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Gente di Dublino, voci di migranti che sfidano i Regolamenti UE

Mohamed ha gli occhi grandi di chi ha visto tante cose, e probabilmente il nome di metà dei ragazzi siriani. Come molti mercanti viaggiatori, di cognome fa Hariri, che in arabo significa “seta”. Vive con la sensazione di essere in ritardo. Dieci anni fa i suoi genitori e fratelli più piccoli hanno preso un aereo che dal Libano li ha portati in Germania. Lui è rimasto indietro: la sua richiesta di visto è stata considerata separatamente dal resto della famiglia, e rifiutata.

Solo nel 2019 è riuscito a entrare in Grecia dalla Turchia: “Ho dovuto prendere una delle cosiddette ‘barche della morte’ e attraversare il Mar Egeo; alla fine siamo arrivati sull’isola di Samos. Sono rimasto al campo per 10 mesi, prima di ottenere il permesso di spostarmi solo all’interno della Grecia“.

Il campo di Samos è stato definito accuratamente come peggiore di quello di Lesbo; è famoso per il suo sovraffollamento e le condizioni di vita insalubri, oltre che gli incendi e le calamità naturali dell’ultimo anno. “Non è un posto dignitoso per vivere, ma non c’è nessun trucco. Bisogna aspettare“, conclude Mohamed.

La data per il colloquio per decidere se ho diritto all’asilo o meno mi è stata fissata dopo due anni“, quasi nel 2022. “Significava che per rivedere la mia famiglia o fare qualsiasi altra cosa dovevo ancora aspettare… Così sono partito per il continente, poi ho lasciato la Grecia illegalmente e ho percorso la rotta dei Balcani.

Mohamed sull’isola di Samos, Grecia (foto dell’autrice)

Varie fonti concordano: uno dei grandi fallimenti della politica UE di questo secolo in materia d’asilo è  il suo Regolamento 604/2013 – meglio conosciuto come Dublino III. Di fatto, fa ricadere la responsabilità di esaminare le richieste degli aspiranti rifugiati soprattutto sugli Stati situati alle frontiere esterne dell’Unione Europea – come Italia e Grecia. Viene giudicato inutile quanto divisivo, soprattutto perchè riguarda i trasferimenti forzati di persone che, invece, vogliono scegliere dove vivere.

Bruxelles prometteva di smantellarlo, ma ha finito col modificarlo solo formalmente nell’ambito del recente patto sull’immigrazione, attraverso l’irrigidimento degli obblighi previsti dal testo e l’eliminazione delle sue eccezioni.

I cortocircuiti di questo sistema hanno un volto: sono coloro che, come Mohamed, si sottraggono alla regola di assegnazione di uno Stato competente all’esame della propria domanda di protezione internazionale.

Pur essendo entrati in Europa attraversando una specifica frontiera, hanno in seguito deciso di continuare con la propria traiettoria; chi per fattori linguistici, chi per raggiungere dei famigliari, chi per ambizione personale o semplicemente per sfuggire all’esperienza della disoccupazione e dell’essere senzatetto in un altro Paese europeo.

Dopo aver attraversato il continente e la Manica, Nima Moradi (iraniano, 26 anni) è stato trasferito nella Caserma Napier a Folkestone, una ex struttura militare, ora luogo di detenzione per circa 400 persone venute a cercare rifugio nel Regno Unito. A Samos lavorava e aveva un tetto, ha costruito relazioni durature, ma si è reso conto di non avere una vita “normale”.

Attivista, sogna di continuare a studiare Scienze Politiche in Inghilterra, dove racconta di essersi sentito di nuovo umano dopo tanto tempo: “A Londra continuavo a dirmi: Nima sei un rifugiato, perchè la gente è gentile con te? Non ha senso. Sei qualcuno che non gli piace. Per tre anni in Grecia ho creduto di non avere diritti. L’ingresso di locali e ristoranti era proibito a persone come me. Pensavo che essere un rifugiato significasse non poter parlare con gli estranei per chiedere indicazioni per strada, e che gli estranei certamente non vorranno parlare con te.

L’unica cosa che ricorda il giorno del suo arrivo è la sensazione di “spingere porte, sempre più forte. Ma erano tutte chiuse a chiave. Proprio come il mio futuro.” Una volta segnalata la sua presenza alle autorità, racconta: “Mi hanno portato da qualche parte. ‘Da qualche parte’ è l’unica espressione che posso usare. Non ho idea di dove fosse. Ero in mezzo al nulla. Non avevo né wifi, né telefono. Non sapevo cosa mi avrebbero fatto.” Con amara consapevolezza, aggiunge: “Dopo tutto, potevano fare quello che volevano. Nessuno l’avrebbe mai saputo. Siamo solo persone senza volto calpestate da chi ha dei documenti.

Ora la sua vita è in un limbo, costellata di dubbi circa le sue future chances di rimanere nel Paese: “Continuo a dire a me stesso: Nima dovresti essere felice. Nima hai una possibilità. Nima l’Inghilterra è multiculturale, non ti contraddistinguerà il tuo essere un rifugiato. Ma no. Nima sei in un campo. Nima devi ricominciare tutto da capo. Nima non sai se ce la farai. Nima potresti non ottenere l’asilo.

Nima, mentre fa volontariato come insegnante di inglese per altri richiedenti asilo (foto dalla pagina Facebook dell’associazione Samos Volunteers)

Marion Dumontet è giurista, specializzata in diritto umanitario; oggi fa la volontaria in una clinica legale a Calais, Francia dopo aver collaborato con organizzazioni di supporto ai migranti in Bosnia e in Grecia. Per caso, ha incontrato Nima in più punti del suo percorso. Negli ultimi anni si è occupata di centinaia di persone come lui, in difficoltà per via degli spostamenti interni all’Europa: “Il Regolamento Dublino mette i profughi in una situazione di continuo vagabondaggio. Quando la gente arriva in Francia, magari dopo anni di integrazione in un altro Paese che ha finito per respingere la domanda d’asilo, pensa di poter ripartire da zero.”

Ma anche se è stato un altro membro dell’Unione Europea a rifiutare il migrante, Dublino III continua a essere applicato. Si crea allora una serie di lenti rimbalzi tra Staticol rischio che la persona venga rispedita nel Paese da cui è entrata e, da lì, nel Paese d’origine“, prosegue Marion; oppure che sparisca nell’illegalità per evitare di ritornare alla casella di partenza.

Anche i migranti hanno aspirazioni, e inevitabilmente si scontrano con la rigidità di un meccanismo che non ne tiene conto: le loro testimonianze mostrano che, privati di considerazione in questo senso, scelgono di ripagare il sistema Dublino con la stessa moneta.

Le storie di coloro che di fronte all’effetto-imbuto causato dal Regolamento se ne sono andati dal primo Paese di arrivo, tentando di beffarlo, hanno spesso dell’incredibile.

Nel 2015 Samuel è arrivato a Parigi a piedi dall’Ungheria, mangiando foglie quando non poteva rischiare di avvicinarsi troppo ai centri urbani per fare rifornimento di cibo. Ride, quando gli si chiede del viaggio: “Bon voyage! Gradevole, non c’è che dire.

Attraversare soltanto i boschi era una tattica” spiega, orgoglioso del proprio ingegno, “per non farmi prendere le impronte digitali“.

Marion ritiene che ci siano prassi illegittime da parte delle autorità incaricate di registrare i migranti in arrivo: “Quando le persone forniscono le proprie impronte digitali in un Paese, possono essere inserite in due file diversi all’interno del sistema Eurodac“, il database che raccoglie le schede di chi richiede asilo politico o entra irregolarmente nell’UE. “Le impronte prelevate in relazione a un attraversamento irregolare di una frontiera sono conservate per 18 mesi all’interno del sistema”, dopodichè la responsabilità di accogliere o meno la persona in questione è del Paese europeo in cui si trova – indipendentemente da come ci è entrato.

Diversamente, le impronte di chi, al momento del rilevamento, dichiara di voler richiedere asilo “rimangono nella base dati per 10 anni. Il problema è che” questa distinzione “non è sempre ben fatta: molte persone che non hanno fatto domanda di asilo vengono comunque registrate in quest’ultima categoria, aumentando il periodo di tempo nel quale possono rientrare nella procedura di Dublino” e venire trasferite altrove.

Europarlamentari protestano contro il passaggio di proposte controverse riguardanti Eurodac (immagine da Flickr in Licenza CC / greensefa)

Nel caso di Samuel, ci sono voluti più di tre anni di ricorsi prima che lo Stato francese gli riconoscesse il permesso di soggiorno e oggi, dopo cinque, la naturalizzazione: “Una volta avevo il morale a terra, davvero non me la sentivo più di continuare con la procedura. Volevo andare a vivere su Marte, ma poi ho pensato che anche per questa soluzione ci sarebbe voluto un sacco di tempo”.

“Stavo ancora aspettando il risultato del mio appello ma mi ero già ben sistemato in Francia”. Samuel frequentava le lezioni all’Università della Sorbona attraverso un programma di inserimento per richiedenti asilo, si era fatto amici lì e attraverso le sue tante attività di volontariato; era ospite di una coppia di attivisti. Non sa che cosa avrebbe fatto se non avesse ottenuto i documenti: “Non avrei voluto trasferirmi da qui”. Nel suo caso, l’obiettivo era la sicurezza personale, non aveva parenti in Europa né una destinazione precisa: “Quando sono partito dal Pakistan non sapevo dove sarei andato. Mentre ero nel bel mezzo del mio viaggio ho pensato che sarei andato in un posto che mi protegge e mi tratta come i cittadini di quel Paese.”

Bruxelles e gli Stati membri dell’Unione non hanno mai nascosto la propria volontà di scoraggiare questo libero atto di volontà, per il quale i migranti manifestano di preferire un posto piuttosto che un altro. Non tutti però vogliono fare asylum shopping nel luogo che ci aspettiamo: basti pensare che, nel 2019, ben 23.719 persone hanno lasciato la Germania dopo avervi richiesto asilo, rendendola il secondo Paese dopo l’Italia per richieste di rinvio ricevute nell’ambito della procedura Dublino.

Jama vuole a tutti i costi vivere in Italia: è uno studente di giurisprudenza che prima di scappare dalla Somalia frequentava l’Università di Mogadiscio, secondo anno, corso specializzato sul diritto italiano. Il suo sogno è iscriversi alla Sapienza. In Grecia, ha portato con sé il libretto degli esami sostenuti: tutti trenta. Gli dicono che è entrato in Europa dalla porta sbagliata, ma i trafficanti a cui si è affidato non gli hanno dato scelta – e comunque, ammette, dalla Libia non sarebbe voluto passare. Adesso che è stato riconosciuto come rifugiato, gli è consentito recarsi in Italia solo per soggiorni di tre mesi: prima della pandemia stava preparando la richiesta di ammissione a Roma, nella speranza di ottenere un permesso speciale per motivi di studio.

Marion Dumontet, di fronte alla clinica legale presso cui lavorava in Grecia (foto dell’autrice)

Un altro problema evidenziato da Marion riguarda il tempo che gli Stati membri hanno per effettivamente rispedire i migranti al mittentein Franciase la persona non si reca ad anche solo uno dei suoi appuntamenti con le autorità, viene considerata ‘in fuga’, il che estende il periodo da 6 a 18 mesi per effettuare il trasferimento. Il collocamento in questa procedura per ‘fuggitivi’ spesso è abusivo”: ciò regala più tempo alle autorità per arrestare i cosiddetti “dublinati” e organizzarne lo spostamento, “lasciando i migranti in una situazione di irregolarità sempre più lunga. Si tratta di una doppia sanzione, perchè automaticamente a chi è considerato in fuga viene sospeso il diritto all’accoglienza” e si ritrova potenzialmente a vivere di stenti.

Dopo due anni trascorsi in Belgio da suo zio, ad Abdul Qarmot (insegnante palestinese di 28 anni) non è rimasto che arrendersi all’idea di tornare a in Grecia. La cosa che più lo infastidisce è che ci abbiano messo così tanto a decidere: “Se sanno già che non ti vogliono, perchè non te lo dicono subito?

C’è, insomma, una doppia valenza attribuita al tempo nelle questioni riguardanti la migrazione, in particolare nell’ambito del Regolamento Dublino: ai richiedenti asilo si esige per esempio di presentare tutti i documenti entro tre mesi per candidarsi al ricongiungimento famigliare; d’altro canto, si promulgano leggi “per un’immigrazione controllata“, a prolungare il periodo dato alle autorità per sbarazzarsi di loro. Più in generale per ricorsi, rinnovi dei permessi, ovunque in Europa le persone interessate hanno scadenze procedurali sempre più rapide e tassative. Devono però attendere anni per una risposta – che, in molti casi, è negativa e azzera tutto il lavoro fatto nel frattempo a livello di integrazione sociale e ricostruzione personale.

Dare voci alle loro ragioni ci aiuta a comprendere, se non a immedesimarci nelle loro scelte.

Per quanto riguarda il restare nel primo Paese europeo in cui si mette piede” secondo Mohamed “è sbagliato che, anche se non ci vuoi restare, tu venga costretto a farlo; è sbagliato per te e per questi Paesi che devono sforzarsi di trattenerti anche se non ci sono le condizioni.” Racconta dell’impotenza che ha sentito durante i mesi trascorsi in Grecia, così vicino a ritrovare la sua famiglia e contemporaneamente bloccato su un’isoletta alle porte d’Europa: “Pensi che qualunque cosa tu faccia lì sarà un fallimento, perchè non è il tuo obiettivo, non sei venuto qui per questo e non ci troverai mai te stesso.

Mohamed è riuscito ad arrivare a Stoccarda dalla sua famiglia a marzo, pochi giorni prima della chiusura delle frontiere a causa del COVID: per una volta, ha fatto giusto in tempo. Pochi giorni fa, una volontaria che Nima ha conosciuto in Grecia si è offerta di accoglierlo in casa sua a Londra. Le autorità dei due Paesi hanno accettato che i ragazzi vivano con loro, mentre la richiesta d’asilo fa il proprio corso; stanno ancora aspettando quel colloquio.

Nima ed Amber, che lo accoglie, sono recentemente stati intervistati dalla BBC (foto di Nima Moradi)

[Per motivi di protezione, è stato modificato il nome di alcune delle testimonianze raccolte]

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