Prese di potere incostituzionali e colpi di Stato sembrano essere tornati sulla scena geopolitica dell’Africa. Questi eventi minacciano di porre una battuta d’arresto alle conquiste democratiche ottenute da molti Paesi africani negli ultimi decenni.
L’ Africa subsahariana ha registrato dal 1956 al 2001 più di ottanta colpi di Stato riusciti e centootto tentativi falliti – per una media di almeno quattro l’anno. Dal 2001 al 2019 le statistiche mostravano però dati positivi, evidenziando un calo nella frequenza di questi eventi.
Tuttavia, con l’inizio della pandemia nel 2020 e il generale stato di insicurezza in cui è scivolato il Pianeta, la situazione sembra essersi ribaltata nuovamente. Il 2021 ha visto il susseguirsi di un golpe dietro l’altro – due in Mali e in Sudan a distanza di pochi mesi, uno in Guinea, un tentativo fallito in Niger e un passaggio di potere arbitrario di padre in figlio in Ciad, dopo l’assassinio dell’ex-presidente Idriss Déby. E poi il Madagascar dove sono stati arrestati un gruppo di uomini, fra i quali due cittadini francesi, accusati di pianificare un colpo contro il Governo.
Tutto ciò dimostra con quanta facilità sia ancora possibile strappare il comando attraverso la violenza e come la tendenza alla personalizzazione e centralizzazione del potere in diversi Paesi del Continente rendano assai vulnerabili le istituzioni politiche esistenti.
Inoltre, non è difficile notare come la maggioranza dei Paesi interessati da questo fenomeno appartengano alle aree francofone. Indicativo di come i sistemi di governance democratici delle ex-colonie francesi siano ancora estremamente fragili e risentano pesantemente delle politiche estere della Francia, ancora prepotentemente coinvolta negli affari subsahariani, e che notoriamente pone al primo posto della sua agenda la lotta all’estremismo religioso anziché il buon governo.
Dal 2010, di dodici Paesi sottoposti a riusciti colpi di Stato, otto erano francofoni. Il Burkina Faso, in Africa Occidentale, detiene il numero più alto di golpe andati a buon fine.
Nuove situazioni e vecchie giustificazioni
Le ragioni che giustificano prese di potere anticostituzionali e violente non sembrano essere cambiate negli anni e spesso risuonano quasi identiche a quelle che avevano condonato l’ondata di golpe che investì l’Africa durante gli anni Settanta.
Ricerche condotte in diciannove Paesi africani hanno rivelato come sei intervistati su dieci ritengono che la corruzione sia in aumento nel loro Paese (la cifra è del 63% in Guinea) e come due persone su tre sostengono che i rispettivi Governi stiano facendo ben poco per combatterla.
Inoltre, il 72% ritiene che i cittadini rischiano pesanti ritorsioni se sorpresi a denunciare la rampante corruzione alle autorità, segno della sfiducia di molti africani nei riguardi della sfera pubblica.
Il 5 settembre 2021, ad esempio, il Governo guineano, guidato dall’ex-presidente Alpha Condé, è stato sciolto e sostituito da una giunta militare con a capo il Colonnello Mamady Doumbouya – attuale presidente ad interim.
Le ragioni del colpo di Stato sono familiari a quelle di molti altri contesti simili: corruzione, instabilità degli accordi riguardanti risorse e infrastrutture, e non ultimo il controverso referendum costituzionale messo in atto da Condé per consentirgli di candidarsi alla presidenza per il terzo mandato.
Inoltre, la situazione già difficile di molte economie africane è stata ulteriormente aggravata dalla pandemia. Una persona su tre è ora disoccupata in Nigeria, la più grande economia dell’Africa occidentale, e in Sudafrica, la nazione africana più industrializzata e sviluppata.
Si stima che il numero di persone attualmente sotto la soglia della povertà in Africa subsahariana stia per raggiungere i 500 milioni – ossia quasi la metà della popolazione.
Tutto questo, insieme al generale malcontento popolare, ha creato delle condizioni fertili per il proliferare dei colpi di Stato.
Conflitti generazionali
In questo panorama i giovani giocano un ruolo fondamentale, che viene spesso trascurato. L’Africa è infatti il continente più giovane al mondo, con un’età media di 20 anni e con un tasso di crescita demografica che dal Duemila non scende mai al di sotto del 2,45%; l’Europa, per intenderci, è bloccata allo 0,4%.
Secondo alcune stime, la popolazione del Continente potrebbe raddoppiare entro il 2050 a circa 2,5 miliardi di persone. Oggi una persona su sei vive in Africa, entro trent’anni sarà una su quattro.
Circa il 60% della popolazione ha meno di 25 anni e l’estremo divario di età fra i leader e i cittadini è fonte di grandi tensioni. Sempre più disperata per la feroce competizione per opportunità e risorse, la gioventù africana pare aver perso le speranze nei confronti dei politici, la cui età media si aggira attorno ai 65 anni.
Essi accolgono spesso con entusiasmo le iniziative portate avanti da esercito e unità militari – le quali guidate da leader giovani e carismatici hanno un maggiore appeal sulle nuove generazioni, in quanto si propongono di portare un cambiamento radicale, seppur forse in maniera disfunzionale.
L’euforia provocata dall’annuncio della deposizione di Condé (83 anni) a Conakry e in tutta la Guinea è rappresentativa di questa tendenza. Migliaia di giovani guineani si sono riversati nelle strade per acclamare il lavoro dei soldati.
La gioventù guineana lamenta da tempo la marginalizzazione a cui è sottoposta a livello economico e politico e già nel 2007 furono i gruppi giovanili a guidare le lunghe e violente proteste antigovernative volte a domandare maggiore rappresentazione.
I discorsi sull’inclusività del Colonnello Doumbouya, il cui stile e carisma rimandano non certo a caso a quello di Thomas Sankara, hanno una forte presa su ragazzi e ragazze guineani.
È la vittoria della gioventù guineana! Siamo molto felici, diciamo ‘ben fatto’ all’esercito guineano, alle forze speciali. I giovani hanno vinto, oggi siamo tutti liberi! (Manifestante, Conakry, 2021)
Sarà il tempo a svelare se il Colonnello e la sua équipe sono veramente degli eroi in grado di tener fede alle promesse o semplicemente dei burattini manovrati da pesci più grossi.
La risposta dei giovani a questi eventi non è unanime e molti sostengono che un ritorno a passaggi di potere improvvisi non facciano altro che rallentare il processo di democratizzazione dal basso verso l’alto e lo sviluppo di sistemi elettorali efficienti.
In Sudan, ad esempio, la reazione popolare è stata alquanto diversa da quella vista in Guinea. Qui, il fragile accordo di condivisione del potere tra i leader civili e militari in vigore negli ultimi due anni si è interrotto bruscamente quando, il 25 ottobre scorso, l’esercito guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan, ha preso il potere e sciolto il Governo civile del Primo ministro Abdalla Hamdok.
Da allora le proteste cittadine guidate da donne e gruppi giovanili non si placano e domandano con forza il ritorno a un governo civile condannando la manovra della giunta.
Le ribellioni riflettono l’alto livello di coscienza politica tra i sudanesi emersa dopo la rivoluzione del 2019. Lo slogan #NoWayBack è usato dai manifestanti per esprimere la loro determinazione a non permettere che la Storia si ripeta, e non ricadere nelle dinamiche del passato.
Le reazioni opposte di questa maggioranza oppressa ma non vinta al ritorno dei cosiddetti “uomini forti” dimostrano due modi radicalmente diversi di far fronte ad una politica di cui non si sentono totalmente parte.