[Traduzione a cura di Luciana Buttini dell’articolo originale di Claire Wilmot pubblicato su The New Humanitarian]
Quando nel novembre del 2020 è scoppiata la guerra in Tigray, la regione settentrionale dell’Etiopia, i residenti della città di Adebay, vicino al confine con l’Eritrea, si svegliavano per i colpi di arma da fuoco e il rombare dei motori. Secondo quanto riferito da due testimoni in un’intervista a The New Humanitarian, in quei giorni i soldati eritrei picchiavano i civili e li costringevano a salire su camion militari. Secondo le stime, in una sola notte ci sono stati fino a 70 rapimenti di persone da Heletkoka, un quartiere alla periferia di Adebay.
Le vittime erano i Kumana, un piccolo gruppo etnolinguistico che vive nelle zone a cavallo tra l’Etiopia e l’Eritrea. Circa 5.000 di loro si erano stabiliti in Etiopia nei primi anni 2000, dopo essere scampati all’espropriazione delle terre e alla coscrizione militare (spesso a tempo indefinito) dell’Eritrea.
All’inizio delle ostilità nel Tigray, il Governo etiope ha permesso alle forze eritree di attraversare il confine per combattere il loro nemico comune: il TPLF, Tigray People’s Liberation Front [Fronte di liberazione popolare del Tigray, NdT] ma i soldati eritrei hanno anche rapito i rifugiati Kunama, riportandoli con la forza in Eritrea.
Quindici persone sono riuscite a sfuggire al raid su Adebay quella notte e hanno intrapreso un pericoloso viaggio a piedi verso il Sudan orientale, stabilendosi nei campi profughi intorno alla città di Gedaref. Tra loro c’era Muna*, che si identifica come Kunama.
Due anni dopo l’evento, la speranza di un suo ritorno a casa si fa sempre più remota. Nonostante un accordo di pace firmato a novembre tra il Governo federale e il TPLF per porre fine al conflitto, come molti altri rifugiati provenienti da comunità minoritarie, la sicurezza in Etiopia è per lei ancora fonte di preoccupazione.
Nessuna fiducia nell’accordo di pace
Si stima che la guerra, combattuta contro il TPLF dalle forze federali sostenute dagli alleati regionali eritrei e Amhara, abbia ucciso direttamente centinaia di migliaia di persone. Innumerevoli altri hanno subìto gli effetti di ricaduta del conflitto durato due anni, tra cui un embargo di fatto che ha lasciato milioni di persone senza un adeguato accesso a cibo e medicine.
Tra le vittime c’erano i Kunama, gli Irob, i Qemant e gli Agew, gruppi minoritari che vivono principalmente nelle regioni etiopi del Tigray e di Amhara. In un conflitto caratterizzato dalla repressione dell’informazione, si sa poco della violenza che queste comunità hanno subìto e delle minacce che continuano a ricevere.
I rifugiati in Sudan hanno riferito in un’intervista a The New Humanitarian i loro dubbi sul fatto che saranno al sicuro, protetti e rappresentati politicamente nell’Etiopia postbellica.
Comunità minoritarie diverse hanno risposto a queste paure in modi diversi. Alcuni si stanno ritirando nelle proprie comunità, mobilitandosi per una maggiore autonomia politica, altri si stanno armando o schierando con altri gruppi armati non inclusi nell’accordo di pace mentre alcuni temono di non poter più tornare. Tutti sono stati comunque coinvolti in una guerra che non avevano provocato.
Aida* e Fissha* provengono da Irob, una comunità di circa 30.000 persone che vivono lungo il confine montuoso dell’Etiopia con l’Eritrea. Se ritorneranno in Etiopia, si ritroveranno in città diverse da quelle che hanno lasciato nel Tigray occidentale, la zona che è stata teatro dei combattimenti più feroci. Come ha riferito Fishha:
Dopo la guerra, vuoi stare con il tuo popolo.
Prima dell’inizio del conflitto, Aida e Fissha si erano trasferite da Irob in una cittadina vicino a Dansha, nel Tigray occidentale, in cerca di lavoro. La regione fa parte ufficialmente del Tigray, ma storicamente la vicina regione di Amhara la rivendica come propria.
Quando le forze federali e Amhara sono arrivate nella zona all’inizio della guerra, le abitazioni delle due donne sono state saccheggiate da FANO, una milizia paramilitare amarica. Sono stati anche disseminati volantini che avvertivano i tigrini di avere una settimana di tempo per andarsene, pena la morte.
Poiché Irob è culturalmente vicino ai tigrini, Aida e Fissha credevano che anche loro sarebbero state prese di mira. Quando tre dei parenti maschi di Aida furono duramente picchiati dai soldati etiopi, la famiglia spaventata prese la difficile decisione di lasciare il Paese.
Tuttavia, Aida ha affermato che tornerebbe nel Tigray occidentale se il Governo etiope potesse garantire la sua sicurezza. Le piaceva il suo lavoro di insegnante e conduceva una vita dignitosa all’interno della comunità. Ma Fishha ha riso all’idea dell’amica dichiarando: “Sarai l’unica Irob rimasta a Dansha!”
Il protrarsi dell’occupazione eritrea
Nessun rifugiato Irob crede che sia sicuro tornare nella propria regione d’origine. Secondo il Tigray Regional Emergency Coordination Center, un gruppo di ONG internazionali e locali e funzionari del Governo regionale, si tratta di una delle poche aree del Tigray che resta ancora inaccessibile alle agenzie umanitarie.
Tesfaye Awala, presidente della Irob Anina Civil Society, un’organizzazione basata sulla diaspora ha dichiarato: “Gli eritrei occupano ancora metà dell’Irob“.
Crede inoltre che l’Eritrea stia cercando di “cancellare” la comunità Irob e istituire una zona cuscinetto militare sui loro altipiani strategici. In una rara conferenza stampa a Nairobi la scorsa settimana, il presidente eritreo Isaias Afwerki ha evitato le domande sulla presenza dell’Eritrea nel Tigray.
Le aggressioni sessuali da parte delle forze eritree sono continuate nonostante l’accordo di pace. Un sacerdote che ha aiutato donne sopravvissute agli stupri a rivolgersi ai medici locali ha riferito a The New Humanitarian che le donne stanno ancora fuggendo dall’Irob. Le vittime hanno camminato per giorni al fine di evitare i blocchi stradali eritrei in direzione di Dawhan, la capitale dell’Irob.
Il fatto che il ritiro delle forze eritree non sia stato esplicitamente menzionato nell’accordo di pace di novembre è fonte di ansia sia per i rifugiati Irob che per i Kunama in Sudan. Quest’ultimi sono preoccupati che le loro comunità siano ancora vulnerabili ad attacchi e rapimenti transfrontalieri.
Come ha affermato Tesfaye, attivista della società civile:
Secondo l’accordo di pace l’esercito etiope dovrebbe proteggere il confine. Ma come può proteggerci quando ha collaborato con i nostri aggressori?
Proprio la scorsa settimana, un rifugiato Kunama ha riferito di continuare a ricevere segnalazioni di rapimenti da parte dei soldati eritrei intorno alla città di Sheraro. La città è vicina al campo di Shimelba, che ha ospitato i rifugiati Kunama fino a quando non è stato bruciato nel dicembre del 2020 mentre era sotto il controllo delle forze eritree.
La lotta per l’auto-determinazione
Nel frattempo, nella regione di Amhara, anche le comunità dei Qemant e degli Agew sono state travolte dalle violenze. I civili sono stati uccisi e fatti evacuare dall’esercito etiope, dalle forze regionali Amhara e dalla milizia Fano, che li hanno accusati di essere sostenitori del TPLF.
La violenza della guerra ha aggravato le tensioni pregresse per la terra, l’identità culturale e rappresentanza politica in Amhara. Le fazioni dei Qemant e degli Agew hanno ora preso le armi per combattere per il proprio Stato regionale: in base alla Costituzione dell’Etiopia possono formare forze di sicurezza su base regionale ed essere rappresentati a livello federale.
Etenesh*, una rifugiata Qemant sulla sessantina, tremava mentre raccontava la morte del marito avvenuta durante un attacco da parte delle forze federali e regionali nella città di Gubay. I miliziani Fano hanno ucciso l’uomo davanti a lei e ora occupano la sua casa. La donna, che non ha potuto seppelire il corpo del marito, con le lacrime agli occhi, ha affermato:
L’hanno fatto a pezzi con i coltelli.
Lei, insieme a decine di altri rifugiati Qemant, ha riferito a The New Humanitarian di non poter tornare a casa nelle città pattugliate dalle stesse forze di sicurezza che hanno attaccato le loro comunità. La violenza contro i civili ha contribuito a galvanizzare il sostegno al Qemant Liberation Army [Esercito di liberazione del Qemant o QLA, NdT]. Quest’ultimo infatti continua a lottare per rivendicare le terre occupate dalle milizie e ottenere l’indipendenza regionale per i Qemant, che stando all’ultimo censimento del 1994 si ritiene siano oltre 172.000.
Anche le comunità degli Agew in Amhara sudoccidentale hanno subìto attacchi da parte delle forze di sicurezza amariche e Fano. Questi ultimi si sono impossessati dei terreni agricoli impedendo al popolo di parlare la propria lingua, hanno riferito dagli attivisti per i diritti degli Agew. Tali esperienze hanno aiutato a sostenere l’Agew Liberation Front [Fronte di Liberazione Agew o ALF, NdT], che cercando di raggiungere l’auto-determinazione regionale per i circa 900.000 Agew.
Mola Mekonen, un’attivista Agew in esilio in Australia ha affermato:
Credevo in un’identità etiope e ora mi identifico di più come Agew.
Alla fine del 2021, i gruppi politici Qemant e Agew si sono uniti pubblicamente in una coalizione “federalista” nella diaspora guidata dal TPLF. La coalizione comprendeva l’Esercito di liberazione Oromo (OLA) e altre sette organizzazioni i cui membri ritengono necessario un sistema federale decentralizzato al fine di proteggere le diversità etnico-linguistiche dell’Etiopia.
Con il proseguire del conflitto, i membri armati della coalizione hanno iniziato a collaborare in Etiopia. Il Governo regionale di Amhara considera questi gruppi una minaccia alla propria sicurezza.
L’ascesa dell’OLA
In base all’accordo di pace siglato lo scorso novembre, il TPLF è obbligato a interrompere il sostegno ad altri gruppi armati. Di conseguenza, QLA e ALF hanno perso un potente sostenitore. Ma i membri della coalizione hanno riferito a The New Humanitarian che continueranno a lavorare con altri gruppi che sostengono il diritto all’auto-determinazione in Etiopia.
Per ora, dicono che la loro scommessa migliore è l’OLA, la cui insurrezione in Oromia non è coperta dall’accordo di pace e si è intensificata da quando questo è stato raggiunto. Un rappresentante dell’OLA, che vive fuori dall’Etiopia, ha affermato che sono state condotte operazioni di addestramento congiunte con l’ALF in Oromia occidentale.
Tuttavia la durata di queste nuove alleanze non è chiara. Un rifugiato Qemant ha osservato che il TPLF ha fatto poco per tutelare i Qemant negli anni in cui era alla guida del Governo federale dell’Etiopia dal 1991 al 2019, e ha dichiarato di essere arrabbiato per il fatto che i Qemant fossero stati esclusi dal processo di pace.
Un ricercatore etiope che ha chiesto l’anonimato per timore di rappresaglie, ha dichiarato:
L’Etiopia è una federazione di etnie e tutti meritano di sentirsi al sicuro vivendo in qualsiasi parte del Paese. Invece le persone non si sentono al sicuro, quindi stanno cercando di proteggersi.
L’accordo di pace richiede all’Etiopia di adottare una politica di giustizia transizionale per contrastare l’impunità per i crimini commessi. Ma la proposta di responsabilità del Governo federale rimane vaga. Questo ha impedito a una squadra investigativa delle Nazioni Unite di accedere in Etiopia, implicando che tale lavoro potrebbe minare le istituzioni nazionali.
Attivisti e rifugiati non sono d’accordo. Ritengono infatti che la guerra abbia distrutto la fiducia nelle istituzioni statali, tra cui le forze di sicurezza e dunque il coinvolgimento esterno nelle indagini potrebbe aiutare a stabilire i fatti e ricostruire la fiducia. Ma questo sembra improbabile che possa accadere. Anche il TPLF, che una volta era così esplicito sulla necessità di indagini indipendenti, ora parla molto meno di responsabilità.
I rifugiati hanno preoccupazioni più immediate. Etenesh, che ha visto morire suo marito, vuole semplicemente tornare a casa in una comunità sicura dove i suoi assassini non vaghino più per quelle strade che frequentava con lui, ma per ora resterà in Sudan, insieme ai tanti profughi colpiti dalla guerra ma esclusi dalla pace.
*I nomi sono stati modificati per preservare l’incolumità degli intervistati
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