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Territori occupati, quell’apartheid che distrugge l’ambiente

Nel frastuono mediatico che ha accompagnato la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP26) di Glasgow, nel novembre scorso, l’intervento del primo ministro dell’Autorità nazionale palestinese non verrà forse ricordato dalla cronaca. Eppure, nel breve discorso di appena qualche minuto di Mohammad Shtayyeh, si sono palesati dettagli tutt’altro che trascurabili sull’azione israeliana nei territori occupati di Cisgiordania e Gaza e che riguardano la distruzione ambientale.

Le parole del premier palestinese sono state dure, a testimonianza di una pace assai difficile per quello che è uno dei conflitti più lunghi, complessi e drammatici della storia. Gli occupanti israeliani rappresentano, a suo dire, “la minaccia più critica a lungo termine per l’ambiente palestinese.” Basta osservare una mappa della Palestina moderna, secondo Shtayyeh, per rendersi conto di come “l’ambiente viene sistematicamente distrutto. Dal 1967, Israele ha sradicato circa 2,5 milioni di alberi, inclusi 800.000 ulivi“.

Un esempio che, in realtà, apre una riflessione molto più ampia sulle conseguenze che la strategia israeliana degli insediamenti e del controllo sui territori palestinesi sta provocando in termini di sostenibilità ambientale, accesso alle risorse, inquinamento, distruzione dell’ecosistema.

Nel 2015 le Nazioni Unite avevano lanciato un allarme: la Striscia di Gaza potrebbe diventare “inabitabile” entro il 2020. Tra le cause veniva menzionata la grave crisi dell’accesso all’acqua, con falde acquifere per lo più non potabili e in esaurimento. All’inizio del 2022, quello della mancanza della risorsa idrica resta una delle emergenze non risolte, legata soprattutto agli effetti della politica israeliana sull’ambiente e sull’accaparramento delle risorse che spetterebbero alla popolazione palestinese.

La questione ha radici profonde. Dal 1967, Israele controlla di fatto tutti gli accessi alle fonti d’acqua nella Cisgiordania occupata e la firma degli accordi di Oslo II nel 1995 ha riaffermato lo status quo dell’epoca. Ventisei anni dopo, la situazione sul campo per molti villaggi è peggiorata. Attualmente, circa l’87% dell’acqua di falda della Cisgiordania viene assegnata agli israeliani e il 13% ai palestinesi. Inoltre, Tel Aviv proibisce agli abitanti arabi di accedere al fiume Giordano per usufruire della risorsa idrica necessaria alla vita quotidiana. Non solo, qualsiasi proposta di costruire infrastrutture idriche o pozzi deve essere approvata dalle autorità israeliane, che raramente danno il via libera ai progetti palestinesi.

Le denunce di Amnesty International sono state esplicite su questo tema e hanno sottolineato come la compagnia idrica statale israeliana Mekorot abbia sistematicamente scavato pozzi e sfruttato sorgenti nella Cisgiordania occupata per rifornire di acqua la sua popolazione, compresi i cittadini che vivono in insediamenti illegali, per scopi domestici, agricoli e industriali. Inoltre, le autorità israeliane negano o limitano l’accesso all’acqua della Cisgiordania in quei territori da loro stessi denominati “aree militari chiuse”. I palestinesi non possono entrarvi, perché sono vicine agli insediamenti e alle strade utilizzate dai coloni e dai militari israeliani.

Nella Striscia di Gaza sta avvenendo una crisi idrico-ambientale ancora peggiore. Secondo l’ONU e gli standard dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, il 97% dell’acqua nel territorio “non è adatta al consumo umano”, perché inquinata e non trattata come dovrebbe con impianti di desalinizzazione. In più, i danni causati dalle operazioni militari israeliane pesano sulla scarsità della risorsa pulita. Nel maggio 2021, per esempio, le aggressioni dell’esercito di Tel Aviv a Gaza hanno distrutto o reso inutilizzabili le infrastrutture idriche e i tubi che servono almeno 800.000 persone.

Gaza: in fila per la poca acqua potabile a disposizione. Foto da video Al Jazeera

Il tutto sta avvenendo in un’area del mondo arida e a rischio elevato per l’effetto dei cambiamenti climatici. Il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) ha dichiarato, in un suo documento ufficiale del maggio 2020, che il l territorio palestinese occupato si trova all’interno di una regione generalmente calda, arida e povera d’acqua che ha registrato un aumento delle temperature negli ultimi cinquant’anni. Le proiezioni climatiche indicano che entro la metà del secolo ci saranno tra 1,2° e 2,6°C in più.

Questo cambiamento modifica il ciclo dell’acqua, alterando i modelli e le stagioni delle precipitazioni: le piogge medie mensili potrebbero diminuire di 8-10 mm entro la fine del secolo, portando a una maggiore aridità. Si prevede che i rischi legati al clima, come ondate di calore, siccità, inondazioni, cicloni e tempeste di sabbia e polvere, diventeranno più frequenti e gravi.

La falda acquifera costiera, la principale fonte di acqua dolce sotterranea di Gaza, è sempre più a rischio a causa dell’innalzamento del livello del mare. Molto prima che l’acqua salata raggiunga la terraferma, perforerà la lente d’acqua dolce e la renderà salmastra e dunque non potabile. La mancanza di accesso a un’elettricità affidabile rende la desalinizzazione un processo costoso e ad alta intensità energetica, quasi impossibile.

Il rapporto 2019 del Relatore Speciale ONU sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati ha evidenziato che la crisi idrica sta creando un grave pericolo per la salute pubblica degli abitanti. La mancanza di un’alimentazione elettrica sicura – a causa di una centrale danneggiata dalla guerra e una cronica mancanza di carburante per far funzionare ciò che rimane dell’impianto – ha fatto sì che il sistema di trattamento dei rifiuti di Gaza funzioni male, quando riesce a essere attivato. Ciò si traduce nello scarico giornaliero nel Mar Mediterraneo di 110.000 metri cubi di rifiuti parzialmente o interamente non trattati. I liquami grezzi vengono raccolti in lagune instabili e pozze di rifiuti, che spesso si riversano nel sottosuolo e nella falda acquifera. Tutto ciò ha portato a livelli molto elevati di nitrati, sostanze chimiche e cloro nelle acque di Gaza, che contribuiscono alla minaccia di malattie trasmesse dall’acqua.

Tale disperata situazione è spesso legata anche al blocco di merci in entrata e in uscita nella Striscia imposto da Tel Aviv e da Il Cairo. Come affermato da B’tselem, centro di informazione israeliano per i diritti umani nei territori occupati, questo impedimento del commercio verso Gaza ha fortemente limitato la reperibilità di materiali da costruzione che servono per i sistemi idrici, sanitari e di trattamento dei rifiuti.

Ad aggravare il problema ci sono anche i frequenti attacchi aerei e i bombardamenti su Gaza da parte di Israele, che diffondono inquinanti nocivi nell’ambiente, come uranio impoverito, fosforo bianco, tungsteno e mercurio, ponendo gravi rischi per la salute della popolazione.

Negli ultimi anni, inoltre, sono state documentate altre pratiche di aggressione ambientale e umanitaria. Israele ha spruzzato erbicidi dannosi sui raccolti palestinesi vicino al confine di Gaza, con il ministero della Difesa che ha giustificato l’azione per “ragioni di sicurezza”. Non si è trattato di singoli episodi, ma di una pratica strategica per allontanare i palestinesi da quei terreni.

Nel 2019, Forensic Architecture ha pubblicato un’indagine intitolata Herbicidal Warfare in Gaza, mostrando che dal 2014 lo sgombero e l’abbattimento di terreni agricoli e residenziali da parte dell’esercito israeliano vicino al confine orientale di Gaza è stato integrato dall’irrorazione aerea di erbicidi che uccidono le colture. La combinazione letale spesso era formata da Glifosato, Oxyfluorfen (Oxygal) e Diuron (Diurex), componenti chimici classificati dall’Agenzia per la ricerca sul cancro dell’OMS come probabilmente cancerogeni per l’uomo.

Bulldozer in azione su terreni di palestinesi in Cisgiordania, per consentire la costruzione di una tangenziale israeliana – Foto da video di B’tselem – 2017

Come denunciato dal primo ministro dell’Autorità nazionale palestinese nella cornice della COP26, inoltre, non è raro che i coloni israeliani, generalmente sostenuti dalle forze di difesa della loro nazione, sradichino, brucino e distruggano migliaia di uliveti coltivati ​​da agricoltori palestinesi.

Si dice che Israele dal 1967 abbia forzatamente strappato dal terreno più di 800.000 ulivi in ​​Cisgiordania, molti dei quali antichi. Tra il 2010 e il 2020, circa 101.988 ulivi sono stati distrutti, secondo Nazeh Fkhaida, direttore del dipartimento di documentazione dei danni agricoli palestinesi. La stessa ONU ha denunciato lo sgombero selvaggio di terreni da parte di Israele per costruire basi militari, zone cuscinetto, strade di raccordo (che sono generalmente inaccessibili ai palestinesi).

Lo stravolgimento del paesaggio è in corso anche a causa del cosiddetto sistema delle tangenziali. Israele ha costruito una vasta rete di queste strade, comprese altre infrastrutture che servono solo i suoi coloni negli insediamenti dei territori palestinesi. In particolare, quando quest’ultimi asfaltano le proprie strade, Israele le demolisce. Qualsiasi edificio o albero entro 75 metri da queste tangenziali viene distrutto con i bulldozer e dichiarato zona militare chiusa. Sono migliaia i metri quadrati in Cisgiordania ricoperti di asfalto con strade di sicurezza, che circondano le case dei coloni senza alcun scopo civile se non quello, proclamato da Tel Aviv, di proteggere i suoi cittadini. In questo nodo, Israele confisca terra generalmente usata dai palestinesi per l’agricoltura, il pascolo, la vita quotidiana.

Uno studio dell’istituto di ricerca Arij, menzionato dalla giornalista di Haaretz Amira Haas, ha inoltre evidenziato che ogni anno i posti di blocco e le deviazioni stradali imposte ai palestinesi in Cisgiordania provocano lo spreco di 80 milioni di litri di carburante. In termini di inquinamento dell’aria significa 196.000 tonnellate di anidride carbonica in più all’anno.

Questa desolante situazione che non accenna a migliorare, è stata definita come un apartheid ecologico dallo studioso Ashley Dawson, del dipartimento di scienze umane ambientali presso la City University di New York, nel suo libro del 2017 “Extreme Cities“. Con questa espressione si intende “l’inasprimento dei confini e le restrizioni ai movimenti di coloro che sono colpiti da disagi ambientali e sociali”, come sta accadendo ai palestinesi di Gaza e Cisgiordania.

Più esplicito è stato il Relatore Speciale delle Nazioni Unite Michael Lynk:

Per quasi cinque milioni di palestinesi che vivono sotto occupazione, il degrado delle loro riserve idriche, lo sfruttamento delle loro risorse naturali e la deturpazione del loro ambiente, sono sintomatici della mancanza di qualsiasi controllo significativo che hanno sulla loro vita quotidiana.

Parole inascolatate, come spesso avviene dinanzi alle gravi ingiustizie nel conflitto israelo-palestinese.

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