti che Mediterranea Barcelona ha costruito nel corso del tempo e che altri componenti di SBV stanno mettendo a disposizione: è importante che la diffusione sia capillare e raggiunga il Paese nella sua interezza”.

A tal proposito Maria Cristina Francesconi aggiunge:

fare rete non è mai facile, il mondo dell’attivismo è complesso e frammentato e le energie sono poche. La difficoltà principale è essere accettati come piccolo gruppo dalle organizzazioni più grandi e convincere le associazioni più piccole che lavorano più sul campo che anche un’iniziativa istituzionale può essere vincente e dare voce a chi non ne ha.

La referente per la Germania tocca qui due punti chiave: la difficoltà di fare rete in modo sistematico e consolidato e il pregiudizio, che il gruppo organizzatore ha effettivamente riscontrato, sulla reale efficacia di una forma di lotta decisamente formale e istituzionale, assai diversa da quelle che molte persone e associazioni sono abituate a costruire e promuovere quotidianamente sui territori.

Inoltre, per Cibati una delle difficoltà nella costruzione della rete di sostegno “sta nella reale presa di responsabilità da parte delle persone e delle organizzazioni: non basta firmare per portare avanti questa ICE, dopo la firma bisogna fare da megafono”.

Questa iniziativa è anche un banco di prova sulla voglia che abbiamo, noi cittadini europei, di fare sentire la nostra voce”.

Eppure, sono un po’ scettico rispetto alla possibilità di raggiungere il quorum”, aggiunge il documentarista. La motivazione sta nella poca conoscenza dell’ICE come strumento di democrazia partecipativa. Oggi infatti, a sette anni dalla creazione (nel 2016), “meno del 3% della popolazione UE ne è al corrente”.

Attivismo chiama attivismo

Le esperienze pregresse e parallele di attivismo hanno giocato, e giocano, un ruolo non secondario nella decisione di creare e far crescere l’Iniziativa di Stop Border Violence.

A Trieste incontro ogni giorno persone migranti in arrivo dalla rotta balcanica. Sento e vedo i segni delle violenze, la consapevolezza che porta questo flusso rende impossibile chiudere gli occhi e girarsi dall’altra parte”, ci descrive il cofondatore di Linea d’Ombra.

Incontrando le persone in Piazza Libertà vediamo i morsi dei ratti, le punture di insetto che si infettano, condizioni igieniche e di salute raccapriccianti, vediamo quotidianamente i bisogni, lo stato di abbandono, la persecuzione burocratica organizzata che le persone migranti subiscono al loro arrivo in Italia. A pochi chilometri, a Gradisca, c’è un CPR che ha dato la morte a sei persone negli ultimi tre anni”.

Con Linea d’Ombra, aggiunge Cibati, “sentiamo le cose – spesso orribili – successe lungo la strada che dall’Afghanistan, dal Pakistan, dal Bangladesh porta a Trieste passando per i Balcani. Se i morti nel Mediterraneo si contano a decine di migliaia, lungo la rotta balcanica sono comunque migliaia: tutte persone con un nome, una speranza, un diritto a vivere dignitosamente”.

La tortura e i trattamenti degradanti sono una questione endemica quando si parla di migrazioni (e non solo), non bisogna nemmeno sforzarsi troppo per vederlo. Ecco perché è naturale sostenere e diffondere questa iniziativa”, conclude Cibati.

Da qualche anno faccio parte di un collettivo impegnato nel rendere visibile la situazione dei rifugiati in Libia, le omissioni delle organizzazioni internazionali e le connivenze della UE”, racconta Francesconi. “Viviamo la disperazione quotidiana di chi è bloccato in un Paese dove vengono calpestati i diritti umani, dove ogni giorno la situazione politica cambia e anche i requisiti per essere riconosciuti come rifugiati”.

Sulla stessa linea anche Debora Camarda: “con Mediterranea constatiamo quello che i trattamenti inumani provocano alle frontiere: le condizioni psico-fisiche e i racconti delle persone soccorse ci descrivono ciò che sono costrette a subire nelle carceri libiche e non solo. Vediamo nei loro occhi il terrore di essere rispediti nel Paese da cui scappano e la gioia e la gratitudine di essere al sicuro su un’imbarcazione che li porterà in un porto sicuro”.

Le organizzazioni della Civil Fleet”, aggiunge l’attivista del Direttivo di Mediterranea, “sono testimoni scomode di quanto succede nel Mediterraneo. Le nostre missioni, nell’atto di soccorrere le persone che viaggiano con barchini di fortuna, svolgono anche attività di monitoraggio, denunciando le continue incursioni della cosiddetta Guardia costiera libica che opera attraverso un’ampia fornitura italiana di imbarcazioni e armi. L’Europa, delegando a Paesi terzi il controllo delle proprie frontiere, non fa altro che chiudere gli occhi dinanzi alle atrocità perpetrate contro persone che sono semplicemente alla ricerca di un futuro diverso”.

Invito a firmare l’ICE di Stop Border Violence, disponibile sul sito dell’associazione
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