Un esercito pacifico e quasi invisibile di braccianti indiani – e non solo, tra loro anche immigrati africani e di altre origini asiatiche – ogni giorno “invade” le terre dell’Agro Pontino, in provincia di Latina, Italia. Sono i lavoratori agricoli che già prima dell’alba iniziano la giornata nei campi di questa pianura a pochi chilometri dal rinomato litorale di Sabaudia e del Parco Nazionale del Circeo. Palude bonificata ai tempi del fascismo, oggi il territorio dedito alle piantagioni ortofrutticole è diventato un centro di produzione del settore di grande rilevanza. Da qui frutta e verdura partono anche per mercati extraeuropei.
Il tutto, però, avviene sulle spalle soprattutto della comunità indiana di religione sikh, originaria della regione nordoccidentale del Punjab. Più che lavorare, ormai da anni questi braccianti vengono sistematicamente sfruttati, in un drammatico vortice di violenza, asservimento, diritti negati, fenomeni di caporalato.
A fare il punto sulla situazione per Voci Globali è Marco Omizzolo, sociologo Eurispes e docente di sociopolitologia delle migrazioni presso l’Università La Sapienza, da tempo in prima linea nella lotta contro lo sfruttamento dei braccianti indiani nell’Agro Pontino.
Chi sono, innanzitutto, questi lavoratori nelle terre laziali? La comunità, come ci è stato raccontato, conta tra regolari e irregolari circa 28.000-30.000 persone compresi bambini, anziani, uomini, donne in generale asiatici provenienti dall’India e con una quota anche di pachistani e bangladesi. Di queste, circa 12-15.000 sono impiegate in agricoltura in condizioni varie di emarginazione e subordinazione. Dall’altra parte della vergognosa storia ci sono aziende e cooperative soprattutto di media entità, con risonanza internazionale e fatturati molto elevati.
Omizzolo ha voluto innanzitutto precisare l’esistenza di un episodio chiave: la manifestazione del il 18 aprile 2016, da lui definita una “linea di demarcazione, con lo sciopero organizzato dalla CIGL che ci ha permesso di portare in piazza a Latina circa 5.000 lavoratori e lavoratrici indiani”.
Si potrebbe delineare un prima e un dopo rispetto a quella data, sebbene i cambiamenti non siano stati così impattanti. Omizzolo ci ha infatti spiegato:
“Prima di quello sciopero la situazione era drammaticamente e sostanzialmente uniforme, con retribuzioni anche del 60-70% in meno rispetto a quello che prevedeva il contratto provinciale del lavoro, turni anche di 14 ore al giorno, lavoro durante il sabato e la domenica, caporalato in varie forme anche piuttosto sofisticate e vessazioni di diversa natura, anche fisica.
Ho vissuto un anno e mezzo con la comunità indiana – continua il sociologo – e ho lavorato tre mesi come infiltrato nelle campagne, seguendo le pratiche di un trafficante indiano. C’era un verbale, un comportamento, pratiche e linguaggi finalizzati proprio alla subordinazione dei lavoratori e delle lavoratrici. Il tutto, facilitato dalla scarsa conoscenza dell’italiano, del diritto e da forme di emarginazione anche spaziale e urbana dei braccianti. Si viveva spesso dentro alcuni residence dove vi era un livello molto alto di solidarietà interna alla comunità, nel senso che chi viveva in condizioni di povertà dovuta al grave sfruttamento riusciva ad arrivare a fine mese perché gli altri si prendevano cura di lui e perché poteva rivolgersi al tempio.”
Lo sciopero ha in qualche modo fatto emergere la consapevolezza dell’ingiustizia subita in alcuni lavoratori, seppure, come spiegato da Omizzolo:
“Le cose non sono né cambiate, né peggiorate, ma sono diventate più articolate e complesse. Persistono condizione di grave sfruttamento, lo ha riconosciuto anche l’ONU. Ci sono ancora violenze, forme di intimidazione, ma nel contempo c’è stato anche un processo di emancipazione e superamento di contraddizioni, un po’ causato dal timore di alcuni imprenditori, a seguito dello sciopero, di ricevere denunce dai lavoratori. In seguito alla manifestazione io stesso ho accompagnato oltre 150 lavoratori presso le forze dell’ordine, in Questura e al Comando provinciale dei Carabinieri proprio per denunciare appunto, e sono partiti i relativi processi. Questo ha determinato un aumento delle vertenze, ma anche la concessione di un aumento della retribuzione da parte di alcuni imprenditori. Così alcuni braccianti hanno migliorato le condizioni socio-economiche”.
Ma c’è ancora molto da fare. L’elenco delle attuali condizioni di illegalità è lungo, come chiarisce lo studioso: la retribuzione è ancora oggi in parte inferiore del 50% rispetto al contratto provinciale. Prima dello sciopero la paga arrivava in media a 3,50 euro l’ora, ora siamo intorno ai 4,55 euro l’ora mentre il contratto ne prevede 9 lordi per lavorare però 6,30 ore al giorno. In questo periodo, invece, si lavora anche 10-12 ore giornaliere e anche di sabato e domenica. Non è raro che si inizi alle 4 del mattino, non solo per allungare il più possibile le ore sui campi – è stato riscontrato che gli imprenditori manomettono i badge dei braccianti per cancellare le ore di troppo – ma anche per evitare i controlli e insabbiare così le attività di caporalato.
E poi c’è stata la pandemia a gettare ulteriori ostacoli all’emancipazione del lavoro nelle terre dell’Agro Pontino. Il Covid ha infatti peggiorato la situazione dei braccianti indiani, come testimoniato da Omizzolo: “il lockdown è stato drammatico perché la filiera della produzione agricola è rimasta aperta e questo ha significato che i caporali indiani hanno continuato a reclutare i lavoratori connazionali ma sono saltati i controlli.
Tutto ciò “ha prodotto una diminuzione delle pause durante la giornata, un aumento dell’intensità di lavoro spinta dalla domanda dei beni agricoli moltiplicata con il lockdown, soprattutto nella grande distribuzione, un abbassamento delle retribuzioni e il calo delle denunce. Le vittime dello sfruttamento durante la pandemia non hanno trovato forze e mezzi per segnalare le illegalità e le violenze”.
Si deve aggiungere anche il fenomeno del doping dei braccianti. Una pratica vergognosa di sfruttamento denunciata dalla cooperativa In migrazione – della quale fa parte il sociologo – già nel lontano 2014 con un dossier che ha fatto il giro del mondo. Nel documento si legge che gli indiani erano:
costretti a doparsi con sostanze stupefacenti e antidolorifici che inibiscono la sensazione di fatica e stanchezza. Una forma di doping vissuto con vergogna e praticato di nascosto perché contrario alla loro religione e cultura, oltre a essere severamente contrastato dalla propria comunità. Eppure per alcuni lavoratori sikh si tratta dell’unico modo per sopravvivere ai ritmi di lavoro imposti, insostenibili senza quelle sostanze… “Io vergogno troppo perché mia religione dice no questo. No buono per sikh. È vietato da nostra bibbia. Ma padrone dice sempre lavora e io senza sostanze no posso lavorare da 6 di mattino alle 18 con una pausa solo a lavoro”.
La procura della Repubblica con il supporto dei Nas ha dato quindi avvio all’operazione “No pain”, con la quale nel maggio scorso sono stati arrestati anche un medico di base di Sabaudia e una farmacista, che prescrivevano ossicodone e paracetamolo ai lavoratori indiani senza che avessero patologie, al solo scopo di far loro sopportare le fatiche psico-fisiche del lavoro e dello sfruttamento. C’è il sospetto che un bracciante a maggio 2020 sia morto proprio per l’assunzione letale di queste sostanze prescritte. Le testimonianze raccolte per il dossier sono esplicite per capire la brutalità dello sfruttamento. Tra queste si legge:
Noi sfruttati e non possiamo dire a padrone ora basta, perché lui manda via. Allora alcuni indiani pagano per piccola sostanza per non sentire dolore a braccia, a gambe e schiena. Padrone dice lavora ancora, lavora, lavora, forza, forza, e dopo 14 ore di lavoro nei campi come possibile lavorare ancora?
Per Omizzolo, è emerso che il “sistema doping” si è evoluto dalla denuncia del 2014 piuttosto che fermarsi o, meglio, essere fermato: “E questo perché c’è un gap politico e culturale. Abbiamo una legge per il caporalato che è buona, la 199, ma da sola non basta. La mancanza di norme altrettanto valide di riforma del sistema agro-alimentare nazionali ed europee è tra le responsabili del perpetuarsi dello sfruttamento in Italia e questa mancanza di norme è legata alla volontà politica, ballerina e immatura.
La comunità indiana ha sicuramente preso coraggio dopo lo sciopero e alcuni lavoratori, oltre a denunciare le violenze e le illegalità del padrone, si sono anche costituiti parte civile nei processi. Un passo in avanti importante, ma insufficiente per l’emancipazione piena e consapevole da parte di tutti i braccianti.
Omizzolo ha sottolineato che oggi si rileva un fenomeno preoccupante: il dominio crescente di singoli soggetti indiani che si auto-proclamano capi dell’intera comunità, ma di fatto operano contro di essa. Essi infatti svolgono un ruolo ambiguo, dialogando con le istituzioni territoriali e, al contempo, agendo come loro complici o contro i diritti degli stessi indiani. Sono persone con molto potere, che hanno anche accumulato una certa ricchezza. E, forti di tale posizione, ostacolano l’emancipazione della comunità indiana, assoggettandola ancora di più alle volontà del padrone.
Quale futuro avranno i braccianti indiani dell’Agro Pontino? A questa domanda nessuno sa rispondere con certezza. Il cammino di lotta comunque proseguirà, ci tiene a sottolineare il nostro interlocutore. Con l’associazione Tempi moderni è in itinere un progetto chiamato “Dignità” che consiste nell’apertura di sportelli di sostegno ai lavoratori con avvocati preparati e mediatori culturali. Lo scopo è ascoltare, accogliere, assistere i braccianti e indirizzarli in una strada di emancipazione che, ricorda Omizzolo, è “anche conflittuale, di denuncia contro sfruttatori, trafficanti, mafiosi… per provare a ribaltare i rapporti di forza”.
Con un rammarico: l’incapacità della politica di agire con convinzione. Esistono singole interlocuzioni con esponenti politici anche importanti e avanzate, ma finché questo dialogo farà fatica a diventare volontà di maggioranza, lo sfruttamento dei lavoratori non sarà sconfitto.