Grand Ethiopian Renaissance Dam, meglio nota come GERD o Grande Diga Africana: questo è il nome dell’ultima faraonica opera sul Nilo che sta riaccendendo antiche e nuove contese per il controllo delle preziose acque del Continente.
Il progetto costerà dai 4 ai 6,4 miliardi di dollari e produrrà circa 15 miliardi di chilowattora di elettricità, più di tre volte la capacità della diga di Hoover in Colorado. L’opera rientra negli ambiziosi piani di sviluppo dell’Etiopia, un Paese in cui più della metà della popolazione non ha accesso all’energia elettrica. Il vasto serbatoio richiederà dai 5 ai 15 anni per riempirsi.
Circa l’85% del flusso del Nilo Azzurro proviene dalla nazione etiope, i cui funzionari sperano che la diga, ora completata per più di tre quarti, raggiungerà la piena capacità di generazione di energia nel 2023. Il Paese considera il progetto essenziale per lo sviluppo nazionale, tanto che ormai è diventato il simbolo di emancipazione, modernità e della rivalsa da qualsiasi retaggio di dipendenza coloniale o da potenze straniere.
A luglio scorso, Addis Abeba ha dichiarato di aver raggiunto l’obiettivo del primo anno di riempimento del bacino della mega-diga, che può contenere 74 miliardi di metri cubi di acqua. Non a caso, alcuni esperti evidenziano che l’infrastruttura consentirà all’Etiopia di diventare uno dei principali produttori di energia elettrica dell’Africa orientale.
Entusiasmo, richiamo al nazionalismo e grandi aspettative da parte del Governo etiope sul progetto, che sta invece suscitando indignazione e preoccupazione negli Stati egiziano e sudanese bagnati dal corso del Nilo Azzurro. In particolare l’Egitto, che dipende quasi totalmente dal fiume per il fabbisogno idrico, vede la diga come una minaccia alla sua stessa esistenza.
Storicamente, Il Cairo ha considerato come un proprio “tesoro naturale” il Nilo. Un trattato del 1929 (e uno successivo del 1959) conferiva all’Egitto e al Sudan i diritti su quasi tutto il corso del fiume. Il documento dell’era coloniale dava poteri di veto agli egiziani su qualsiasi progetto dei Paesi a monte che avrebbe influenzato la sua quota di acque. Nessuno dei due accordi ha tenuto conto del fabbisogno idrico degli altri Stati rivieraschi, inclusa l’Etiopia, il cui Blue Nile fornisce gran parte delle acque del fiume. Addis Abeba ha quindi prontamente fatto sapere che non si sarebbe in alcun modo sentita vincolata dal trattato ormai vecchio di decenni. Ha iniziato, dunque, a costruire la sua diga nel marzo 2011, senza consultare l’Egitto.
Una delle principali preoccupazioni del Paese nordafricano è che se il flusso d’acqua diminuisce, a farne le spese possa essere il lago Nasser, importante per la pesca. Inoltre, la disponibilità idrica proveniente dal fiume, vitale per le attività quotidiane della popolazione, può ridursi in modo significativo con la diga attiva e influire negativamente sui trasporti egiziani via Nilo, nel caso il livello dell’acqua si abbassi troppo. A rischio c’è anche il sostentamento degli agricoltori che dipendono dal fiume per l’irrigazione.
Il Sudan ha assunto una posizione meno contrastante sul progetto. Questo perché potrebbe beneficiare della diga per controllare le alluvioni nel suo territorio. Inondazioni senza precedenti hanno causato quest’anno la morte di oltre 100 sudanesi, coinvolgendone nel disastro altri 875.000. Interi quartieri residenziali sono stati distrutti, mentre le forniture di energia elettrica e idrica sono state interrotte quando il fiume Nilo ha registrato una piena mai vista dal Paese.
Alcuni esperti hanno affermato che se la Grand Ethiopian Renaissance Dam avesse funzionato in modo completo, l’effetto alluvioni sul Sudan sarebbe stato meno impattante. La nazione vanta otto dighe sul Nilo, ma sono di piccola entità e non riescono ad agire efficacemente in caso di inondanzioni di grande portata. Per questo, l’imponente infrastruttura etiope potrebbe tornare utile. Analisti sudanesi sottolineano anche i vantaggi in termini di produzione di elettricità e di irrigazione dei campi con un flusso controllato tramite la diga, oltre all’opportunità di acquistare energia pulita dalla stessa Etiopia.
A garanzia di tutti, però, dovrebbe esserci un accordo sulla sicurezza dell’opera e sui parametri di riempimento e rilascio dell’acqua nella diga che anche Khartum pretende. Questo proprio perché, intorno alla costruzione della grande infrastruttura sul Nilo Azzurro, si intrecciano i destini di tre Stati chiave della regione, che stanno cercando in tutti i modi di difendere (o al limite migliorare) lo status quo, già fragile tra eventi climatici catastrofici, endemica povertà, tensioni sociali interne.
Il progetto GERD investe una serie di questioni che vanno ben oltre la sola regolamentazione dell’opera ingegneristica. L’impatto geopolitico, economico, diplomatico e, non ultimo, ambientale sarà di enorme portata.
Da più parti in questi mesi si è addirittura invocato, con preoccupazione, il rischio di una guerra dell’acqua tra i tre protagonisti. Cosa sta accadendo nelle relazioni fra Etiopia, Egitto, Sudan?
L’attualità del 5 novembre scorso racconta di un ennesimo tentativo di negoziato fallito, dopo anni di incontri per cercare una cornice legale condivisa nella quale inquadrare il funzionamento della GERD.
Nel 2015 Egitto, Etiopia e Sudan hanno firmato a Khartum una dichiarazione di principi con lo scopo di avviare un’intesa sulla costruzione e il funzionamento della Grande Diga Africana. Ad oggi, però, non c’è ancora una visione condivisa. Lo stallo riguarda questioni di non poco conto, come, per esempio, i tempi di riempimento del bacino idrico e il flusso di acqua che deve essere liberato a beneficio dei Paesi a valle.
L’Egitto chiede un periodo di sette anni che consenta di rilasciare 40 miliardi di metri cubi d’acqua ogni anno, mentre l’Etiopia ha proposto tre anni per non ritardare i suoi piani di sviluppo. In più, Egitto e Sudan sollecitano regole certe e condivise su come gestire e far funzionare la diga in sicurezza e in vista di scenari climatici incerti e mutevoli, come il sopravvento di una grave siccità.
Trovare un significato unanime di siccità non è affatto semplice, considerando che non esiste una definizione standard per la misurazione di questo fenomeno. Il punto, però, è essenziale se abbinato anche agli scenari del cambiamento climatico che stanno minacciando le stesse acque del Nilo. I tre Paesi hanno concordato che quando il flusso dell’acqua del fiume nella diga si abbassa oltre i 35-40 metri cubi all’anno, questa è da considerarsi siccità.
In tal caso, l’Egitto e il Sudan vogliono che l’Etiopia rilasci una parte dell’acqua immagazzinata nel bacino idrico della diga. Ma Addis Abeba preferisce avere la flessibilità di decidere quanta risorsa liberare senza fissare prima i parametri, perché maggiore quantità di acqua nella diga equivale a più potenza in termini di elettricità prodotta. Il Paese vuole anche ridurre il rischio di portare il bacino idrico a livelli troppo bassi.
Recentemente, le tensioni fra i Paesi protagonisti di questo complesso negoziato si sono intensificate, minacciando un’escalation pericolosa. L’Egitto ha anche intensificato il suo appello alla comunità internazionale affinché venga coinvolta. Gli Stati Uniti hanno già avvertito che non saranno più disponibili a erogare aiuti allo sviluppo per l’Etiopia se il conflitto non sarà risolto e non sarà raggiunto un accordo. Washington si è schierata al fianco dell’Egitto e addirittura Trump, in una delle sue ultime uscite prima di perdere le elezioni presidenziali del 3 novembre scorso, ha lanciato quasi un richiamo alla guerra. Nelle sue parole si è fatto riferimento alla possibilità che gli egiziani “facciano saltare in aria la diga“.
A complicare lo scenario, inoltre, è giunta la grave crisi interna etiope, ormai praticamente sfociata in una guerra civile. Nel Paese sono in corso ostilità tra l’esercito federale del primo ministro Abiy Ahmed e le forze regionali guidate dal Fronte di liberazione popolare del Tigray (TPLF). Il TPLF controllava il Governo etiope prima dell’ascesa al potere di Abiy nel 2018 e ora è al comando di una delle nove regioni dell’Etiopia.
Il conflitto è scoppiato da quando, il 4 novembre scorso, il premier etiope ha apertamente accusato i governatori regionali di mettere a rischio la Costituzione “con attività illegali e violente all’interno dello Stato del Tigray” e con attacchi all’esercito nazionale. Il rischio grave è che la tensione infiammi la violenza interetnica e la frustrazione della popolazione povera colpita anche dalla crisi pandemica.
Non solo, la guerra dell’Etiopia potrebbe estendersi alla vicina Eritrea e al Sudan. La leadership del TPLF ha accusato le forze eritree di incursioni transfrontaliere. Migliaia di etiopi sono già fuggiti nello Stato sudanese, che si sta preparando a una crisi umanitaria. Il confitto, quindi, potrebbe essere un motivo in più per interrompere definitivamente i colloqui sulla diga.
L’opera rischia seriamente di destabilizzare la regione, piuttosto che veicolarne lo sviluppo. A rendere complicato e pessimistico lo scenario c’è anche un altro aspetto: quale impatto ambientale avrà il progetto, considerando i cambiamenti climatici nel territorio del Nilo?
In Egitto, dove la scarsità d’acqua è già un problema, gli agricoltori stanno abbandonando colture ad alta intensità idrica come il riso. Anche senza la GERD, molti dei canali di irrigazione del delta sono ormai a secco. Una moltitudine di fattori tra cui il cambiamento climatico, la scarsa manutenzione, la cattiva gestione dell’acqua hanno disidratato un Paese già assetato.
L’ONU afferma che le temperature in alcune parti dell’Egitto dovrebbero aumentare tra 1,8 e 3,6 gradi Celsius nel prossimo secolo, richiedendo più acqua per coltivare i raccolti con l’aumento dell’evaporazione nel Nilo e nei suoi canali.
Ulteriori carenze idriche e il loro effetto sull’agricoltura potrebbero avere conseguenze disastrose per i 100 milioni di persone in Egitto, una popolazione che cresce di 2 milioni all’anno. “Se l’acqua diventasse ancora meno, non saremmo in grado di piantare nulla e di dare da mangiare al bestiame”, questo è l’allarme di una parte dei cittadini egiziani.
Due anni fa, l’Egitto ha ridotto di oltre la metà l’area utilizzata per la produzione di riso, da 1,76 milioni di acri a 750.000, nel tentativo di risparmiare tre miliardi di metri cubi d’acqua. A quel tempo, il ministro dell’irrigazione del Paese ha sottolineato che le misure non erano collegate alle preoccupazioni per la diga in Etiopia. Ma ora, mentre la GERD si riempie, i contadini temono che le coltivazioni con le quali sopravvivano siano minacciate. I funzionari del Governo limitano tra l’altro l’approviggionamento idrico degli agricoltori a quattro giorni, intervallati da almeno due settimane di stop, secondo un razionamento considerato il più rigoroso degli ultimi anni.
Con la piena attività della diga, quindi, il rischio di una accelerazione della siccità già innescata dai cambiamenti climatici è più che realistica per la regione del Nilo. Gli studi parlano chiaro al riguardo: è probabile che il bacino superiore del fiume, che scorre in Etiopia occidentale, Sud Sudan e Uganda, subisca una forte diminuzione della portata e in tempi piuttosto brevi. E poiché quasi tutta la pioggia che alimenta il fiume cade nella regione superiore del Nilo, parti del bacino inferiore, principalmente in Sudan e in Egitto, dipendono fortemente dall’acqua che scorre da lì.
Non solo, la popolazione nell’alto bacino è destinata a raddoppiare tra oggi e il 2040, dagli attuali 200 milioni a 400 milioni di persone. Allo stesso tempo, entro la fine del 21° secolo, scrivono i ricercatori, la frequenza degli anni caldi e secchi può raddoppiare, anche se il riscaldamento è limitato a una media globale di 2° C.
Secondo gli esperti, quindi, il cambiamento climatico renderà il flusso del fiume più variabile del 50%, passando dalla siccità di un anno alle inondazioni il successivo e rendendo più difficile il funzionamento della stessa diga. Durante il periodo di compleamento dell’opera fissato a 15 anni, i flussi dal Nilo all’Egitto potrebbero diminuire del 25%.
Anche il pericolo di erosione dell’ambiente intorno al Nilo Azzurro è alto. L’imponente progetto della GERD, infatti, ha riportato alla luce importanti studi sul rapporto tra diga e territorio naturale. Gli ecosistemi a valle di un fiume dipendono non solo dall’acqua, ma anche dai sedimenti, entrambi frenati dalle grandi dighe. Man mano che i materiali solidi si accumulano in un bacino artificiale, la terra diventa meno fertile e i letti dei fiumi possono diventare più profondi o addirittura erodersi.
Emilio Moran, professore di geografia e ambiente presso la Michigan State University negli Stati Uniti, ha descritto una perdita di sedimenti dal 30 al 40% a causa delle grandi dighe: “I fiumi trasportano sedimenti che alimentano i pesci, nutrono l’intera vegetazione lungo il fiume. Quindi, quando interrompi il flusso di sedimenti liberamente lungo i torrenti, hai un fiume morto.”
Un meccanismo rischioso potrebbe, quindi, innescarsi: la diga funzionerà poco a causa dei cambiamenti climatici e, nello stesso tempo, favorirà maggiori disagi ambientali.
International Rivers ha evidenziato che i progetti idroelettrici africani, in generale, ignorano i rischi posti dal cambiamento climatico, come l’aumento delle temperature, le più frequenti siccità e gli eventi meteorologici estremi. L’affidabilità della produzione energetica è però fortemente compromessa da tali fenomeni. La siccità del 2014-2016 nell’Africa orientale e meridionale ha provocato un calo dei volumi d’acqua contenuti in molte grandi dighe, portando a una riduzione dell’elettricità generata.
Molte centrali idroelettriche non sono riuscite a produrre secondo le loro capacità e alcune in Tanzania sono state chiuse a causa di livelli di acqua inadeguati. Il bacino dello Zambesi, per esempio, è stato particolarmente colpito. La quantità di acqua utilizzabile nella diga di Kariba, tra Zambia e Zimbabwe, è scesa al 14%. I due Stati coinvolti hanno registrato una bassa produzione di energia, al punto che in Zambia sono andati persi molti posti di lavoro del settore.
Come spesso accade dinanzi a progetti imponenti di dighe nel Continente africano, anche per la Grand Ethiopian Renaissance Dam l’impressione è che gli effetti possano essere più disastrosi che di sviluppo. Sia a livello di stabilità della regione che per quanto riguarda la salvaguardia dell’ambiente.