I centri di detenzione libici, nei quali si trovano attualmente migliaia di migranti intercettati in mare dalla Guardia Costiera del Paese, sono tristemente noti.
Nonostante i continui appelli delle organizzazioni internazionali sulle condizioni disumane applicate al loro interno, dalla tratta delle persone alle violenze fisiche esercitate costantemente su donne e uomini lì rinchiusi, queste strutture non solo continuano a esistere ma sono legalmente sostenute dalla complicità finanziaria dei Paesi europei, Italia compresa.
Per comprendere l’attuale situazione dei migranti in Libia, occorre tornare indietro almeno di 3 anni.
Verso la metà del 2017 si è verificato un drastico calo del numero di migranti che attraversavano l’Europa dalla Libia. Questa diminuzione ha coinciso con una serie di fattori, tra i quali il Memorandum d’intesa firmato da Italia e Libia nel febbraio di quell’anno.
Con tale accordo, l’Italia ha definito la sua strategia contro l’immigrazione clandestina, coinvolgendo sia il Governo di Intesa Nazionale della Libia (guidato da al-Sarraj e riconosciuto a livello internazionale, ma non rappresentativo dell’intero territorio libico, il cui controllo è rivendicato anche dalle milizie del generale Haftar), sia diverse tribù e autorità locali.
Lo scopo era offrire aiuti in cambio di un controllo dei migranti e dei traffici illeciti. Sono stati effettuati investimenti per rafforzare la capacità della Guardia Costiera libica e per dotarla di imbarcazioni veloci e delle apparecchiature di sorveglianza necessarie per operare lungo la costa occidentale. Obiettivo finale: fermare gli scafisti e con loro il flusso di persone in cerca di fortuna verso l’Europa, riportandole indietro.
Come si legge nel Memorandum, i due Stati hanno intrapreso la strada della cooperazione per:
individuare soluzioni urgenti alla questione dei migranti clandestini che attraversano la Libia per recarsi in Europa via mare, attraverso la predisposizione dei campi di accoglienza temporanei in Libia, sotto l’esclusivo controllo del Ministero dell’Interno libico, in attesa del rimpatrio o del rientro volontario nei paesi di origine, lavorando al tempo stesso affinché i Paesi di origine accettino i propri cittadini ovvero sottoscrivendo con questi paesi accordi in merito.
Proprio i campi di accoglienza temporanei menzionati si sono trasformati negli scandalosi “lager”, dove i migranti sono venduti come schiavi e maltrattati in vario modo.
Inoltre, nel giugno 2017, il Governo italiano ha introdotto un codice di condotta per le organizzazioni non governative impegnate nel salvataggio delle persone sui barconi nel Mediterraneo. Ciò ha portato la maggior parte delle ONG attive in queste acque a dover interrompere le proprie operazioni, con il risultato che un numero crescente di migranti è stato intercettato dalle forze libiche.
È così che si sono moltiplicate le persone riportate indietro e tenute in detenzione nel Paese nordafricano, con l’accusa di clandestinità. I leader delle milizie, inoltre, avvertendo un’imminente fine del loro status di potere a causa della guerra in corso in Libia, hanno iniziato a fiutare l’affare della tratta degli esseri umani all’interno dei centri, alimentando ancora di più le violazioni dei diritti umani.
Il Memorandum con la Libia, pur tra polemiche politiche e segnalazioni incessanti di violazioni dei diritti nei centri, è stato già rinnovato con un vago – e finora inconcludente – impegno del Governo italiano a rivedere il tema dei soprusi.
La situazione attuale resta critica. Rifugiati e migranti in Libia continuano a essere detenuti arbitrariamente. Sebbene 3 centri di detenzione siano stati chiusi nel 2019, a giugno 2020, secondo l’UNHCR Libia, c’erano ancora circa 2.500 rifugiati e migranti nei centri ufficiali. Un elenco del 2018 contava almeno 27 strutture attive, tra quelle sotto il controllo della Direzione per la lotta alla migrazione illegale, divisione del Ministero degli Interni libico, e i centri non noti, nei quali non hanno accesso neanche le agenzie ONU.
Le condizioni di vita al loro interno sono ormai conosciute: grave sovraffollamento, carenza di cibo, igiene inesistente, mancanza di accesso alle cure mediche, nonché segnalazioni di abusi, lavoro forzato e sparizioni misteriose di persone.
Solitamente, quando un’imbarcazione viene intercettata, i migranti a bordo vengono sbarcati in uno dei punti sulla costa, quindi le compagnie di autobus private convenzionate con il Dipartimento del Ministero degli Interni li trasportano nei centri di detenzione.
Nella maggior parte dei casi, i migranti vengono inviati nelle strutture situate nello stesso territorio delle milizie che li hanno intercettati. I trafficanti, i contrabbandieri, gli stessi funzionari militari attendono con ansia gli arrivi. Essi, infatti, comprano i migranti come fossero merci, soprattutto quando credono che saranno in grado di realizzare un profitto attraverso l’estorsione o la vendita dei richiedenti asilo ad altri centri o contrabbandieri.
A questo procedimento standard se ne sta aggiungendo un altro. Secondo quanto pubblicato da un’inchiesta di New Humanitarian, più della metà delle 6.200 persone intercettate in mare e rimpatriate in Libia quest’anno non si trovano nei centri ufficiali. Dove sono? Probabilmente sono stati trasferiti in strutture “non ufficiali” gestite da milizie affiliate al Ministero degli Interni libico. Un nuovo allarme è, quindi, scattato. Si tratterebbe, infatti, di non specificati edifici di raccolta dati, nei quali probabilmente vengono smistate le persone da destinare al traffico di essere umani. Nessuno può accedervi.
Le testimonianze su cosa accade realmente ai migranti intercettati (in mare ma anche lungo le rotte via terra) e portati in Libia sono eloquenti per capire cosa sta succedendo – ancora adesso – nella nazione nordafricana.
Yasser (nome di fantasia) è un sudanese fuggito a 33 anni dalle violenze del suo villaggio sui monti Nuba. Imbarcatosi per l’Europa in Libia, il suo gommone è stato intercettato dalla Guardia Costiera e portato indietro. Da qui, è iniziato il suo calvario per la sopravvivenza.
Con un pullman è stato portato in un centro. Lui e gli altri uomini sono stati subito vittime di estorsione. È stato ordinato loro di pagare un riscatto di 3.000 dinari libici per la libertà. Ai detenuti è stato detto di chiamare le famiglie e chiedere i soldi. Coloro che non potevano pagare restavano al centro, picchiati e sottoposti a torture, fino a quando non venivano venduti per una somma inferiore a un’altra milizia, che avrebbe cercato di estorcerli per un riscatto più piccolo pur di guadagnare.
Questa è la sorte che è toccata anche a Yasser, che dopo mesi si è ritrovato in un’altra prigione, “trattato come un animale”, secondo le sue parole. È riuscito a scappare solo mesi dopo, a causa di un bombardamento che ha colpito il centro. Ora vive in una struttura con altri richiedenti asilo sudanesi nella città costiera libica di Zawiya. Il suo destino resta appeso a un filo.
Sono tante le storie simili a quella di Yasser. Un uomo eritreo ha raccontato con queste parole la sua permanenza in un centro di detenzione dal 2017 al 2019:
Sono stato trattenuto in un centro di detenzione in Libia. Così tante persone sono malate, la maggior parte ha la tubercolosi. Non sono disponibili cure mediche. Abbiamo visto persone morire ogni giorno. Almeno due o tre ogni giorno.
[Le milizie] hanno preso alcune persone, almeno 50 e hanno detto che le avrebbero portate via per il trattamento medico… ma non sono mai tornate. Non sappiamo se sono vive o no. Le persone non hanno accesso alla luce solare o all’aria fresca. Io, non ho visto l’aria aperta per due anni. Le mie sorelle sono ancora lì. Mi fa male dentro.
Un diciannovenne richiedente asilo proventiente da un Paese dell’Africa occidentale, è stato salvato da un peschereccio spagnolo insieme a 11 persone. Era il 2018, lui era partito dalla Libia e successivamente sbarcato in Spagna. Così ha raccontato:
Sono stato tenuto prigioniero più volte da quando ho lasciato il mio Paese, sono stato rinchiuso in una stanza, senza cibo né acqua per giorni; nessuno ti dice perché sei detenuto….ci hanno fermato nel deserto e la loro intenzione era di ucciderci ma puoi morire nel deserto, puoi morire in Libia, puoi morire nel mare.
Drammatica è anche la storia di Abdi (nome di fantasia) somalo, fuggito dal suo Paese a causa delle minacce dei terroristi di Al-Shabaab solo per aver fatto commenti contro i jihadisti in un bar. Quando il gommone che viaggiava verso l’Europa ha iniziato a riempirsi d’acqua, è stato salvato dalla Guardia Costiera libica.
Il salvataggio si è quindi rivelato una condanna a morte. È iniziata la sofferenza dell’uomo, passato nelle mani di un contrabbandiere all’altro, estorto con raccapricciante violenza.
Abdi è rimasto chiuso in un edificio libico per due mesi, picchiato e per due volte finito sotto shock, finché sua madre non è riuscita a trasferire denaro a un intermediario. È stato venduto a un altro contrabbandiere, ha lavorato in una fattoria in condizioni di schiavitù, ha visto morire i suoi compagni di fame e di malattia, ha raccolto escrementi, ha pagato ulteriori somme di denaro per poi finire in un centro di detenzione a Tajoura.
Qui è diventato, nuovamente, uno schiavo, costretto a lavare le armi con il gasolio, per le milizie che combattevano nella guerra che intanto divampava nel Paese. Solo grazie al caos dei bombardamenti è riuscito a scappare e a lasciare la Libia.
Vite senza più dignità continuano a perire in Libia, nella piena compiacenza delle potenze del mondo. Nawal Soufi, giovane attivista marocchina che vive in Sicilia, ha cercato di far capire con domande provocatorie il perché i migranti non vogliono essere riportati in Libia:
Sai cosa significa mangiare un pezzo di pane in 24 ore e vedere un pezzo di formaggino come fosse oro? Ti è mai capitato di essere messo all’asta e venduto come uno schiavo? Ti è mai capitato di essere picchiato a sangue perchè chiedi l’intervento di un medico? Ti è mai capitato d’essere fucilato per colpa di uno sguardo di troppo?
Per troppi migranti la risposta è affermativa e racconta storie di assurde violazioni della dignità umana in Libia.