Il 18 luglio il mondo celebra il Mandela Day, un’occasione per ricordare un personaggio che ha cercato di plasmare un Sudafrica libero dal razzismo, oltre a lasciare tracce indelebili nell’evoluzione della lotta universale per i diritti e le libertà civili.
Proprio in nome di questa lotta, la giornata non è dedicata esclusivamente all’icona del popolo sudafricano, ma serve ad aprire una finestra sulle ingiustizie sociali mondiali, e a stimolare un cambiamento. Non a caso, la Nelson Mandela Foundation ha voluto dedicare l’edizione 2023 – a 10 anni dalla morte del leader dell’African National Congress e a 105 dalla sua nascita – alla sfida climatica e alla sua diretta conseguenza; l’insicurezza alimentare, causa di iniquità, sofferenza e di povertà. Clima, cibo e solidarietà è lo slogan di quest’anno.
Non c’è dubbio che la figura di Mandela richiama l’attenzione su diversi temi: la segregazione razziale, l’uguaglianza nel godimento dei diritti, la convivenza pacifica di cittadini che in quanto tali sono tutti degni di libertà, l’equa distribuzione delle risorse, l’esaltazione della diversità. Il suo disegno di una nazione arcobaleno voleva cancellare decenni di frustrazione per una popolazione arbitrariamente e violentemente divisa, che ancora oggi fatica a lasciarsi definitivamente alle spalle quel periodo.
Poche settimane fa è apparsa la notizia che un grande tennista sudafricano a cui fu impedito di competere a Wimbledon negli anni ’70 ha chiesto scuse pubbliche ai suoi organizzatori e all’organo di governo internazionale dello sport. Hoosen Bobat era entusiasta della qualificazione per il torneo junior nel 1971, in un momento in cui l’apartheid era al suo apice, ma l’invito fu annullato a solo una settimana dall’evento.
Prendo molto sul serio l’idea che il passato non sia morto, ha raccontato Badat. Il passato non è nemmeno passato. Le persone vivono oggi con questo trauma in Sudafrica, di cose accadute 50 anni fa. Queste ingiustizie stanno avendo il loro pedaggio… le persone aspettano ancora scuse.
Una piccola storia che racconta di un Sudafrica con tante ferite, figlie anche di un’Apartheid forse superata, ma non riparata del tutto. Come ha illustrato a Voci Globali Giovanni Carbone, Responsabile del Programma ISPI Africa e Professore Ordinario di Scienze Politiche all’Università degli Studi di Milano, “secondo gli indici più noti le disuguaglianze socio-economiche del Sudafrica sono le più alte al mondo. L’origine di questo risultato è evidente e deriva dalle radici stesse della nascita del Paese sulla base di distinzioni di “razza”. Nel superare l’apartheid, l’obiettivo non era solamente la liberazione della popolazione segregata, ma anche il cambiamento della struttura sociale in termine di disuguaglianze”.
“Politiche attive per la promozione della popolazione nera ci sono state, ma non sono state incisive e quindi, anche se c’è una nuova classe nera, la disoccupazione elevata pesa ancora soprattutto sulla maggioranza di colore. La disuguaglianza sociale ancora risulta per questo ancorata in buona misura alle divisioni razziali“.
Basti su tutti l’esempio della questione della terra: la terra, ha spiegato Carbone, fin da inizio Novecento venne ripartita in modo iniquo, e a possederla erano soprattutto bianchi. Con il superamento dell’apartheid ci si aspettava una profonda riforma, ma le iniziative adottate sono state molto morbide poiché il timore era che se il nuovo Sudafrica alla fine anni ‘90 si fosse presentato come un Paese che espropriava i terreni per ridistribuirli avrebbe fatto scappare gli investitori. Il tema è molto controverso e anche simbolico.
Il professore di Geografia e Geopolitica all’Università di Roma Tor Vergata, Giuseppe Bettoni, ha spiegato a Voci Globali che per capire cosa resta dell’Apartheid e il perché lo sviluppo socio-economico del Sudafrica nel dopo Mandela sia oggi incompiuto, basta farsi una passeggiata a Città del Capo. Qui non si incontreranno più esclusivamente gli afrikaner bianchi nella parte vecchia, come durante l’apartheid.
Tuttavia, una separazione territoriale della popolazione è ancora visibile, ma non secondo un puro criterio razziale, bensì sociale e di benessere:
La divisione in zone oggi è per appartenenza sociale… i bianchi vivono soprattutto nelle gated communities. Vi abitano non per “diritto”, ma per “proprietà” e anche una persona di colore può averne accesso se ne ha i requisiti sociali, se possiede una proprietà o una casa in affitto. Tuttavia, la maggior parte dei sudafricani di colore non ha i mezzi economici per viverci, quindi la distinzione c’è ed è tipo socio-economico.
Si tratta di quartieri controllati da vigilantes privati e al riparo dall’insicurezza urbana. Espressione, quindi, di una “esclusività” dei più abbienti, bianchi o neri che siano, che in nome di un status economico, trasformano il tessuto cittadino, dividendolo in zone di ricchi e di più poveri.
“Il richiamo è ai progetti folli dell’apartheid di frammentazione territoriale formata dai bandustan, isole abitative indipendenti per ghettizzare indiani, neri, arabi… questa forma di ripartizione territoriale, che aveva anche una codificazione amministrazione propria, sopravvive ancora oggi in alcuni luoghi (pur non avendo alcun valore o riconoscimento legale) dove la ripartizione abitativa è di tipo socio-economica”. È questo che non è stato ancora risolto dall’apartheid secondo il professore. La transizione per uno sviluppo più equo è ancora lenta e ha un impatto non trascurabile sulla società.
Da queste riflessioni ne emerge che uno dei temi più appropriati per capire il valore della figura di Mandela e del suo progetto politico oggi è quello della lotta contro le disuguaglianze. Probabilmente proprio per questo la giornata del ricordo di quest’anno è dedicata al cambiamento climatico. Non c’è dubbio che le implicazioni delle condizioni meteorologiche estreme si stanno facendo sentire soprattutto in Africa in termini di distruzione economica e violazione dei basilari diritti.
Dal delta del Nilo che riduce la sua dimensione perché si infiltra l’acqua salata, all’aumento della desertificazione del Sahel, fino a disagi quotidiani come quelli verificatesi a Città del Capo, dove per un mese c’è stato il razionamento dell’acqua per carenza di precipitazioni, il cambiamento climatico ha un potente impatto sociale. Come sottolineato dal professore Bettoni:
Tra le altre conseguenze, si riduce la disponibilità della terra e l’uso di quella a disposizione e il quadro generale è quello di un inasprimento delle relazioni sociali. Da qui emergono i migranti climatici… che in realtà sono espressione di un mix complesso di problemi che si sommano e vengono accelerati dalle condizioni estreme del meteo.
Si tratta, infatti, di chi già vive in difficoltà, come l’agricoltore che improvvisamente non ha acqua a sufficienza a causa della siccità e anche colui che ha bisogno di più acqua per i campi a causa dell’aridità, ma così diventa meno competitivo sul mercato. Ecco perché il cambiamento climatico ha conseguenze sociali importanti e l’Africa ne è il primo esempio.
In questa cornice che inquadra il Continente africano – e in generale il mondo – attuale in un repentino scivolamento verso nuove ingiustizie sociali, cosa resta di Mandela, del suo esempio, della sua lotta, dei suoi traguardi? Un’icona, non c’è dubbio.
Forse, però, è oggi meno percepita come riferimento “ideologico”, ha riflettuto Carbone:
In una fase in cui le libertà stanno subendo colpi in diversi posti dell’Africa subsahariana è come se non si evocasse più molto un leader identificato con la difesa dei diritti delle minoranze, dei repressi, dei valori delle istituzioni democratiche. Con un clima che sta andando nella direzione opposta e con la perdita di spazi di democrazia non è questo il momento in cui viene molto invocata la sua figura, diversamente da quando veniva celebrata alla luce del successo del Sudafrica dal 1994 in poi.
Tante cose sono effettivamente cambiate da quel periodo. Nel lontano 1997, la rivista Limes scriveva non a caso del Sudafrica: “gode oggi di una considerazione e di un rispetto che l’hanno fatta rapidamente passare dallo status di paria con cui evitare ogni rapporto a quello di ineludibile punto di forza per un continente alla deriva, permanentemente alla ricerca di riferimenti e modelli”.
La nazione rimane tra le più industrializzate del Continente, ma diverse sono le zone d’ombra. Freedom House, nel suo rapporto 2023, ha sottolineato frequenti segnalazioni di corruzione tra i funzionari governativi e, negli ultimi anni, l’African National Congress (ANC) al Governo è stato accusato di indebolire le istituzioni statali per proteggere i funzionari corrotti e preservare il proprio potere mentre il consenso iniziava a diminuire.
La violenza di genere è una sfida seria e le donne e i membri della comunità lesbica, gay, bisessuale, trans e intersessuale (LGBTI) continuano a subire abusi, tra cui omicidi, aggressioni e molestie. Gli sforzi del Governo per frenare la violenza xenofoba devono ancora produrre miglioramenti tangibili nella protezione dei migranti. I gruppi anti-stranieri perpetuano l’idea infondata che gli stranieri siano responsabili della disoccupazione e dei crimini nel Paese.
E la violenza è assai diffusa. Come sottolineato dal professore Bettoni: “in Sudafrica ci sono fino a 18.000 morti per omicidio all’anno…e questo è legato al fallimento di una società più equa”.
Con livelli di disuguaglianza costantemente tra i più alti al mondo, solo una piccola percentuale della popolazione beneficia delle grandi industrie statali, con l’economia controllata da un numero relativamente ristretto di persone appartenenti all’élite politica e imprenditoriale. I sudafricani, prevalentemente quelli delle regioni rurali, così come i migranti stranieri, sono inoltre vulnerabili al traffico sessuale e al lavoro forzato.
Tuttavia, un’eredità viva di Mandela c’è e il professore Bettoni l’ha sintetizzata così: “Se oggi ci lamentiamo di come è il Sudafrica lo possiamo fare solo perché c’è stato Nelson Mandela, che ha dato una spallata gigantesca a un sistema e quello che è stato straordinario è quanto fatto dopo essere tornato in libertà, perché è riuscito a tenere insieme uno Stato con i bianchi. Gli zulu non hanno fatto la guerra civile”.
Quello che è mancato, ha fatto notare il professore, è stato lo slancio dello sviluppo economico e presidenti all’altezza dopo di lui, con il fondo toccato sotto il governo di Zuma. Per questo oggi c’è una forte disuguaglianza che ancora divide la popolazione.
Secondo Bettoni è questo il sintomo di una malattia universale, visibile in Sudafrica ma anche altrove e che trova origine in un sistema economico che crea iniquità e forti asimmetrie, difficili da estirpare, e “le crea a livello planetario tra continenti, ma anche a livello locale tra aree urbane… ci sono aree nelle città mondiali dove l’inuguaglianza è atroce. E per questo la mobilità è da considerarsi quasi un obbligo per chi vive in questi territori…occorre convivere con la diversità, non possiamo dire a chi viene di starsene qui con la sua cultura chiuso in un ghetto a riformare l’apartheid”.
Il lascito ancora vivo di Mandela è quindi la battaglia da lui combattuta per tenere insieme delle comunità diverse. Ricordando Madiba, lo sforzo da compiere ancora in Sudafrica è quello di eliminare quei fattori – oggi legati all’accesso al lavoro, alle risorse, al benessere – che ancora dividono la popolazione.