Il terremoto energetico scatenato dalla guerra in Ucraina ha sconvolto l’Unione Europea. Da anni legati alla Russia per le forniture di gas e di petrolio, i 27 Paesi si sono visti costretti a cambiare strategia per liberarsi dall’energia di Putin il prima possibile. L’invasione dell’Ucraina da parte di Mosca è stata valutata un’aggressione e continuare a fare affari con il presidente russo arricchendo le aziende di Stato, quali Gazprom, finanziando così la stessa guerra, è stato considerato indegno e immorale dall’Europa.
Come sostituire, però, il 40% del gas consumato nel vecchio Continente che proviene dalla Russia? Gli obiettivi energetici europei sono ambiziosi: la Commissione, braccio esecutivo dell’UE, ha proposto di ridurre di due terzi gli acquisti di gas entro la fine dell’anno e di cessare l’importazione di combustibili fossili dalla Russia entro il 2030. Non si può più trattare con il “dittatore” Putin, che solo ora appare nella veste che, in realtà, indossa da quando ha ottenuto il potere.
L’Europa ha puntato – oltre il Gnl Usa – le ricche monarchie del Golfo. Stati strategici per petrolio e gas, ma non certo campioni di democrazia e diritti umani.
Le visite ufficiali presso questi Paesi si sono moltiplicate. Dall’Italia alla Francia fino alla Germania, al Regno Unito e ai rappresentanti europei, ministri, capi di Governo e massime cariche statali e imprenditoriali si sono incontrate con i principi, gli emiri e i loro responsabili dell’energia nelle ultime settimane.
A metà marzo, Patrick Simonnet, ambasciatore Ue presso il regno saudita, ha dichiarato che “sono in corso discussioni e negoziati per importare gas naturale dai Paesi del Golfo, guidati dall’Arabia Saudita, che è entrata prepotentemente nella produzione di gas negli ultimi anni e ha lanciato molti progetti in questo settore.”
A fine marzo, l’alto rappresentante UE Josep Borrell ha visitato il Qatar per colloqui con le controparti della nazione sul rafforzamento della cooperazione bilaterale e per partecipare al Forum di Doha 2022. L’occasione è stata propizia anche per illustrare al piccolo Stato ricco di gas le ultime decisioni dell’Unione di ridurre la sua dipendenza dai combustibili fossili russi. C’è stata quindi la riaffermazione dell’interesse europeo ad approfondire il partenariato energetico strategico con il Qatar sul Gnl e sulle rinnovabili.
Dinanzi a questi scenari, è calzante la riflessione della ONG Reprieve (un’organizzazione non governativa di azione legale.) la quale ha avvertito che l’invasione russa dell’Ucraina potrebbe indurre i leader mondiali a chiudere un occhio sulle ultime violazioni dei diritti umani dell’Arabia Saudita al fine di garantirsi prezzi più bassi del carburante. Queste le parole di Maya Foa, direttrice dell’organizzazione:
Mohammed Bin Salman scommette che l’Occidente distoglierà lo sguardo perché preferisce finanziare il suo petro-Stato intriso di sangue piuttosto che la macchina da guerra di Putin. Non dobbiamo mostrare la nostra repulsione per le atrocità di Vladimir Putin premiando quelle di Mohammed Bin Salman. Chiudere ora un accordo con l’Arabia Saudita, nonostante questa esecuzione di massa, garantirebbe virtualmente che più persone, il cui unico crimine è stato sfidare lo status quo, saranno giustiziate.
Il riferimento è al triste, ma non isolato, episodio che ha riportato in auge la brutalità del sistema saudita della pena di morte. Il 12 marzo scorso, infatti, è avvenuta la più grande esecuzione di massa degli ultimi anni, nonostante le recenti promesse del regno di ridurre l’uso della pena capitale.
Nello specifico, il ministero dell’Interno ha pubblicato gli 81 nomi delle persone uccise e ha affermato che erano state giustiziate per crimini tra cui omicidio e collegamenti a gruppi terroristici stranieri, nonché per il reato vagamente formulato di “presa di mira di funzionari ed espatriati“. Altri sono stati condannati per aver attaccato “siti economici vitali”, per contrabbando di armi “al fine di destabilizzare la sicurezza, seminare discordia e disordini e causare rivolte e caos” e per aver ucciso agenti di polizia, oltre che per l’impianto di mine antiuomo.
Violazioni gravi nei processi sono state evidenziate da un’analisi di Human Rights Watch su 5 delle decine di sentenze, per la precisione di alcuni degli uomini sciiti giustiziati: Aqeel al-Faraj, Mortada al-Musa, Yasin al-Brahim, Mohammed al-Shakhouri e Asad al-Shibr. Tutti hanno subìto illegalità sul giusto processo, oltre al fatto che in ogni caso gli accusati avevano riferito alla Corte di aver subito torture e maltrattamenti durante gli interrogatori e che le loro confessioni erano state estorte con la forza.
“Della dozzina di casi di cui siamo a conoscenza, almeno un quarto è stato torturato per ottenere false confessioni di reati di terrorismo dopo aver preso parte a manifestazioni a favore della democrazia”, ha testimoniato la direttrice di Reprieve Maya Foa.
Solo per la cronaca, pochi giorni dopo l’esecuzione di massa, condannata a livello internazionale, il primo ministro britannico Boris Johnson si stava recando in Arabia Saudita tra le preoccupazioni per l’approvvigionamento energetico globale dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Johnson avrebbe incontrato i leader degli Emirati Arabi Uniti prima di andare a Riyadh.
Emblematica anche la storia dell’attivista Internet e operatore umanitario Abdulrahman Al-Sadhan, per il quale il Gulf Center for Human Rights (GCHR) chiede alle autorità saudite di rivelare dove si trova e le condizioni in cui è detenuto. In un’udienza tenutasi il 5 aprile 2021, il Tribunale Penale Specializzato (SCC) di Riyadh lo ha condannato a 20 anni di carcere.
L’SCC è stato istituito dall’Arabia Saudita nel 2008 per processare membri di gruppi terroristici, ma da allora è stato utilizzato per imprigionare attivisti e difensori dei diritti umani. Le accuse a Al-Sadhan sono legate ai messaggi su Twitter che esprimevano le sue opinioni sulla politica e sulle questioni pubbliche. Il 5 ottobre 2021 la Corte d’Appello della capitale saudita ha confermato la sentenza. Da quel giorno, la famiglia non ha avuto notizie di Al-Sadhan, nonostante abbia presentato un’obiezione legale alla sentenza, nonché una denuncia per le violazioni dei diritti di prigioniero.
Una storia come molte nella monarchia e che si intreccia con quella di Raif Badawi, rilasciato proprio un giorno prima dell’esecuzione di massa delle 81 persone. Forse per confondere l’opinione internazionale sugli sforzi sauditi di apparire meno brutali, la scarcerazione del blogger – che aveva fondato il forum online Free Saudi Liberals e per questo condannato in via definitiva a 10 anni di carcere e a 1000 frustate – ha assunto comunque un sapore amaro. Non potrà infatti lasciare il regno per 10 anni, né utilizzare i social.
Basterà ricordare, inoltre, che l’Arabia Saudita applica la Sharia (legge islamica) come legge nazionale. Non esiste un codice penale formale, e giudici e pubblici ministeri possono condannare persone per un’ampia gamma di reati con accuse generali come “violazione della fedeltà al sovrano” o “tentativo di distorcere la reputazione del regno”. I detenuti, compresi i bambini, di solito subiscono illegalità sistematiche sul giusto processo, compreso l’arresto arbitrario.
E poi c’è la guerra nello Yemen. In qualità di leader della coalizione che ha iniziato le operazioni militari contro le forze Houthi in Yemen il 26 marzo 2015, l’Arabia Saudita ha commesso numerose violazioni del diritto umanitario internazionale. La ONG Mwatana ha concluso in un rapporto che la coalizione saudita ed emiratina ha usato la “riduzione alla fame della popolazione” come strumento di guerra. Questa condotta ha gravemente ostacolato l’accesso dei civili a cibo e acqua, con azioni di repressione e distruzione nonostante la diffusa conoscenza della terribile situazione umanitaria in Yemen, dove le persone, compresi i bambini, stavano morendo di fame.
Le monarchie del Golfo, inoltre, sono accomunate dalla vergognosa pratica della Kafala, il sistema di sponsorizzazione del lavoro straniero che si traduce in terribili storie di soprusi e riduzione in schiavitù di lavoratori migranti. Ne abbiamo parlato anche noi in un articolo. Il Qatar, per esempio, è uno dei Paesi maggiormente coinvolti in questa pratica. Il Governo non è riuscito ad attuare e far rispettare le riforme nel settore, consentendo ai metodi abusivi di riemergere e mantenendo di fatto gli elementi peggiori di questo sistema: furti di salari, orari di lavoro disumani, impedimenti a lasciare il Paese, divieto di formare e aderire a sindacati indipendenti.
A questi abusi perpetrati dallo Stato che si appresta ad ospitare i Mondiali di calcio nel 2022 e a produrre più gas per soddisfare anche le richieste italiane, se ne aggiungono altri, come la discriminazione di persone non eterosessuali. La “sodomia” o condotta sessuale tra uomini dello stesso sesso è rimasta un reato ai sensi del codice penale, punibile con la reclusione fino a sette anni. L’articolo 296 afferma che “guidare, istigare o sedurre in qualsiasi modo un maschio a commettere sodomia o dissipazione e indurre o sedurre in qualsiasi modo un maschio o una femmina a commettere azioni illegali o immorali” è un crimine.
Emblematica anche la storia di Malcolm Bidali, una guardia di sicurezza keniota, blogger e attivista per i diritti dei lavoratori migranti in Qatar. Tenuto in isolamento per un mese senza accesso a un consulente legale, il 14 luglio 2021 il Consiglio superiore della magistratura del Paese lo ha accusato di “trasmissione e pubblicazione di notizie false con l’intento di mettere in pericolo il sistema pubblico dello Stato“. Condannato, ha pagato una multa di circa 5.000 euro. Il Consiglio ha anche ordinato la confisca del suo cellulare e il blocco dei suoi account sui social media su Twitter e Instagram. Il difensore dei diritti umani ha pagato la multa e ha lasciato il Qatar il 16 agosto.
Inoltre, le donne devono ottenere il permesso dai loro tutori maschi per sposarsi, studiare all’estero con borse di studio governative, lavorare, viaggiare fuori dai cofini nazionali fino a una certa età e ricevere alcune forme di assistenza sanitaria riproduttiva. Il codice penale del Qatar criminalizza le critiche all’emiro, gli insulti alla bandiera nazionale, le diffamazioni della religione, inclusa la blasfemia, e chi incita “a rovesciare il regime”.
Sulla stessa scia anche gli Emirati Arabi Uniti, che oltre a condurre la già citata pratica della Kafala, sono stati segnalati per gravi violazioni dei diritti umani, tra cui la detenzione arbitraria, il trattamento crudele e disumano dei detenuti, la repressione della libertà di espressione. I tribunali hanno emesso condanne a morte e sono state segnalate esecuzioni. Simbolica è la storia di Ahmed Mansoor, uno dei principali difensori dei diritti umani degli Emirati, condannato e tenuto in carcere in condizioni disumane per aver criticato pacificamente le politiche del Governo e fatto appelli sulla riforma dei diritti umani.
Anche il Parlamento Europeo è intervenuto nella vicenda, con una risoluzione del 16 settembre 2021 che:
condanna fermamente, ancora una volta, la detenzione negli Emirati Arabi Uniti di Ahmed Mansoor e di tutti gli altri difensori dei diritti umani, che sono stati incarcerati unicamente per aver esercitato i loro diritti umani fondamentali, tra cui il diritto alla libertà di parola, di associazione, di riunione pacifica e di espressione, sia online che offline, diritti sanciti non solo negli strumenti universali in materia di diritti umani, ma anche nella Carta araba dei diritti dell’uomo; deplora profondamente il divario tra le dichiarazioni in cui gli Emirati Arabi Uniti affermano di essere un Paese tollerante e rispettoso dei diritti e il fatto che i difensori dei diritti umani nel Paese siano detenuti in pessime condizioni…
Solo alcuni esempi, quelli qui elencati, per ribadire l’indifferenza occidentale sulla sacrosanta necessità di pretendere il rispetto dei diritti fondamentali e della democrazia quando si tessono relazioni economiche e strategiche con gli altri Paesi.