Milioni di persone sono confinate da settimane nelle proprie case per ridurre al minimo il rischio di contagio da Covid-19.
L’evolversi della pandemia ha comportato l’adozione di misure tese al distanziamento sociale che, a loro volta, hanno determinato nuove forme di connessione tra gli individui. I contatti si sono concretati, infatti, prevalentemente nell’ambito dello spazio digitale. Social media e app sono diventati strumenti indispensabili per mantenere vive relazioni familiari e amicali. La Rete ha reso altresì possibile lavorare, studiare, svolgere una serie di attività anche solidali, nel pieno rispetto delle regole fissate dagli Stati. Soprattutto, ha permesso la divulgazione di informazioni di vitale rilevanza per la tutela della salute attraverso campagne social nonché video-comunicati di istituzioni e associazioni del terzo settore.
In poche parole, il web si è dimostrato un bene tanto essenziale quanto di pubblica utilità.
Non a caso, l’Alto Commissariato ONU per i diritti umani, di concerto con la Commissione Interamericana e il Rappresentante OSCE per la libertà dei media, già a metà marzo, avevano invitato gli Stati a garantire l’utilizzo della Rete ai propri cittadini, rimuovendo eventuali restrizioni. “In un momento di emergenza – si legge nella nota – accedere alle informazioni è di fondamentale importanza”. Pertanto, “bloccare Internet non trova giustificazione nelle questioni di ordine pubblico o di sicurezza nazionale“.
Nonostante le raccomandazioni della comunità internazionale, India, Myanmar e Bangladesh hanno scelto di mantenere la chiusura del web in specifiche aree dei loro rispettivi territori.
Affrontare il coronavirus senza accesso a Internet sta risultando un esercizio piuttosto complicato tanto per le persone comuni che per il personale medico sanitario. Le informazioni, infatti, vengono trasmesse tramite carta stampata, radio, sms. E questi metodi non garantiscono la diffusione su ampia scala di tutte quelle conoscenze, che necessariamente devono essere assorbite e messe in atto per proteggere sé stessi e gli altri.
“Siamo già tanto spaventati e preoccupati dal coronavirus”, racconta una donna indiana alla CNN, “l’accesso limitato a Internet non fa altro che aumentare il panico generale”. Persino “le pagine governative, dove sono riportate le precauzioni da seguire, risultano inaccessibili”.
In India, circa 8 milioni di persone residenti nel Kashmir sono isolate dal mondo digitale. Dal 5 agosto 2019 vige l’Internet-shutdown imposto da Nuova Delhi in concomitanza alla revoca dello status di autonomia speciale di cui godeva la Regione. Il provvedimento, ad avviso del Governo indiano, si era reso necessario per garantire la sicurezza nazionale, impedendo in tal modo la propagazione di false notizie e il verificarsi di episodi di violenza.
La Corte Costituzionale, il 10 gennaio scorso, ha però dichiarato illegittima la chiusura, spiegando che “la libertà di parola ed espressione, sancita dall’art. 19 della Costituzione, include anche il diritto a Internet”. Dal canto suo il Governo, ha ignorato in buona parte la sentenza, sbloccando soltanto i servizi 2G sulle utenze mobili per l’accesso a siti approvati.
Nel contesto di una pandemia come quella da Covid-19 è facile immaginare quali siano le implicazioni derivanti da una connessione così lenta. La difficoltà di accesso a fonti rapide e affidabili genera ampi spazi di “impreparazione”, che in questo momento nessun Paese può permettersi essendo in gioco la vita di milioni di persone.
Medici e ricercatori del Kashmir sono stati (e sono tuttora) privati dell’opportunità di conoscere in maniera tempestiva i dati scientifici relativi al virus, il suo andamento globale, gli eventuali risultati raggiunti in ordine alle cure dell’infezione, i protocolli sanitari, le linee-guida elaborate dall’OMS.
This is so frustrating.. Trying to download the guidelines for intensive care management as proposed by docs in England.. 24 Mbs and one hour.. Still not able to do so… @MirzaWaheed @naseerganai @islahmufti @Samaanlateef @DrKaloo
— Iqbal Saleem (@DrIqbalSaleemM1) March 19, 2020
Gli operatori dell’informazione fanno del loro meglio per supportare la popolazione locale. La conduttrice radiofonica Mehak Zubair, intervistata dalla statunitense Public Radio International, rivela: “il mio programma [di intrattenimento] è adesso dedicato solo al coronavirus. Data la scarsa velocità della Rete, dobbiamo essere certi di fornire quante più notizie possibili” a chi ci ascolta.
Le organizzazioni a tutela dei diritti umani hanno da subito chiesto a Nuova Delhi l’immediata revoca delle restrizioni. Nessun risultato positivo è stato però raggiunto. “Le risposte al coronavirus – insiste Amnesty International India – non possono essere basate sugli abusi dei diritti umani, sulla censura, sulla mancanza di trasparenza“.
La situazione è di gran lunga peggiore in Myanmar, dove oltre 1 milione di persone in 9 municipalità situate negli Stati del Rakhine e del Chin, dal 3 febbraio scorso, subiscono il secondo blocco totale di Internet.
Il Paese, fra l’altro, non ha accolto l’esortazione del Segretario Generale ONU, António Guterres, il quale chiedeva “di silenziare le armi” ovunque fosse in corso un conflitto armato proprio allo scopo di concentrarsi sull’emergenza sanitaria. Nessun accordo per il cessate-il-fuoco è stato quindi raggiunto tra il Tatmadaw e i ribelli.
Anzi, “è verosimile che l’esercito di Arkan si serva di Internet per coordinare gli attacchi contro le forze governative”, ha dichiarato il ministro degli Esteri birmano, precisando che “la sospensione del servizio è imprescindibile e non costituisce un ostacolo alla lotta contro il Covid-19″. Il Governo di Naypyidaw sostiene che lo shutdown non vada a inficiare in alcun modo neppure il lavoro delle Nazioni Unite, delle organizzazioni presenti sul territorio con la popolazione locale dal momento che per svolgere le attività di comunicazione possono ricorrere ai servizi mobili e agli sms.
Non la pensa allo stesso modo Human Rights Watch. L’arresto generale di Internet, per l’ONG, viola le norme in materia di diritti umani considerato che è contrario ai principi di necessità e proporzionalità.
Il Myanmar, scrive Brian Adams – Direttore di HRW Asia – “dovrebbe dare priorità alla risposta contro il Covid-19, rimuovendo ogni intralcio alle cure sanitarie”, altrimenti “condannerà i suoi cittadini a morti prevenibili”.
Si muovono nella stessa direzione le affermazioni di Mark Farmaner – direttore di Burma Campaign UK – il quale evidenzia: “l’Internet shutdown è stato architettato per coprire le violazioni dei diritti umani“. Adesso, “più persone andranno incontro alla morte perché non saranno in grado di accedere alle informazioni salvavita“. Molti non sanno neppure quali siano i sintomi del coronavirus. Pertanto, potrebbero essere del tutto ignare di aver contratto l’infezione, finendo con il contribuire in modo del tutto inconsapevole a contagiare altri.
A preoccupare, in particolare, è la condizione del Rakhine. “Una vera e propria bomba a orologeria“, secondo Laura Haigh – ricercatrice di Amnesty International – considerato l’alto numero di sfollati interni frutto dell’annoso conflitto e “le centinaia di migliaia di Rohingya rinchiusi in campi che sono, in realtà, carceri a cielo aperto“.
Il destino dei profughi Rohingya non è migliore in Bangladesh.
Nei campi di Teknaf e Ukhiya a Cox’s Bazar, Internet è inaccessibile da settembre 2019 a seguito di una direttiva della Commissione di regolamentazione delle telecomunicazioni, giustificata sulla base di esigenze di sicurezza.
La situazione in queste strutture di accoglienza era già assai disperata prima del Covid-19.
Sovraffollamento, mancanza di acqua potabile, di servizi igienici e sanitari, purtroppo è la normalità in contesti di questo genere. Tutti elementi che però possono anche contribuire a propagare il coronavirus. “Le varie agenzie internazionali – asserisce Athena Rayburn di Save the Children – forniscono cibo e qualche presidio medico. Ma non siamo affatto pronti a gestire un eventuale focolaio“.
E l’arresto della Rete sta minando fortemente la capacità degli operatori umanitari di dare informazioni e di tracciare i contatti ai fini del contenimento della trasmissione dell’infezione.
L’attivista Mohammed Arfaat scrive su The New Humanitarian: “ho fatto due video in lingua Rohingya per spiegare l’importanza di lavarsi le mani e mantenere la distanza sociale“, tuttavia “senza Internet non è possibile farli girare”. Al contrario delle fake news, che dilagano nei campi.
A tal proposito, Daniel Coyle – coordinatore tecnico dell’IOM (International Organization for Migration) – riferisce a Frontline di quanto sia difficile guadagnarsi la fiducia dei Rohingya. “Continuano – sostiene – a circolare orribili dicerie. Compresa quella secondo cui gli operatori sanitari uccideranno chiunque abbia il virus“. Anche in questo caso, a nulla finora sono servite le ripetute richieste dell’UNHCR al Governo di Dacca.
È evidente che i tre Stati asiatici, dietro presunte ragioni di sicurezza, hanno di fatto preferito ignorare gli appelli internazionali per meri interessi politici. Stanno così dimostrando una netta noncuranza rispetto ai potenziali effetti negativi che tali decisioni avranno sulla salute delle loro popolazioni e sulla gestione stessa dell’emergenza sanitaria. Senza considerare – come denunciato da più parti – che l’Internet-shutdown si sta traducendo in una serie di violazioni dei diritti umani. Oltre alla vita e alla salute, a risultare pregiudicati potrebbero essere altresì il diritto all’informazione, la libertà di espressione e di associazione.