Lo Yemen che conosciamo oggi è quello tristemente noto come la più grave crisi umanitaria al mondo, ormai incancrenita dopo lo scoppio della guerra civile nel 2015.
Le fazioni in conflitto, la coalizione guidata dai sauditi a sostegno del presidente Abd Rabu Mansur Hadi (deposto da un colpo di Stato nel 2015 ma riconosciuto dalla comunità internazionale) e il gruppo armato Houti combattono a colpi di continue violazioni dei diritti umani, le cui vittime sono spesso bambini e donne.
Il Paese è diviso e frammentato a livello governativo. Si può affermare che esistono attualmente 3 centri di potere: le milizie Houti a Sanaa, il debole Governo di Hadi a Aden e i separatisti della parte meridionale della nazione, riuniti nel gruppo secessionista Consiglio di Transizione del Sud.
Dall’inizio della guerra si contano almeno 100.000 vittime, delle quali, secondo l’ultimo rapporto di Human Rights Watch, oltre 17.500 civili morti o feriti nei bombardamenti. Le donne e i bambini colpiti a morte dai raid aerei rappresentano almeno il 25% della popolazione uccisa.
A confermare questo dato, c’è la cronaca di guerra degli ultimi giorni, che racconta di altre vittime innocenti dei raid. Mercoledì 15 luglio, 25 civili, soprattutto donne e bambini, sono rimasti uccisi nel governatorato di Al-Jawf mentre partecipavano a una festa, forse un matrimonio, presi di mira da attacchi aerei sauditi.
Ad oggi, circa 24 milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria, pari all’80% di tutta la popolazione e 10 milioni sono a rischio carestia, con oltre 3 milioni di sfollati.
Triste è lo scenario dell’infanzia yemenita. Oltre 12 milioni di bambini rischiano di non sopravvivere senza programmi assistenziali per i beni di prima necessità e almeno 2 milioni di età inferiore ai 5 anni sono malnutriti.
In questa cornice si è inserita anche l’epidemia di coronavirus. L’OMS parla di più di 1.500 contagiati e oltre 400 morti. Ma le cifre potrebbero essere diverse, viste le difficoltà nel reperire i dati.
La sanità era già al collasso prima dell’emergenza Covid-19, con mancanza di medicinali basilari e almeno metà dei 3.500 presidi medici fuori uso a causa dei combattimenti e dell’estrema insicurezza del territorio. Riconoscere malati di coronavirus è quasi impossibile in una nazione dove si muore ancora di colera, malaria e febbre gialla, con sintomi anche simili al Covid-19, senza strumentazioni diagnostiche adeguate. E dove l’acqua, fondamentale per l’igienie personale e per questo prevenzione contro la pandemia, è scarsa e spesso veicolo essa stessa di infezioni.
Avere un quadro aggiornato sulla situazione nel Paese non è facile, considerando che lo Yemen è pressoché impenetrabile per i giornalisti stranieri e quelli interni sono spesso sottoposti a detenzione arbitraria e violenze, con accuse di spionaggio e terrorismo.
Ancora più difficile è raccontare storie di vita oltre la guerra, attraverso le quali rendere protagonisti uomini e donne che lottano ogni giorno per sopravvivere e costruire una società più giusta.
Voci Globali ha intervistato la giornalista Laura Silvia Battaglia, massima esperta di Yemen nel nostro Paese e la cui vita si divide tra Italia e Sanaa. Nota ai media internazionali per i suoi lavori di approfondimento su zone di conflitto soprattutto in Medio Oriente, oggi è una delle rare voci che possono raccontare lo Yemen a 360°.
Ha prodotto, girato e distribuito dieci documentari: l’ultimo, “Yemen nonostante la guerra“, è una visione preziosa della vita quotidiana degli yemeniti che non si arrendono per costruire la pace nel loro Paese, dilaniato da conflitto e povertà.
Lei nei suoi interventi ha detto spesso che le immagini mostrate dalla stampa riguardo allo Yemen sono semplificatrici, “di comodo”, e nascondono dettagli importanti. Quali sono questi dettagli?
Non basta e, soprattutto, ormai non serve più concentrarci su bambini spellati, malnutriti e moribondi se si vuole puntare attenzione su questa guerra. Mostrare questa infanzia violata, dopo sei anni in cui lo facciamo già, non muove nessuno a sensibilità, soprattutto i Governi. Basti pensare che quest’anno gli aiuti umanitari allo Yemen sono stati addirittura dimezzati.
Il motivo per cui sottolineo questo è perché la risoluzione del conflitto è politica prima di tutto. Se non avremo una risoluzione politica non ci sarà la pace. Cosa è possibile fare?
Prima cosa: riuscire a spiegare con proprietà le varie sfaccettature del conflitto, perché è importante la comprensione delle motivazioni e delle dinamiche della guerra. Il racconto giornalistico di testa e non di pancia è onesto e necessario.
Secondo, perché, affinché la risoluzione della guerra sia possibile, è importante individuare se in Yemen esistono ancora dei rappresentanti della società civile che possono traghettare il Paese e la politica ad una nuova fase di ricostruzione, perché il Paese ha bisogno di trovare una strada autonoma, lontana dagli appetiti delle potenze regionali. Nella narrazione del conflitto yemenita, restituire piena dignità ai suoi cittadini e alla sua popolazione è oggi più che mai necessario per pianificarne un futuro sostenibile.
La guerra in Yemen ha colpito drammaticamente la già fragile economia del Paese. E ha aggravato la crisi umanitaria, moltiplicando le violazioni dei diritti umani. Innanzitutto di bambini e adolescenti, trasformati in soldati, spesso anche vittime di violenze e di certi mercati illegali, come per esempio la filiera di spacciatori in Arabia Saudita. Quale entità hanno assunto questi fenomeni?
Nei Paesi poveri e in guerra l’infanzia ha solo un valore economico. I bambini – numerosi peraltro – valgono come forza lavoro (per il lecito o l’illecito) e come forza offensiva, militare.
Questo fenomeno, presente anche prima, tra i figli delle classi più basse o nelle aree più depresse o già in guerra (i governatorati del Nord come Hajja o Saada) è aumentato a dismisura in questi ultimi sei anni, al punto tale che, per fare un paio di esempi, una delle più feroci milizie della città di Taiz è guidata da un adolescente di 17 anni e che gli ospedali militari delle milizie Houti, come il Kuwait hospital di Sanaa, sono pieni di feriti di età compresa tra i 14 e i 20 anni.
Poi ci sono le donne, che già quando sono molto piccole vengono private delle basilari libertà. È tristemente noto il fenomeno delle spose bambine yemenite. Come molti report hanno portato a galla, spesso le famiglie, spinte dall’estrema povertà, vendono le figlie per farle sposare in cambio di soldi per sopravvivere. Una pratica che è sempre più un bisogno nella cornice del conflitto?
Purtroppo sì, sempre nelle aree più rurali e depresse come il governatorato di Hajja oppure, nelle città, nelle classi più basse, tra le persone più povere e meno istruite. Uno dei problemi più gravi non è solo, nuovamente, dopo la rivoluzione del 2011, l’aumento dei matrimoni combinati – perché le famiglie vogliono essere certe a chi stanno per “cedere” le proprie figlie – ma è anche e nuovamente un aumento dei matrimoni precoci.
Bisogna tenere presente che, con il matrimonio di una figlia, la famiglia della ragazza mediamente ottiene mille e più dollari dalla famiglia dello sposo. In una economia di guerra, dove i costi sanitari sono elevatissimi, e aumenta vertiginosamente il prezzo del gasolio, questa cifra può garantire a un nucleo familiare almeno un anno di sostenibilità.
Secondo i rapporti Human Rights Watch e Amnesty International, nello Yemen in guerra le donne hanno visto peggiorare la violenza e lo stigma sociale contro di loro. Eppure esse stanno diventando sempre più importanti nella società yemenita. Su loro pesa la responsabilità dell’approvvigionamento del cibo e del fabbisogno familiare ora che molta popolazione maschile è impegnata, o travolta suo malgrado, dalla guerra. Ma a quale prezzo svolgono questo ruolo?
Come in tutte le guerre, il prezzo è il super-lavoro e i rischi di sicurezza, inerenti la mobilità in aree infestate da milizie.
Come è cambiata dunque la figura della donna yemenita dal periodo pre-conflitto, a quello attuale?
In realtà, l’altra faccia della medaglia è un aumento di donne in ruoli di responsabilità soprattutto nel settore sanitario. Lo Yemen è pieno di medici, ostetriche, capo-sala, infermiere e dirigenti donne. Di presidenti di ONG locali. Di insegnanti.
La guerra e la morte o l’impegno degli uomini in battaglia dà loro la possibilità di lavorare di più, e anche in ruoli di maggiore responsabilità. Allo stesso tempo, in un Paese infestato dalle milizie religiose, le donne sono dei fantasmi nella società e tutte le donne attiviste, politiche, artiste, musiciste, o che non rispondono al cliché tradizionale di moglie/madre di potenziali difensori della patria e che si pongono come attori di cambiamento sociale in settori più critici, sono particolarmente avversate e rischiano di diventare target sia dei predicatori che delle milizie stesse.
Per esempio, è successo nel 2017 nella città di Taiz in cui è stata uccisa l’attivista Amat al-Aleem al-Asbahi, che raccoglieva evidenze per l’attribuzione ai vari attori del conflitto di crimini contro i diritti umani, dopo una serie di minacce ricevute da più parti.
L’ONU spinge su un ruolo sempre più di spicco per le donne nel processo di pace e di emancipazione sociale e politica del Paese. Nel 2015, per esempio, è stato creato lo Yemeni Women’s Pact for Peace and Security, con un comitato consultivo di 60 donne. Ma in che modo, e se, le donne riescono a incidere sui cambiamenti politici e sociali nel Paese?
Attualmente, e rispetto al 2015, le donne yemenite riescono a incidere nella politica e nella società soprattutto dall’esterno. Basti pensare al ruolo del già premio Nobel per la pace Tawakkol Karman.
La Karman in questi anni si è molto spesa per il suo Paese, puntando il dito contro l’invasione saudita, nonostante la sua tribù e il partito dei Fratelli musulmani yemeniti, l’Islah, di cui lei fa parte, sia alleato con il regno dei Saud.
Oggi residente in Turchia, Karman ha anche fondato un canale televisivo on line, Belqis tv, che diffonde notizie e video dall’interno del Paese.
Per citare altre donne notabili che vivono all’estero, la giornalista Afrah Nasser, oggi rifugiata in Svezia, è attivamente impegnata con Human Rights Watch nella ricostruzione degli avvenimenti e delle responsabilità delle parti attualmente in guerra.
Ci fa ancora esempi di donne che stanno producendo, in positivo, cambiamenti lenti ma possibili?
Tra le donne ancora sul territorio, ne cito alcune a mio avviso, straordinarie. Con le loro scelte e i loro comportamenti stanno già influenzandone altre, molto giovani e potrebbero rappresentare un volano per la fase della ricostruzione.
Dalia al-Moqaddam è una laureata in ingegneria che oggi lavora a Sana’a in una officina auto del marchio Suzuki; Huda Ramzi e Abeer Abdulkarim sono le attrici non protagoniste del film yemenita-fenomeno “Dieci giorni prima del matrimonio”; Dhekra Annuzaili e Najiba al-Najjar sono due dottoresse che stanno facendo l’inimmaginabile per i pazienti affetti da Covid-19; senza contare il ruolo epocale avuto da Sumaya Ahmed al-Hussam, che è riuscita a sedare una faida lunga undici anni tra due tribù della provincia Hajja e per questo motivo ha anche ricevuto il premio “Queen of social responsability program” dalla corona saudita nel 2017.
Ultima nota sul futuro del Paese: la pace è lontana e complessa, avanzano i casi di Covid-19, l’economia è in ginocchio … intanto però crescono giovani generazioni, cosa aspettarsi?
Vorrei rispondere con speranza ma la mia esperienza in Paesi con molti anni di conflitto alle spalle (ex Jugoslavia, Libano, Palestina, Iraq, Afghanistan) mi obbliga a usare la testa e non la pancia.
La risposta è che generazioni cresciute in guerra, educate all’odio, alla guerra e all’uso delle armi, e che non vedono davanti a loro un futuro, se non in guerra, non potranno superare con facilità un trauma simile. Significa che per almeno un paio di generazioni avremo instabilità e potenziali violenze fratricide e, se non queste, almeno diffidenza e separatezza tra il Nord e il Sud del Paese.
Prima si mette fine a questo conflitto, maggiori saranno le speranze di non condannare queste generazioni a proiettare nel futuro i danni compiuti oggi dai loro padri.