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Iraq 20 anni dopo: solo spreco di vite umane, ISIS più forte che mai

[Traduzione a cura di Gaia Resta dell’articolo originale di Paul Rogers pubblicato su openDemocracy]

Soldati statunitensi della 17esima Brigata Artiglieria da Campo sale sulla Ziggurat di Ur, Iraq, nel maggio 2010. Foto di pubblico dominio da Wikimedia Commons

A vent’anni di distanza dall’inizio della guerra in Iraq, rimane una domanda alla quale è difficile rispondere in maniera convincente. Perché gli Stati Uniti, guidati dall’allora presidente George W. Bush, hanno invaso e occupato lo Stato dell’Asia occidentale? Le risposte degli accademici e degli esperti variano: dalla necessità di salvaguardare le scorte di petrolio in possesso di uno ‘Stato canaglia’ che aveva invaso il Kuwait e allora controllava un quinto delle riserve mondiali dell’oro nero, fino al sostegno al terrorismo da parte dell’Iraq e allo sviluppo di armi di distruzione di massa.

Queste risposte potrebbero anche essere plausibili e contenere una parte di verità, ma dobbiamo andare oltre e chiederci: perché far scoppiare una guerra in quel momento? Era trascorso appena un anno da quando gli USA e alcuni alleati avevano rovesciato il regime talebano in Afghanistan. Gli Stati Uniti avevano sconfitto e dissolto il movimento di al-Qaida responsabile degli attacchi dell’11 settembre. Quindi, se la cosidetta “guerra al terrorismo” era finita, perché prendersela con l’Iraq?

È importante tenere in considerazione il contesto della politica interna statunitense. Il presidente democratico Bill Clinton era rimasto in carica per due mandati, dal 1993 al 2001, e in quegli anni all’interno del Partito Repubblicano era emersa una tendenza di estrema destra.

Coloro che facevano parte di questa rilevante fazione – noti come neoconservatori – erano del tutto convinti che la presidenza Clinton fosse stata un disastro. Secondo il loro punto di vista, il crollo dell’Unione Sovietica nei primi anni Novanta aveva dato agli USA una possibilità – quasi voluta da Dio – di assumere un ruolo, unico e tempestivo, nello sviluppo di un sistema globale radicato nel neoliberalismo, con il supporto del potere militare statunitense.

Nel 1997 venne fondata l’influente lobby straniera Project for a New American Century [Progetto per un Nuovo Secolo Americano, NdT] a partire dalla convinzione che gli Stati Uniti dovessero assumere un ruolo quasi messianico, in netto contrasto con la debole e opportunista amministrazione Clinton. Mesi dopo l’insediamento di George W. Bush e poco prima dell’11 settembre, il noto scrittore neoconservatore Charles Krauthammer sostenne che gli USA avessero il diritto di perseguire politiche unilaterali in ambito internazionale:

La multipolarità, sì, quando non ci sono alternative. Ma non quando ci sono. Non quando c’è l’eccezionale squilibrio di potere di cui godiamo adesso; e che ha dato al sistema internazionale stabilità e un’essenziale tranquillità di cui non si aveva esperienza da almeno un secolo.

È molto più probabile che regni la pace in ambito internazionale in presenza di una singola egemonia. Inoltre, non parliamo di un’egemonia qualsiasi. Noi gestiamo un impero straordinariamente benevolo.

Otto mesi dopo l’insediamento di Bush, il pensiero neoconservatore dominava la politica statunitense estera e per la sicurezza: l’11 settembre fu quindi un terribile shock e una minaccia all’idea stessa di “Nuovo Secolo Americano” proprio quando questo secolo era appena iniziato. La guerra in Afghanistan iniziò dopo poche settimane. Dal punto di vista degli Stati Uniti, il conflitto sembrò inizialmente un grande successo in quanto i Talebani vennero rapidamente rovesciati, fatto a cui seguì il discorso di Bush sullo stato dell’Unione del gennaio 2002.

Fu chiaro che per salvare il “Nuovo Secolo” non bisognava soltanto affrontare al-Qaida e i Talebani con il loro “asse del male” – il termine usato da Bush per indicare gli Stati ritenuti responsabili di supportare il terrorismo e procurarsi armi di distruzione di massa. Come riferì al Congresso, parlando di Corea del Nord, Iran e Iraq:

Stati come questi, e i loro alleati terroristi, costituiscono un asse del male, che si sta armando per minacciare la pace nel mondo. Procurandosi armi di distruzione di massa, questi regimi rappresentano un grave e crescente pericolo. Potrebbero dare queste armi ai terroristi, fornendo mezzi pari al loro odio. Potrebbero aggredire i nostri alleati o provare a ricattare gli Stati Uniti. In ciascuno di questi casi, il prezzo dell’indifferenza sarebbe catastrofico.

Andare a caccia di quegli Stati sarebbe stato impegnativo. Come disse ai laureandi dell’accademia militare di West Point:

… non vinceremo la guerra al terrore difendendoci. Dobbiamo combattere il nemico, stravolgere i suoi piani e affrontare le minacce peggiori prima che emergano. Nel mondo in cui ci troviamo ora, l’unica via per la sicurezza è la via dell’azione. E questa nazione agirà.

La caccia, aggiunse, non avrebbe ceduto a compromessi:

Tutte le nazioni che scelgono l’aggressione e il terrore pagheranno un prezzo. Non lasceremo la sicurezza dell’America e la pace del Pianeta alla mercé di un pugno di terroristi e tiranni. Cancelleremo quest’oscura minaccia dal nostro Paese e dal mondo.

Un soldato statunitense sposta un bambino iracheno rimasto ferito da un colpo di artiglieria nel suo quartiere a Zambraniyah, Iraq, nel febbraio 2008. Foto di pubblico dominio da Wikimedia Commons

A marzo 2002 era chiaro che l’Iraq sarebbe stato il primo obiettivo. Molti Paesi – tra cui la Francia e la Germania – cominciavano a preoccuparsi dell’assunzione di questo ruolo militare da parte degli USA, ma alcuni leader concessero il loro totale sostegno, in particolare il primo ministro britannico Tony Blair. A Washington, alla domanda “perché l’Iraq?” rispondevano le persone direttamente coinvolte nella pianificazione della guerra.

Durante una conferenza a Washington a cui partecipai subito dopo il discorso di Bush al Congresso, un membro della squadra di transizione del presidente spiegò pazientemente agli accademici europei cosa sarebbe accaduto. La guerra imminente non riguardava esattamente l’Iraq, disse, ma l’Iran, che era considerato il principale nemico nella regione sin dai tempi della Rivoluzione del 1979.

L’idea era che sarebbe stato molto più difficile e oneroso sconfiggere l’Iran, che aveva una popolazione di gran lunga maggiore dell’Iraq e una leadership religiosa fortemente anti-americana. Con l’Iraq occupato, l’Iran avrebbe avuto a Ovest un Iraq pro-USA e gli Stati alleati del Golfo Persico, e a Est l’Afghanistan post-Talebani e pro-Occidente, più la Marina militare statunitense a dominare il Golfo Persico e il Mare Arabico. L’Iran avrebbe dovuto rigare dritto.

Nella cerchia della sicurezza a Washington si diceva che “la strada per Teheran passa per Baghdad”. Molti credevano che sistemando l’Iraq il “problema Iran” si sarebbe risolto, con l’influenza degli USA assicurata in tutto il Medio Oriente e l’Asia occidentale, e il Nuovo Secolo Americano di nuovo sulla strada giusta, per il bene del mondo intero.

La guerra iniziò il 20 marzo di vent’anni fa e sembrò andare come Washington voleva. Le truppe si muovevano rapidamente dal Kuwait verso le valli del Tigri e dell’Eufrate più a Nord, e arrivarono a Baghdad in meno di un mese. Il regime crollò e si insediò l’Autorità Provvisoria della Coalizione guidata dagli USA e gestita dal Pentagono per governare il Paese secondo un’impostazione neoliberale e di libero mercato.

Ma non era ancora finita. Sembrava che le temute forze speciali di Saddam Hussein si fossero ritirate, ma in realtà si erano nascoste con tutte le loro armi intatte. Quindi, si adoperarono rapidamente per condurre una dura insurrezione che, insieme ai conflitti multiconfessionali in corso in gran parte dell’Iraq, si trasformò in una battaglia a oltranza.

Questa guerra immensamente sanguinosa e dispendiosa durò per la tutta la presidenza Bush. Soltanto quando Barack Obama si insediò nel 2008, la Casa Bianca iniziò a parlare della guerra in Iraq come di una guerra “dannosa”. E ciononostante andò avanti fino al 2011, quando Obama ordinò il ritiro delle ultime truppe.

Ma anche questa non fu la fine della guerra. Al-Qaida in Iraq (AQI) era sopravvissuta e già nel 2012 si era riorganizzata prendendo il controllo dei territori settentrionali dell’Iraq e a Nord-Ovest fino alla Siria. Nel 2014 era considerata una minaccia agli Stati Uniti e ad altri interessi occidentali, per cui Obama diede inizio a una guerra combattuta dagli USA interamente dal cielo con droni, missili e aerei d’attacco. Tra il 2014 e il 2018 vennero impiegati oltre 100.000 bombe e missili intelligenti, uccidendo almeno 60.000 persone inclusi migliaia di civili, e costringendo l’AQI, ormai noto come ISIS, a rinunciare a gran parte dei suoi territori.

La guerra ha avuto un costo enorme, particolarmente per i civili iracheni, con almeno 186.000 vittime dirette e un numero esponenzialmente più grande di feriti gravi, molti dei quali mutilati a vita. Ancora adesso, gran parte dell’Iraq è caratterizzato dalla violenza, con svariate migliaia di civili uccisi ogni anno. L’ISIS rimane attivo sia in Iraq che in Siria ma, in maniera ancora più significativa, violenti gruppi islamisti paramilitari operano in almeno una dozzina di Paesi, non solo in Iraq, Siria e Afghanistan.

Nella regione del Sahel nell’Africa sub-sahariana che attraversa Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad settentrionale, i paramilitari islamisti sono attivi esattamente come in Somalia, Repubblica Democratica del Congo e Mozambico. La violenza si riversa regolarmente anche in Kenya e Uganda; la fine sembra molto lontana.

Vent’anni fa, quando la guerra in Iraq era iniziata da tre settimane, sembrava che tutto andasse bene per gli USA e i loro alleati. All’epoca scrissi un articolo per openDemocracy in cui esprimevo un punto di vista molto più negativo e in cui prevedevo una lunga guerra. Il titolo “Una guerra trentennale” suonava un po’ esagerato in quel momento, ma ormai abbiamo percorso i due terzi di questa strada lunga trent’anni e non se ne vede ancora la fine.

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