Il 20 febbraio, come si fa ormai dal 2009, si celebra la Giornata Mondiale della Giustizia Sociale.
Nata sulla scia della Dichiarazione sulla Giustizia Sociale per una globalizzazione giusta dell’ILO (International Labour Organization), nelle celebrazioni di quest’anno, in seno alle Nazioni Unite e ai suoi Stati membri, si promuove la riflessione sulle nuove sfide.
“Superare le barriere e creare opportunità per la giustizia sociale” è il tema di quest’anno.
L’obiettivo è rafforzare la solidarietà globale e ricostruire la fiducia nei Governi, attraverso azioni che incrementino gli investimenti in lavoro dignitoso per i giovani e sostenibile.
La fatica, per molti lavoratori, a ritornare al tenore di vita e lavorativo prepandemico, i conflitti sparsi nel mondo e la conseguente crisi economica innescata dall’innalzamento dei prezzi, hanno contribuito all’inasprimento del divario e delle ingiustizie sociali.
Povertà, accesso alle opportunità economiche, all’istruzione. Così come l’accessibilità alla salute e a un ambiente salubre, sono solo alcune delle sfere sociali che, nei decenni, si sono sommate al concetto, elaborato e diffuso a partire dal XIX secolo.
Parlare oggi di giustizia sociale, tuttavia, non può esimerci dal sottolineare il forte legame che essa ha con la giustizia ambientale e i cambiamenti climatici, che mettono a rischio non soltanto la sopravvivenza delle specie della Terra, ma anche l’uguaglianza di tutti i suoi abitanti.
La teorizzazione della giustizia ambientale, in realtà, risale già a qualche decennio fa, con lo studioso Robert Bullard che la definisce come il principio secondo il quale tutte le persone sono parimenti tutelate dalle leggi ambientali e di sanità pubblica. Essa sarebbe, dunque, legata all’equa distribuzione dell’impatto ambientale sulla salute umana.
Quando tra gli anni ’60 e gli anni ’80, si sviluppa come movimento, la giustizia ambientale negli Stati Uniti si lega strettamente alla questione etnica e razziale, in quello che è stato definito razzismo ambientale.
Al tempo si discuteva della concentrazione delle discariche nei quartieri abitati a maggioranza da neri e di come, per questo, le ricadute dell’inquinamento da sostanze tossiche non fossero equamente ripartite tra tutti, ma fossero i più poveri a doverne pagare le conseguenze.
Anche se su scala globale, e in maniera forse più dirompente e impattante, gli effetti del cambiamento climatico e della crisi ambientale, incidono anche oggi, allo stesso modo, sulle disuguaglianze. E mantengono quel carattere discriminatorio verso le minoranze, più vulnerabili ed esposte.
In uno studio dell’Università di Stanford sono stati intrecciati i dati sulla crescita economica con l’andamento delle temperature nel lasso di tempo tra il 1961 e il 2010.
I risultati hanno evidenziato che tra i Paesi poveri il PIL si è ridotto tra il 17% e il 31% per effetto del riscaldamento globale. Inoltre, il divario tra gruppi di Paesi (classificati secondo diverse fasce di ricchezza) è del 25% maggiore di quello possibile in assenza di problemi climatici e ambientali.
Anche lo studio del 2015 “Climate change, Human rights and Social Justice” aveva sottolineato la relazione tra ambiente e giustizia sociale. Si mostra, infatti, come l’aumento delle temperature, il crescente diffondersi di eventi climatici estremi e gli altri effetti diretti del cambiamento climatico abbiano un forte impatto sulla produzione agricola e sull’accesso all’acqua potabile.
Non è estraneo alla stretta interconnessione tra insostenibilità ambientale e ineguaglianze sociali, il sempre maggior numero di rifugiati climatici, che secondo l‘Internal Displacement Monitoring Centre sfiorano la cifra di 20 milioni l’anno.
Intere popolazioni, nelle aree più colpite da eventi meteorologici disastrosi, così come dalla siccità, si trovano così costrette a migrare verso luoghi in cui la Terra non sia diventata inospitale e la sopravvivenza messa in pericolo.
Oggi, come agli albori del concetto di giustizia ambientale, le conseguenze peggiori gravano sulle spalle delle fasce sociali più vulnerabili.
In questo senso Philip Alston, relatore speciale dell’Onu sull’estrema povertà, ha avanzato il rischio di un “apartheid climatico“, in cui la disuguaglianza sociale aumenterà insieme alle temperature.
Il cambiamento climatico, sostiene Alston, sta minando gravemente i risultati degli ultimi cinquant’anni di sviluppo rispetto alle grandi problematiche quali la salute globale e la riduzione della povertà.
I Paesi in via di sviluppo, inoltre, pagano il prezzo più alto, con una ricaduta delle conseguenze climatiche del 75%, nonostante siano responsabili del solo 10% di emissioni globali.
A questo proposito, durante la scorsa Cop 27 è stato istituito il “Loss and damage fund“, un fondo che serve a risarcire gli Stati che più risentono dei disastri ambientali ma che meno vi contribuiscono.
E da tutti i campi del sapere sono anche altre le soluzioni che si cercano per diminuire le disuguaglianze sociali derivate dall’ingiustizia ambientale.
Come alternativa alla corsa verso alternative tecnologiche, economiche, scientifiche, che propongono una risoluzione dei sintomi della malattia ambientale, si pone l’ecologia integrale.
L’assunto guida è l’esistenza di una profonda interconnessione tra crisi ecologica e crisi umana, tra giustizia sociale e ambientale.
Teorizzato già nel 1958, il concetto è portato in auge da Papa Francesco nel 2015, nella sua Enciclica Laudato Sii in cui Papa Bergoglio parla di come “il pianto della Terra” e il “pianto dei poveri” abbiano la stessa origine.
L’ecologia integrale si afferma, da qui, nella duplice funzione di approccio ai problemi politici, ma anche come modello morale ed etico, che parte con il riconoscere l’enorme debito ecologico che il Nord ha con il Sud.
La risoluzione della crisi, unica e generale, sta nel superare la divisione tra ciò che è disuguaglianza sociale e ciò che deriva dal cambiamento climatico, come catastrofe o danno alla natura. La lotta alla povertà, in sintesi, non potrà esistere senza la lotta all’uso indiscriminato delle risorse, alla corsa tecnologica che pone gli uomini su un gradino più alto rispetto alle altre specie e ai suoi simili.
Dall’altra parte, allo stesso tempo, nei tentativi di trovare una risposta all’emergenza climatica non si può distogliere lo sguardo dai più deboli e vulnerabili, dal bisogno di un lavoro dignitoso e sostenibile, dal diritto ad un ambiente salubre e ospitale.
In una ricerca del Kellog Institute for International Studies si è mostrato come, prendendo due modelli di applicazione di ecologia integrata in Uganda e Palestina, sia possibile ricostruire la giustizia sociale e quella ambientale in un circolo virtuoso in cui l’una non prescinde dall’altra.
L’esperimento è stato condotto su piccola scala, ma il modello potrebbe funzionare in maniera strutturale con l’aiuto di una visione della giustizia umana, in tutte le sue dimensioni.