[Traduzione a cura di Gaia Bugamelli dell’articolo originale di Leila Nazgül Seiitbek pubblicato su openDemocracy]
Khizbullo Shovalizoda era convinto che l’Austria sarebbe stata un luogo sicuro dove esprimere il suo dissenso senza dover temere ripercussioni, al sicuro dai tentacoli delle autorità tagike.
Ciò di cui l’attivista ventottenne sembrava però non essere a conoscenza, è l’allarmante frequenza con cui i Paesi europei stanno venendo meno alla Convenzione delle Nazioni Unite sui Rifugiati del 1951, faro di protezione per i rifugiati di tutto il mondo da ormai settant’anni.
In un primo momento sembrava che le autorità austriache stessero rispettando la protezione internazionale nel caso di Shovalizoda. Avevano respinto la richiesta di estradizione avanzata dal Tagikistan, ben noto per la sua tendenza all’autoritarismo, dopo un’indagine che aveva dimostrato come le accuse di estremismo e terrorismo contro di lui fossero politicamente motivate. Non ci è voluto molto, però, perché l’Ufficio federale austriaco per l’immigrazione e l’asilo, congiuntamente ai tribunali, annullassero la decisione, negando la loro protezione a Khizbullo.
L’attivista è stato deportato in Tagikistan dalle autorità austriache nel marzo 2020. Subito dopo il suo arrivo all’aeroporto di Dushanbe, il procuratore generale del Tagikistan ha rilasciato un comunicato stampa ringraziando l’Austria per la sua cooperazione nell'”estradare” un “estremista”.
A giugno, durante una sessione del tribunale avvenuta a porte chiuse, a cui osservatori e familiari non hanno potuto assistere, Shovalizoda è stato condannato a 20 anni di prigione con l’accusa di estremismo e tradimento.
Per assurdo, dopo la decisione del tribunale tagiko, un equivalente organo giudiziario austriaco ha stabilito che si fosse trattato di una deportazione illegale e che Shovalizoda non solo dovesse essere rimpatriato in Austria, ma gli dovesse anche essere riconosciuto l’asilo politico.
Nei casi di asilo non si tratta solo di numeri, ma di storie umane. L’ascesa di una radicata narrazione ostile ai migranti all’interno dell’Unione Europea ha fatto sì che l’agenda politica dei suoi Stati membri sia ora uniformemente incentrata al mantenimento dei richiedenti asilo lontano dai propri confini, nonché al rimpatrio del maggior numero possibile di persone nel Paese di provenienza, nell’illusoria convinzione che questo meccanismo disincentivi gli arrivi futuri. Tutto ciò non ha fatto altro che trasformare i confini terreni e marittimi dell’UE in luoghi brulicanti di morte e disperazione.
Gerarchie di esclusione
A tutto ciò va aggiungendosi, negli ultimi anni, la normalizzazione di una forma ben meno evidente – ma non per questo meno subdola – di esclusione, che discrimina i richiedenti asilo in base alla nazionalità. Gli esuli bielorussi in fuga dalla crudele repressione delle proteste a opera del regime di Lukashenko – e in cerca di sicurezza nell’UE – possono ritenersi relativamente fortunati.
Yauheni è tra coloro che hanno preso parte all’ondata di manifestazioni seguite alle illegittime elezioni presidenziali bielorusse nell’agosto dello scorso anno. Come molti altri, ha sofferto la pressione delle forze dell’ordine, tanto che nell’ottobre del 2020 si è visto costretto a partire per la Polonia con un visto turistico. Ha fatto domanda di asilo nel marzo 2021; il suo caso è attualmente sotto esame.
Uladzislau, un attivista LGBTIQ di 28 anni, è fuggito in Ucraina, dove gli è stato concesso un visto umanitario per la Polonia. Entrambi fanno volontariato presso l’organizzazione bielorussa Human Constanta, che fornisce supporto legale a rifugiati, migranti e apolidi.
Intervistati da openDemocracy, Uladzislau e Yauheni hanno parlato dei numerosi ostacoli amministrativi con i quali hanno dovuto fare i conti durante la procedura per la domanda di asilo in Polonia: i centri di migrazione dislocati in aree remote, le interminabili ore di attesa trascorse fuori dall’ufficio immigrazione in un clima rigido, e le difficoltà per ottenere i documenti di identità necessari a rinnovare il permesso di asilo scaduto. Tuttavia, entrambi sono concordi nel riconoscere che i loro problemi non sono nulla a confronto di quelli che gli altri richiedenti asilo sono costretti ad affrontare.
Per “altri”, Uladzislau e Yauheni intendono i rifugiati dell’Asia centrale, del Caucaso, dell’Iraq e dell’Afghanistan. “Sappiamo perché abbiamo questo privilegio. Siamo bianchi“, hanno commentato.
Yauheni ha aggiunto: “Sembriamo europei, proprio come loro. Le persone di qui ci ritengono simili a loro culturalmente, non siamo musulmani, ed è per questo che la gente si dimostra più aperta e meno ostile nei nostri confronti”.
Al contrario, diffidenza e discriminazione sono ciò che richiedenti asilo “non bianchi” soffrono quotidianamente.
Il caso di Farhod Odinaev è emblematico. Prima di diventare richiedente asilo, Odinaev era un uomo d’affari di successo a Mosca, dove si era trasferito dal Tagikistan nel 2014. Il suo errore è stato quello di sostenere l’opposizione politica nel suo Paese d’origine: nel 2007 aveva aderito al Partito della Rinascita Islamica del Tagikistan (IRPT), il secondo partito del Paese. A seguito di una vasta campagna finalizzata a screditare l’IRPT in vista delle elezioni parlamentari del 2015, il partito è stato messo al bando e identificato come organizzazione terroristica; sono seguiti arresti di massa e persecuzioni dei suoi membri, compresi quelli residenti all’estero.
È a seguito di questi avvenimenti che Odinaev diventa un bersaglio. Su richiesta delle autorità tagike, viene arrestato in Bielorussia alla fine del 2019 mentre era diretto in Polonia per una sessione dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa. Aveva in programma di parlare dei diritti delle persone migranti nella Federazione Russa.
Le pressioni da parte di importanti organizzazioni per i diritti umani hanno poi riscosso il successo sperato e la Bielorussia ha liberato Odinaev. Nonostante le accuse di estremismo, nonché di aver finanziato e diretto organizzazioni estremiste, ha continuato il suo viaggio in Europa e richiesto l’asilo non appena arrivato in Germania. Nonostante la prospettiva di una pena detentiva di circa 50 anni in Tagikistan, il suo calvario non sembra tuttavia aver convinto la Germania a concedere a lui e alla sua famiglia la protezione internazionale.
Le autorità tedesche, nel negare a Odinaev il permesso di asilo, hanno dichiarato di non considerarlo un rifugiato, sostenendo non abbia i requisiti perché gli venga approvato lo status di rifugiato secondo la definizione della Convenzione di Ginevra del 1951. Hanno inoltre insinuato che i suoi timori di persecuzione non siano fondati e che non esistano ragioni perché non possa tranquillamente tornarsene a casa. Per adesso, Odinaev rimane in Germania in attesa del risultato del suo appello contro l’ordine di deportazione.
Altri casi rimangono in sospeso. Hamid (nome di fantasia), avvocato per i diritti umani, ha lavorato in Tagikistan e poi in Russia con migranti dell’Asia centrale, aiutandoli a ottenere permessi di lavoro e documenti ufficiali di residenza. Dopo che uno dei suoi colleghi è stato rapito a Mosca e trasferito in una prigione a Dushanbe, Hamid ha iniziato a ricevere telefonate e messaggi da funzionari della sicurezza tagika. Lo accusavano, dice, di avere legami con l’opposizione all’estero. Durante una delle chiamate, un investigatore gli disse che era stato aperto un procedimento penale contro di lui con l’accusa di estremismo.
Non sentendosi al sicuro in Russia, Hamid è fuggito in Ucraina nel tentativo di raggiungere il confine polacco per chiedere asilo politico. Aveva sentito da alcuni colleghi nell’ambito dei diritti umani in Europa e in Bielorussia che questo sistema era solito funzionare per i cittadini bielorussi.
Ma per Hamid le cose sono andate diversamente. È stato respinto tre volte alla frontiera polacca con tre giustificazioni differenti: che doveva fare domanda di asilo all’ambasciata polacca a Kiev; che il valico di frontiera era chiuso a causa del COVID-19; che doveva fare domanda di asilo in Ucraina. Sostiene di essere stato respinto anche in altre occasioni senza alcuna spiegazione.
Hamid è confinato in un limbo legale sulla frontiera, e continua imperterrito nel tentativo di chiedere asilo in Polonia. Non può fare domanda d’asilo in Ucraina, dice, perché le autorità per l’immigrazione richiedono un contratto d’affitto di minimo tre mesi – un documento che non ha.
Una questione di vita e di morte
Aleksandra Chrzanowska, esperta legale dell’Associazione polacca di Intervento Legale, sostiene che l’afflusso di richiedenti asilo dalla Bielorussia abbia mostrato a lei e ai suoi colleghi “quanto la procedura di asilo possa essere diversa a seconda dei singoli casi“.
Nel caso di candidati bielorussi, i colloqui generalmente si limitano a una serie di domande scritte, alle quali le persone di solito ricevono una risposta positiva dai quattro ai sei mesi di distanza. Nonostante i difensori dei diritti polacchi siano molto felici di constatare quanto avvenga, ha spiegato Chrzanowska, lo attribuiscono, almeno in parte, al fatto che i bielorussi vengono considerati “fratelli slavi” in Polonia.
“Saremmo felici di vedere questo trattamento esteso anche a tutti gli altri rifugiati“, ammette. “Per esempio, sappiamo che c’è una situazione altrettanto difficile in Tagikistan. Ma le procedure per i richiedenti tagiki sono molto più lunghe e complicate, con un tasso di dinieghi iniziali molto alto, a cui seguono richieste di appello. Ne consegue che il processo può andare avanti per diversi mesi o addirittura anni.”
“Ora ci rendiamo conto di quanto il sistema possa agire diversamente quando c’è una volontà“. Nasta Loiko di Human Constanta è d’accordo con l’analisi di Chrzanowska. Ha seguito il caso di Odinaev durante il suo arresto in Bielorussia, e sostiene che la sua organizzazione abbia dato voce per anni alle preoccupazioni sulla discriminazione contro i rifugiati musulmani in Europa. Mentre Loiko è grata all’Europa per aver aperto le sue porte agli esuli bielorussi, vorrebbe che lo stesso trattamento fosse esteso ai richiedenti asilo non bianchi di diversa provenienza, musulmani compresi.
Dal 2015 ha preso piede l’idea che l’Unione Europea sia invasa da persone che usano l’asilo come strumento di copertura per approfittare dei benefici sociali dell’Europa. Questa retorica infamante è riuscita a consolidarsi anche grazie a un discorso pubblico inquinato da una politica senza scrupoli, e da media che troppo spesso dipingono le persone rifugiate come criminali e stupratori. Di conseguenza, il trattamento riservato a rifugiati musulmani negli stati membri dell’Unione sembra essere drasticamente peggiorato. Invece dell’asilo, i musulmani possono aspettarsi la deportazione. Alla fine di agosto, le autorità tedesche hanno deportato otto richiedenti asilo in Tagikistan; un altro gruppo rischia la stessa sorte nelle prossime settimane.