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Amazzonia, la lotta dei nativi per proteggerla dalla distruzione

Che il sistema economico di produzione globale sia incurante degli equilibri ecologici e dei tempi della Natura, è risaputo. Come lo è il crescente deterioramento della Foresta Amazzonica e della vita intorno ad essa, perpetuato in nome del progresso. Straordinaria fonte di innumerevoli risorse, le condizioni di quell’immenso territorio peggiorano con il tempo:

Sotto l’amministrazione Bolsonaro, ogni minuto viene distrutta un’area della Foresta grande quanto un campo di calcio.

Così denunciava Survival International nel 2019, segnalando la minaccia della politica attuata dal neo-eletto presidente brasiliano. Più che di minaccia, si trattava e si tratta tuttora di pericolo reale.

I popoli indigeni nel mondo si trovano spesso a dover proteggere se stessi e i propri territori da politiche favoreggiatrici dell’industria agro-alimentare, delle imprese minerarie e petrolifere o del commercio di legname. Sono proprio questi popoli a mettere in atto pratiche di resistenza e lotta, esempi non solo di collaborazione e organizzazione dal basso, ma di cooperazione tra i generi, di liderança femminile e di approcci culturali e tradizionali di rispetto e convivenza con l’ambiente e il mondo naturale non-umano.

Giugno 2012: le comunità indigene brasiliane guidano un presidio contro il deterioramento dei corsi d’acqua. International Rivers – Creative Commons

Forse la distanza che ci separa dall’enorme sorgente di vita che è la Foresta Amazzonica, non ci permette di avere un’idea concreta della triste realtà odierna. Ciò non vale certamente per il popolo indigeno Guajajara, uno tra i gruppi etnici più numerosi del Brasile, secolare abitante della Foresta, del territorio Arariboia – terra indigena nello Stato brasiliano del Maranhão, situato nel nord-est del Paese.

Arariboia è stato dichiarato territorio “omologato”, cioè demarcato ufficialmente come terra indigena, essenziale per le attività produttive dei popoli indigeni, per i loro diritti riproduttivi e per la preservazione culturale, ambientale e della bio-diversità. Il processo di riconoscimento viene attivato dal FUNAI – Fundação Nacional do Índio, in accordo con il ministero della Giustizia, che ha il compito di identificare i limiti fisici dell’area. La dichiarazione dovrà essere poi ufficializzata dal presidente della Repubblica tramite homologação por Decreto. Tale processo prevede il riconoscimento del territorio come Terra indigena registrata nel registro della regione e nella Secretaria do Patrimonio da União.

La demarcazione ufficiale dovrebbe servire per proteggere l’area e limitarne lo sfruttamento incontrollato, garantendo quindi la sopravvivenza degli abitanti. Ciò non viene sempre rispettato. Legittimati dalla politica bolsonarista, allevatori, trafficanti di legname e accaparratori di terre invadono e incendiano la Foresta, sfuggendo alle regole di demarcazione e agendo nell’impunità.

L’intenzione è quella di evitare la protezione dei territori per concederli all’agro-business e all’estrazione mineraria.

Il processo non sostiene solamente un’economia di sfruttamento estremo delle risorse, ma comprende l’intento di “integrare a forza i popoli incontattati” e quelli indigeni, mettendone in pericolo la vita e la diversità culturale. Diversi e numerosi sono stati gli appelli e le proteste attuate dai nativi, alcune effettivamente arrivate a risultati molto positivi.

Nel gennaio 2019 – il gennaio rosso indigeno – dopo le decisioni del Governo Bolsonaro (tra cui quella di togliere al FUNAI il compito di demarcare le terre indigene, assegnandolo invece al ministero dell’Agricoltura, storicamente non a favore dei diritti indigeni), in Brasile e in molte città al di fuori del Paese, i popoli nativi e le organizzazioni che ne sostengono le cause hanno messo in atto una forte reazione, guidata dall’APIB – Articulação do Povos Indígenas do Brasil con la campagna: Sangue Indigeno – Nessuna goccia in più!

Le iniziative portate avanti sono esempi di resistenza e di difesa della Terra, della propria casa, dei propri diritti di esistenza e preservazione culturale. Sono fonte di insegnamenti preziosi per noi dall’altra parte del mondo. Al di là, tuttavia, dell’ammirazione e dell’idealizzazione che suscitano tali pratiche, c’è la realtà di coloro che le attuano. Una realtà spesso pericolosa, una scelta che include in sé la possibilità di sacrificare la stessa vita.

Sangue Indigena: nenhuma gota a mais!” – Protesta a Parigi (2019) guidata dall’APIB e Sonia Guajajara. Gert-Peter BRUCH – Creative Commons

Le attiviste e gli attivisti ambientalisti (e spesso indigeni) uccisi sono sempre di più: il 2019 sembra essere stato l’anno peggiore per il numero di vittime – se ne stimano 212. La mattanza continua, il Brasile si classifica al terzo posto per numero di ambientalisti uccisi, con la Colombia al primo posto e le Filippine al secondo.

Nel novembre del 2019 veniva ucciso l’attivista Paulo Paulino Guajajara, uno dei Guardiani della Foresta (di cui spesso si faceva portavoce), gruppo istituito dal popolo Guajajara con la missione di difendersi dalle invasioni dei taglialegna e dell’industria agroalimentare. La morte di Paulino – avvenuta in un’imboscata da parte di alcuni taglialegna – non è isolata: alcuni Guardiani erano già stati uccisi prima di lui, e altri sono morti successivamente.

In assenza di protezione e aiuto da parte del potere pubblico, i Guardiões pattugliano la Foresta, cercando i taglialegna e i loro accampamenti, distruggendone i macchinari per impedirgli di entrare e devastare il territorio. L’attività dei taglialegna è protetta spesso da organizzazioni criminali che contribuiscono alla deforestazione: grazie all’impegno dei Guardiani, attivi ormai dal 2012, il disboscamento – che fino al 2000 aveva intaccato circa i due terzi del territorio Arariboia – ha subito un forte arresto. Così sono riusciti a recuperare la maggior parte del territorio perduto, minacciato costantemente dall’agrobusiness, dagli incendi e dalla deforestazione impunita e legittimata dalla retorica del Governo e dalle politiche di smantellamento degli organi di protezione ambientale e dei popoli indigeni.

La Foresta Amazzonica pullula degli elementi  essenziali per la vita umana e armonica della Terra. Risorse bramate dal mercato globale e che tanto preoccupano il mondo occidentale. Il suolo dell’Amazzonia è diventato importantissimo per le monocolture di soia e per la produzione di carne di manzo, che sono infatti la causa dell’80% della deforestazione amazzonica.

Video e immagini testimoniano il deterioramento della Foresta, e fanno paura. Se il modello economico globale imponeva già pratiche sfruttatrici e distruttrici della biodiversità – con conseguenze irreversibili per il futuro – negli ultimi anni la minaccia è aumentata, costringendo i popoli indigeni a rinnovare le difese.

In un’intervista del 2019, Sônia Guajajara – attivista per i diritti dei popoli indigeni, contro la deforestazione e il land-grabbing, coordinatrice dell’APIB (Articulação dos Povos Indigenas do Brasil) – ribadiva l’importanza dell’azione ecologica e protettrice dei nativi, riconosciuta anche dall’ONU come deterrente contro i cambiamenti climatici:

nell’Amazzonia brasiliana, le comunità proteggono il 27% della Foresta; le riserve indigene forniscono 5,2 milioni di tonnellate d’acqua al giorno. Queste sono vere barriere per l’avanzamento del disboscamento e dell’avidità dell’agroalimentare brasiliano basato sulla monocoltura nemica della biodiversità dei tropici, che ha avvelenato e impoverito il nostro suolo e ha ucciso le nostre api, autorizzando senza freni l’uso dei veleni.

Le pratiche di difesa attuate dai nativi, come quelle dei Guardiões da Foresta, assumono così maggiore importanza e nello stesso tempo diventano più rischiose per chi le svolge. Le organizzazioni criminali minacciano di morte gli attivisti, i piccoli agricoltori, i leader delle comunità. Gli assassinii sono spesso annunciati e predetti dalle stesse vittime: il caso di Paulo Paulino Guajajara è esemplare. In una commovente intervista rilasciata a Survival International, il Guardiano ammetteva di essere in pericolo di morte e di aspettarsi un’imboscata. E così è stato. Paulino aveva 26 anni, un figlio e familiari preoccupati per lui.

Le ragioni che spingono i Guardiões a un continuo sacrificio – stare lontani da casa per mesi, pattugliare il territorio di notte, rischiare di essere feriti e di morire – si fondano sulla paura di vedere distrutta la propria casa e il futuro della propria comunità. Tali motivi sono ben esposti in un appello del Guardiano Guajajara Tainaky Teneteharcugino di Paulino e presente all’imboscata che ne ha causato la morte. Lui, al contrario di suo cugino, è riuscito a scappare, rimanendo ferito.

L’appello di Tainaky induce a ragionare sul peso delle imposizioni culturali e di un modello di sviluppo che si auto-dichiara universale, a cui ambire e da adottare per chiunque, a dispetto delle diversità storiche. Tainaky ha paura, per il futuro del suo popolo, dei suoi figli, dei suoi nipoti. La Foresta è casa, vita: gli animali che la abitano, i materiali che servono per la costruzione delle abitazioni, l’aria pura, l’acqua, i frutti. Gli equilibri ecologici smantellati e modificati dagli incendi e dal disboscamento sono pericolosi per la vita della Foresta e per le persone che ci vivono – da secoli – e ne conoscono le dinamiche.

I Guardiani si battono per la sopravvivenza delle loro tradizioni e della loro cultura, estremamente legata agli equilibri della Foresta. Il territorio Arariboia è distinto in nove regioni, ciascuna difesa da circa 15 Guardiani, che spesso si ritrovano insieme alle comunità per coordinare l’organizzazione. Tra i propositi c’è anche la protezione dei parenti Awà incontattati, che hanno fatto capire chiaramente di non volere alcun contatto, con nessuno, nemmeno con i Guajajara. Tainaky sottolinea l’importanza della protezione degli Awà, che potrebbero ammalarsi e morire di malattie per cui non hanno anticorpi e che sopravvivono grazie alla protezione del territorio.

I Guajajara non hanno intenzione di omologarsi ad una cultura del progresso che non gli appartiene e che sentono come imposta. Reclamano una vita pacifica, nel rispetto delle diversità. Sottolineano l’impunità degli ecocriminali e l’imprigionamento invece degli indios che cercano di ostacolarne l’azione. Non ripongono la propria fiducia in un Governo che non si preoccupa dei propri cittadini e della preservazione di un bene prezioso come la Foresta. Decidono di agire e cooperare tra loro perché non sentono nessun appoggio dal potere pubblico, che spesso ha negato loro supporto e finanziamenti per le attività, gli spostamenti, la comunicazione e la formazione delle persone per garantire maggior sicurezza.

Deposito di legname nel territorio indigeno Pirititi, Brasile. Quapan – Creative Commons

Da qualche anno anche le donne Guajajara – che hanno sempre contribuito alla causa – hanno istituito gruppi di Guardiane, con l’intento di partecipare alle azioni in maniera più incline al dialogo, particolarmente coi taglialegna, cercando di trovare accordi e punti di contatto. In particolare un gruppo di loro ha ricoperto un ruolo cruciale nella lotta alla corruzione tra gli indios e nel sensibilizzare le comunità rispetto all’importanza della Foresta.

È di vita che si parla, di diritto a un’esistenza pacifica, senza la paura di venire inghiottiti da un sistema irragionevole e di vedere cancellata la propria storia, le proprie origini, le possibilità delle generazioni future.

La paura e la sfiducia nei confronti dell’attuale Governo brasiliano sono legittimati non solamente dalle innumerevoli morti e dal visibile danneggiamento dell’Amazzonia, ma anche dai numeri: secondo l’Observatòrio do Climai finanziamenti destinati all’ambiente del 2021 sono i più bassi almeno dalla fine del secolo scorso. Ciò include la mancanza di protezione dei territori e  lo smantellamento degli enti che garantivano ai popoli indigeni supporto e possibilità di auto-determinazione.

In chiusura riportiamo una notizia, considerata storica: la richiesta alla Corte Penale Internazionale di aprire un’indagine sul presidente Bolsonaro accusato di crimini contro l’umanità e in particolare contro i popoli indigeni. La richiesta è stata portata avanti da due leader indigeni – Almir Narayamoga Suruì e Raoni Metuktire, dei popoli Paiter Suruì e Kayapò – in collaborazione con l’avvocato William Bourdon e alla sua squadra, da anni in campo nell’ambito dei diritti umani.

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