[Traduzione a cura di Gaia Resta dell’articolo originale di Boaz Azili pubblicato su The Conversation]
*NdR: all’articolo, pubblicato il 18 maggio 2021, è seguita il 20 maggio la notizia del cessate il fuoco tra Israele e Hamas.
Israele e Hamas sono bloccati all’interno di un vortice sempre maggiore di violenza.
Non è una novità. A intervalli di qualche anno, si verificano scoppi di violenza su larga scala che durano giorni o settimane, per terminare con un cessate il fuoco temporaneo che riporta la situazione al precedente e deprimente status quo: la striscia di Gaza devastata e sotto assedio, e la vicina popolazione israeliana nella costante paura di un attacco futuro.
Il conflitto è ben lontano dall’essere ad armi pari (Israele attinge a risorse militari molto più ampie di quelle di Hamas) ma è traumatico per entrambe le parti.
E nessuna delle due fazioni ha un’idea, una risoluzione militare o una soluzione diplomatica per l’impasse.
I leader israeliani sanno che portare avanti l’offensiva su Gaza causerà una sempre maggiore raffica di razzi sui propri centri abitati, inclusa persino Tel Aviv, la città più grande di Israele che in passato non aveva mai subito un attacco missilistico di tale ferocia. I leader di Hamas a loro volta sanno che, per questi lanci continuativi di razzi, la popolazione di Gaza paga un prezzo sproporzionatamente alto e crescente.
Allora perché l’escalation? Perché ciascuno vuole che il prezzo pagato dalla propria parte appaia più alto di quello pagato dall’altra. A questo tipo di competizione non può esserci fine.
Infliggere sofferenza all’altra parte
La striscia di Gaza è una piccola striscia di terra, densamente popolata, affacciata sul Mar Mediterraneo. Dal 2007 l’area è di fatto governata da Hamas, che Israele definisce un’organizzazione terrorista, ma che la maggior parte dei palestinesi considera un legittimo partito politico.
Sempre dal 2007 dura l’embargo che Israele ha imposto sulla striscia di Gaza per ritorsione contro i missili palestinesi sparati da Gaza verso il confine israeliano. Il risultato è stato una sempre crescente tragica crisi economica, fame e disperazione a Gaza. Le ripetute fasi di violenza non hanno cambiato la situazione in alcun modo e quella attuale non sembra diversa.
L’obiettivo principale di Israele è di essere considerato spietato contro i propri nemici, come Hamas. Non per ottenere una vita migliore per i propri cittadini o per sostenere gli interessi nazionali, ma perché è un obiettivo in sé, come dimostrato nel libro che Wendy Pearlman ed io abbiamo scritto sull’argomento.
Nonostante l’asimmetria delle forze in campo, il modo di pensare è simile anche tra i leader di Hamas. Il che è evidente dai ripetuti episodi di violenza a cui dà inizio e che non conducono ad alcun successo strategico, ma che aumentano soltanto il prestigio di Hamas in quanto oppositore all’oppressione di Israele.
Per entrambe le parti la reputazione non si definisce mostrando risolutezza, resilienza o perseveranza; cosa che si potrebbe ottenere con mezzi difensivi.
Ma si riduce a un calcolo letale: maggiore è la sofferenza della controparte, migliore è la propria reputazione. Non importa quanto soffra anche la tua gente.
Funziona così: un bambino israeliano rimane ucciso in un attacco missilistico di Hamas su Sderot, a Est della striscia di Gaza. Allora i missili israeliani riducono in polvere un edificio a Beit Lahia, a pochi miglia di di stanza, uccidendo quattro bambini di una stessa famiglia.
Israele rade al suolo una torre residenziale nella striscia di Gaza. Allora Hamas aumenta il raggio e la quantità di razzi lanciati contro la parte centrale di Israele.
E si va avanti così, con un letale “occhio per occhio” in cui Israele reagisce con moltiplicata intensità a ogni episodio di violenza da parte di Hamas.
Non razionale
In genere, gli studiosi considerano i tentativi di una nazione di affermare la propria reputazione in termini di determinazione, come parte di un atto razionale per scoraggiare attacchi nemici.
Quindi, se i leader di Israele o di Hamas credono che le loro azioni impediranno attacchi futuri da parte del nemico, allora questa ferocia potrebbe avere una logica, anche se non una moralità. Ma è ovvio che le azioni di entrambe le parti non hanno questa funzione.
Quando una reale vittoria è impossibile e le due parti sono riluttanti a impegnarsi in negoziati seri, l’escalation ha lo scopo, invece, di creare una “immagine della vittoria”, come descritto dal commentatore Zvi Bar’el sul giornale israeliano Ha’aretz il 12 maggio scorso.
Il giorno precedente, l’11 maggio, il leader di Hamas Ismail Haniyeh aveva dichiarato che l’organizzazione “aveva ottenuto la vittoria nella battaglia di Gerusalemme”, riferendosi al conflitto circa lo sfratto di alcuni palestinesi dalle loro case che ha dato inizio alla conflagrazione in atto. Haniyeh ha detto che l’organizzazione ha “imposto un nuovo equilibrio di potere” rispetto a Israele.
Tuttavia è chiaro che, mentre Gaza si sgretola sotto la ferocia dei bombardamenti israeliani e Gerusalemme rimane fermamente controllata da Israele, Hamas non ha ottenuto nulla di quanto dichiarato.
Il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha asserito che gli obiettivi dei vertici governativi sono “una pace duratura, il rafforzamento delle forze moderate nella regione e la privazione di Hamas delle capacità strategiche”.
Eppure, le azioni di Israele – come tutti i precedenti episodi di violenza – hanno soltanto rafforzato il potere politico e militare di Hamas, come dimostrato dalla sua capacità di raggiungere una vasta area del territorio israeliano mai raggiunta prima, e per periodi di tempo sempre più lunghi. I cittadini di Israele, da Beer-Sheva al Sud fino a Tel Aviv più a Nord, continuano ad affrontare raffiche di missili provenienti da Gaza. La carneficina a Gaza aumenta, così come aumenta il danno subito da Israele dal punto di vista diplomatico.
Esibirsi per il proprio pubblico
Quale potrebbe essere l’obiettivo delle azioni portate avanti dai leader di Israele e di Hamas?
L’immagine della vittoria di ciascuno si rivolge esclusivamente al pubblico interno. Sia Israele che Hamas usano frequentemente il termine “dissuasione” quando giustificano le proprie azioni contro l’altro.
Ma la loro pratica non è un tentativo razionale di influenzare le azioni avversarie. Non è un tentativo razionale di rendere il proprio popolo più sicuro. Dunque, non serve a potenziare la dissuasione. Convincere la tua gente che hai riportato una vittoria non determina il grado di dissuasione del nemico.
Per Israele, tali distorsioni della comprensione delle dinamiche della dissuasione non sono nuove. La politica vendicativa di Israele è iniziata negli anni Cinquanta come tentativo più o meno razionale di dissuadere i nemici dal minacciare gli interessi israeliani.
Ma poi si è trasformata in una “cultura strategica” o in una reazione abituale a qualsiasi attacco su suolo israeliano, che la rappresaglia produca risultati positivi o no.
Il bombardamento delle infrastrutture libanesi da parte di Israele durante la guerra del 2006 offre un buon esempio. Come allora, oggi Israele cerca di ottenere un’immagine vittoriosa piuttosto che risultati concreti. E Hamas punta allo stesso obiettivo.
Fino a quando le due fazioni cercheranno di convincere la propria gente della loro superiorità, dell’ingegno militare e della loro risolutezza, fino a quando i leader di entrambe le parti ignoreranno le conseguenze delle loro azioni, i loro stessi cittadini e il resto del mondo – che assistono in preda all’orrore – non dovranno aspettarsi alcun progresso.