[Traduzione a cura di Luciana Buttini dall’articolo originale di pubblicato su The Conversation]
Secondo un report pubblicato dal think-tank svedese Timbro Institute, nel periodo compreso tra il 2001 e il 2018 i populisti autoritari in Europa hanno raddoppiato la loro percentuale di voti elettorali, che è passata dall’11,8% al 22,3%. A questo incremento ha poi fatto seguito un declino ma è prematuro parlare di inversione permanente e, comunque, l’ascesa stessa del populismo è un fenomeno troppo importante per essere trascurato.
Sebbene l’ideologia dei populisti politici consideri la società, sia nazionale che internazionale, divisa in due categorie contrapposte tra “il popolo” e “l’élite corrotta”, non tutti i populisti sono autoritari. Infatti, non tutti mirano a distruggere lo stato di diritto e ancor meno sostengono l’idea secondo cui, rappresentando la maggioranza, nessuna legge che tutela i diritti della minoranza debba limitarli.
In un mio contributo a un’opera che verrà pubblicata nel 2021 (The Palgrave Handbook of Comparative Economics, NdT), ho voluto indagare sul meccanismo che contribuisce all’ascesa al potere dei populisti nei diversi Paesi europei e ho trovato particolarmente interessante il caso delle ex nazioni comuniste, quali Ungheria e Polonia. Entrambe hanno votato per partiti populisti caratterizzati da una tendenza politica autoritaria e tale scelta non può essere giustificata soltanto da fattori economici.
L’insicurezza economica spinge i cittadini a votare per i partiti populisti. Nel mio studio ho osservato, infatti, come l’associazione di un alto tasso di disoccupazione con la disuguaglianza economica crei terreno fertile per i partiti populisti. Da soli non riescono a farsi strada ma i movimenti populisti si sviluppano spesso laddove gli elevati tassi di disoccupazione e disparità si fondono in uno dei seguenti modi: con un livello relativamente basso di spesa pubblica che non compensa l’impatto sociale dei primi due fenomeni oppure con un basso reddito medio pro-capite che amplifica l’effetto di queste condizioni di povertà socioeconomiche. Sono quattro i Paesi dell’Europa meridionale che si adattano bene a questo modello: la Grecia con il partito Syriza, l’Italia con la Lega Nord di destra e il Movimento Cinque Stelle di sinistra, il Portogallo con il partito di sinistra radicale Bloco de Esquerda e la Spagna con Vox di estrema destra e Podemos di sinistra.
Negli ultimi dieci anni, questi partiti hanno vissuto periodi di relativo successo e molti di loro sono riusciti a insediarsi al Governo. Tuttavia, nessuno di loro ha compiuto manovre significative che minassero la democrazia stessa, come attaccare il sistema giudiziario oppure tentare di modificare le Costituzioni, cosa che è invece accaduta in Ungheria e in Polonia.
Un percorso diverso
In questi due Paesi, l’ondata populista ha prodotto risultati più consistenti con derive chiaramente più autoritarie. Così sembra che il percorso verso l’ascesa al potere dei partiti populisti abbia avuto un andamento diverso rispetto a quello intrapreso nell’Europa meridionale. Entrambe le nazioni rientrano in qualche modo nello schema economico sopracitato in quanto il reddito medio risulta inferiore alla media europea. Eppure le loro disuguaglianze economiche, così come la spesa pubblica, si collocano nella fascia media.
Ed è qui che il passato comunista di queste nazioni rappresenta, sotto molti aspetti, un fattore a favore dell’ascesa del partito. I populisti cercano l’unità e pretendono di avere il monopolio della rappresentanza morale del “popolo”. Nelle società costituite da un buon numero di solide organizzazioni autonome che offrono alle persone molti modi per organizzarsi intorno ai loro interessi e alle loro idee il processo di trasformazione in nuovi movimenti di massa risulta difficile. All’interno di queste società pluraliste, caratterizzate da un fitto tessuto sociale, è molto più complesso per i populisti ottenere un sostegno diffuso. In passato, le società comuniste erano invece organizzate da un unico partito a livello nazionale e questa tradizione sembra addirsi molto bene ai progetti populisti. Le nazioni che stanno ancora emergendo da un retaggio comunista infatti costituiscono terreno fertile per la diffusione del fenomeno.
Oltre al passato comunista, c’è un altro elemento che contribuisce all’ascesa del populismo: il rapido cambiamento culturale tipico dell’epoca attuale. Tuttavia, quest’ultimo aspetto può risultare opinabile per coloro che sostengono i valori conservatori, particolarmente nei Paesi cattolici dell’Europa centrale e orientale. Ed è qui che riveste un ruolo importante una tradizione molto più antica del comunismo, quella secondo cui gli elettori potrebbero sostenere i politici che promettono di ristabilire i valori tradizionali. Ad esempio, in Ungheria il presidente Viktor Orbán fa un uso-abuso della religione per dividere la popolazione, in particolare tramite l’antisemitismo. In Polonia si assiste, invece, a un rapporto politico bidirezionale. Il Partito populista Diritto e Giustizia, guidato da Jarosław Kaczyński, governa in coalizione con il movimento sindacale Solidarność, e gode del sostegno dell’impero mediatico del prete cattolico Tadeusz Rydzyk, che è in grado di fare pressioni sul Governo su questioni importanti per la Chiesa come l’aborto.
La tradizione cattolica da sola non basta a generare sostegno per il populismo autoritario e questo è l’ultimo dei problemi per Stati come l’Irlanda o Malta. Ma la natura del cattolicesimo varia da Paese a Paese. Ad esempio, se da un lato le società maltesi e polacche si caratterizzano per la presenza di valori simili di conservatorismo sociale, dall’altro presentano opinioni divergenti sull’assetto politico.
Nella seconda metà del ventesimo secolo, a seguito del dramma causato dal secondo conflitto mondiale e delle sofferenze inflitte dai regimi totalitari, il cattolicesimo occidentale ha intrapreso un processo di trasformazione, dichiarandosi sempre più a favore della democrazia. Tuttavia in quei Paesi che vivevano sotto un regime di tipo sovietico, il cattolicesimo ha avuto meno possibilità di evolversi in quel senso.
Forse la parte più interessante di questa storia è che, nonostante le Chiese locali si siano opposte al regime comunista, quest’ultimo ha comunque avuto un impatto su di esse. Rispetto a quelle nei Paesi fuori dal blocco sovietico, queste Chiese sono rimaste fortemente gerarchiche e quest’aspetto ha contribuito a coltivare la sfiducia nel mondo esterno.
Non esiste dunque un unico modo di spiegare l’ascesa del populismo autoritario in Europa in quanto uno stesso risultato può avere più di una causa. Ho l’impressione che, se da una parte i fattori economici ci aiutano a spiegare l’aumento del sostegno ai partiti populisti nell’Europa meridionale, dall’altra non sono sufficienti a chiarire l’ascesa del populismo in Ungheria e in Polonia. Quando si pensa al perché di tutto questo, bisogna tener presente che non sono soltanto gli interessi a contare ma anche le idee. Laddove il cattolicesimo ha incrociato il comunismo, sembra aver creato dunque un elemento ibrido che ha agevolato l’ascesa al potere dei populisti.