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Afghanistan, le rotte circolari che i migranti preferiscono all’Europa

[Traduzione a cura di Luciana Buttini dall’articolo originale di Aziz A. Hakimi pubblicato su openDemocracy. Quest’analisi è dedicata ad intervistati di lingua turkmena provenienti dal Nord dell’Afghanistan.]

Rifugiati afghani in Iran. Flickr/EU Civil Protection and Humanitarian Aid in licenza CC

La caduta dell’Afghanistan seguita all’avanzata talebana ha scatenato preoccupazioni di interesse globale circa una possibile nuova ondata di rifugiati. Le sconvolgenti immagini di persone che, in preda alla disperazione, nei giorni scorsi cercavano di scappare dall’aeroporto di Kabul consolidano infatti l’idea di una crisi migratoria.

Il panico morale creatosi attorno al fenomeno della migrazione genera una politica della crisi che, a sua volta, conferma l’inasprimento di misure eccezionali volte a rafforzare i confini europei. È in questo contesto più generale di crisi e di vigilanza che va inquadrata la risposta militarizzata dei Paesi occidentali alla sofferenza umana che ha preso corpo all’aeroporto della Capitale. Questo stato di eccezione ha dato origine a una rappresentazione perversa e orientalista della nazione, secondo cui solo l’esercito americano e gli alleati della NATO possano intervenire tra i civili afghani e placare le barbarie dei talebani.

Quest’interpretazione della migrazione di emergenza fondata sulla crisi si basa su un’ideologia storicamente sbagliata dei flussi migratori nella regione, che invece esistevano già prima della guerra, dell’intervento militare occidentale e persino del “ritorno” dei talebani al potere.

In un momento di emergenza come questo, tuttavia, bisogna saper ricorrere a un pensiero politico diverso, che permetta di riflettere sul fenomeno migratorio oltre i limiti della crisi umanitaria. Sebbene lo scenario attuale sia molto tetro, è importante ricordare che sono altri i motivi che spingono gli afghani a emigrare, e tra questi non ci sono né la guerra né la repressione talebana.

I talebani hanno dichiarato la fine della guerra e, mentre si spera che lo stato di sicurezza nel Paese si stabilizzi, è probabile che gli afghani riprendano a migrare all’interno della Regione perché questo processo è da lungo tempo fondamentale per l’esistenza e il sostentamento delle famiglie rurali in tutto l’Afghanistan.

Il mio studio rivela come, fino a poco tempo fa, per molti afghani, in particolare per i ragazzi, l’Europa non fosse necessariamente la meta prescelta per richiedere lo status di rifugiati. Molti giovani con cui ho lavorato in Afghanistan e in Turchia negli anni 2017 e 2018 avevano altre motivazioni, più comuni, per emigrare.

Questi ragazzi di lingua turkmena provenienti dal Nord dell’Afghanistan avevano intrapreso viaggi pericolosi attraverso il Pakistan e l’Iran per raggiungere la Turchia. Una volta arrivati, erano stati impiegati nel settore edile e dei servizi del Paese oppure avevano lavorato come cuochi, camerieri o addetti alle pulizie. Alcuni erano stati operai nelle fabbriche tessili dove i vestiti prodotti venivano esportati nei mercati medio orientali ed europei.

Si tratta di uomini che hanno forti legami sociali con le comunità del loro Paese natale, e ciò significa che quasi nessuno sia interessato a emigrare in Europa. Al contrario, hanno lavorato illegalmente in Turchia in condizioni di sfruttamento e nella paura costante di essere deportati. Le loro aspirazioni corrispondevano a ideali maschili quali: voler diventare il capofamiglia, mantenere la propria famiglia e raggiungere lo status sociale e il prestigio derivanti dal matrimonio. In Afghanistan, un matrimonio combinato in cui la sposa viene scelta dai genitori dello sposo è ancora considerato il percorso più autorevole verso l’unione coniugale e la costituzione della famiglia.

Pertanto, i migranti inviavano gli stipendi a casa per sostenere le famiglie di origine e mettevano qualcosa da parte per pagare il cosiddetto “prezzo della sposa”. Eppure, il mercato del matrimonio è cambiato e le risorse delle famiglie contadine afghane, basate sulla terra e sull’agricoltura, non sono più sufficienti.

È necessario invece disporre di denaro contante per pagare un alto “prezzo della sposa”. Inoltre, i matrimoni costosi e in grande sono diventati ormai la norma. Dopo cinque o sei anni, gli uomini tornano nei loro villaggi per sposarsi e mettere su famiglia. Questa modalità circolare di vita itinerante che prevede di lavorare in Turchia e mantenere le famiglie in Afghanistan, ha subito forti pressioni a causa della pandemia, della chiusura dei confini nella Regione e dei conflitti armati nel Paese.

Recentemente, un altro tipo di migrazione afghana è stato quello provocato da guerre e conflitti. Negli ultimi anni, secondo le stime dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) si contano annualmente tra i 750.000 e 1 milione di cittadini afghani che emigrano dal loro Paese verso l’Europa, passando spesso per la Turchia.

Durante la fase rurale del conflitto, prima che i talebani invadessero le principali città dell’Afghanistan, l’OIM ha registrato un incremento del 30-40% del numero di afghani che lasciavano il Paese, con un flusso settimanale di circa 20.000 o 30.000 persone dirette verso Occidente. La causa di ciò è stata attribuita al ritiro delle truppe internazionali e al conseguente deterioramento del livello di sicurezza in tutta la nazione.

La guerra non sarà più tra i maggiori fattori di spinta migratoria ma ciò non significa inevitabilmente la fine dei flussi migratori dall’Afghanistan. È probabile invece che, a causa del profondo stato di povertà delle famiglie rurali e dell’interrelazione tra strategie migratorie e strategie coniugali dei giovani afghani, si riprendano i vecchi schemi di migrazione, scombussolati dalle guerre e dal COVID-19.

Per ora, con le frontiere ancora chiuse, solo una piccola parte di cittadini in fuga riuscirà a raggiungere mercati del lavoro regionali come la Turchia. Da quanto si apprende, il Pakistan, terra dove milioni di afghani hanno cercato rifugio durante i conflitti degli anni ’80 e ’90, ha completato il 90% della Linea Durand, il confine coloniale britannico che condivide con l’Afghanistan. Anche la Turchia è impegnata a costruire un muro lungo il confine con l’Iran per arginare il flusso di migranti e profughi afghani.

Non si può negare che i giovani afghani lascino le loro case in cerca di protezione e sicurezza economica. Tuttavia, le motivazioni e le rotte intraprese dagli afghani sono varie e complesse. Prima che i talebani prendessero Kabul e ripristinassero l’Emirato Islamico, la complessità del problema non poteva essere ridotta al sistematico scenario di una “fuga” unidirezionale dall’Afghanistan.

Tanto per cominciare, non tutti riescono a lasciare il Paese. Mentre coloro che hanno conoscenze all’estero vengono evacuati, la stragrande maggioranza degli afghani resta bloccata in Afghanistan e dispone di risorse scarse o nulle per poter andare altrove. Inoltre, è probabile che il numero di sfollati interni superi quello di coloro che non riescono a partire e ciò risulta particolarmente vero in considerazione degli atteggiamenti ostili mostrati dagli Stati confinanti e dalla polizia che controlla pesantemente le frontiere.

Anche la migrazione circolare degli afghani da e verso la Turchia, agevolata dalle reti di traffico di esseri umani, risente dell’impatto della sua criminalizzazione, nonché di una maggiore sorveglianza oltre i confini internazionali. Le guerre e le migrazioni nel Nord del Paese hanno senza dubbio pregiudicato questo debole ciclo.

Con la perdita delle reti sociali e dei legami familiari nei loro villaggi, i giovani migranti afghani oggetto del mio studio etnografico a Istanbul, sono stati costretti temporaneamente a rivolgere lo sguardo ancora più a Ovest, verso l’Europa. Tuttavia, la fine del conflitto e il ritorno al potere dei talebani a Kabul, potrebbero agevolare il ripristino del flusso migratorio circolare dei cittadini.

Guerre prolungate, povertà, siccità e disoccupazione sono stati i fattori di spinta che hanno portato gli afghani a emigrare al di fuori del Paese. In effetti, l’economia rurale stagionale dell’Afghanistan, basata sull’agricoltura e sul sistema di mezzadria, potrebbe fornire lavoro retribuito soltanto a un numero esiguo di cittadini appartenenti alla classe operaia.

Ciò ha fatto sì che molti uomini poveri e contadini siano andati a cercare lavoro nei centri provinciali o in quelli economici regionali del Paese, come Mazar-i-Sharif nel Nord, Herat a Ovest, Kandahar nel Sud, Nangarhar a Est e Kabul nel centro. Coloro che disponevano di maggiori risorse e ambizioni si sono trasferiti all’estero, orientandosi verso mercati regionali come la Turchia, soprattutto se erano lavoratori di lingua turkmena provenienti dal Nord dell’Afghanistan.

Secondo le stime, attualmente in Turchia vivono ben 200.000 migranti afghani e il Paese, nonostante i tentativi di espulsione da parte delle autorità nei confronti dei rifugiati, resta una meta attraente. Istanbul è la destinazione preferita dei lavoratori migranti afghani. Qui i costi di viaggio per arrivare dal Sud dell’Afghanistan passando per il Pakistan e l’Iran, non sono proibitivi in quanto si aggirano tra gli 800 e i 1.000 dollari.

Inoltre, per pagare il viaggio, i migranti possono scegliere tra tante diverse modalità come ipotecare i terreni familiari nel Paese di origine per assicurarsi un anticipo in contanti, oppure rivolgersi ad amici e parenti che si trovano già in Turchia. Alcuni possono decidere di trascorrere alcuni anni a lavorare in Iran al fine di guadagnare e risparmiare quanto basta per recarsi in Turchia.

Un tempo i lavoratori migranti afghani venivano accolti volentieri nel Paese come manodopera a basso costo. Come lavoratori clandestini, di solito accettavano salari più bassi e lunghi turni di lavoro che arrivavano fino a 12 ore, senza avere alcun tipo di assicurazione o prestazione sociale. Ma le cose sono cambiate e dal 2018 le autorità turche hanno iniziato a espellere in massa gli afghani. Durante il processo di espulsione, nel 2019 oltre 200.000 afghani sono stati arrestati mentre entravano in Turchia e molti di loro sono stati mandati via. Ciò ha dato luogo a un altro ciclo di disperazione.

Prendiamo ad esempio il caso di due fratelli che ho intervistato. Dopo essere stati espulsi nel 2018, qualche mese dopo hanno fatto ritorno a Istanbul ma nel frattempo si erano fortemente indebitati. L’espulsione pesa ulteriormente a livello finanziario sui lavoratori migranti in quanto questi ultimi non soltanto devono provvedere a inviare gli stipendi a casa e cercare di risparmiare per il “prezzo della sposa” ma devono anche pagarsi il viaggio di ritorno. I fratelli in questione hanno dovuto chiedere in prestito del denaro a parenti e amici per tornare a Istanbul.

Per alcuni, possono volerci cinque o sei anni per mettere da parte abbastanza soldi per pagare il compenso matrimoniale, la cui cifra oscilla dai 12.000 ai 15.000 dollari. Coloro che, al contrario, hanno la sfortuna di essere espulsi devono lavorare all’estero ancora più a lungo prima di tornare in Afghanistan e sposarsi.

Negli anni 2017 e 2018 trascorsi a Istanbul, ho capito che le speranze e le aspettative degli afghani che ho incontrato non fossero in armonia con le correnti politiche del momento. Infatti i sentimenti anti-immigrati si sono inaspriti sia nella regione che altrove. Ora, con la caduta di Kabul sotto i talebani e l’attesa di una nuova ondata di migranti afghani, questi sentimenti sono destinati a crescere in Europa e in America del Nord.

Eppure, la modalità di vita itinerante qui descritta, in cui i giovani afghani lavorano in Turchia per mantenere i propri familiari, resta fondamentale per la sopravvivenza di molte famiglie contadine. Sfortunatamente, questo modello itinerante continuerà a essere minacciato in diversi modi, soprattutto con la pandemia.

Detto ciò, ora che il conflitto attivo nel Paese è volto al termine potrebbe avere ancora una possibilità. Una volta garantita la sicurezza sia nelle zone rurali che nelle città in Afghanistan, è possibile che il flusso itinerante si stabilizzi. In un momento di forte ansia in Europa a causa del probabile afflusso di rifugiati afghani, è importante documentare uno stile di vita distintivo e una cultura migratoria unica che non guarda ai Paesi occidentali.

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