Liberi. Vogliamo essere liberi. Voglio essere libera. Certo che lo voglio. Mi sento in gabbia. Voglio uscire, voglio partire. Voglio tornare a casa. A casa, in un angolo d’Africa. Lì, dove mi aspetta quella mia capanna con il tetto in paglia (strano, vero?).
Com’è dura capire che no, non possiamo muoverci, non possiamo decidere della nostra vita, meno che mai partire. Com’è dura fare i conti con la limitazione dei propri diritti. Chi osa? Come osa? Com’è dura sentirsi in carcere, e sottomettersi a leggi, disposizioni, decisioni non accettate ma imposte. È dura, sì. Per me lo è.
Ma di gente libera là fuori ce n’è tanta, io ne ho conosciuti tanti.
Ho conosciuto donne libere di lavorare come muli durante il giorno (portando pesi sulla schiena e sulla testa) e di aprire le gambe appena calava la sera. Occorre denaro per sopravvivere. “Anche pochi spiccioli, pochi centesimi per noi possono fare la differenza”.
Ho conosciuto donne libere di dar via i loro figli, femmine o maschi dipende da come sarebbero stati utilizzati, in cambio di un po’ di denaro. Quanto sarebbe durato quel “po’ di denaro”? Una settimana, due? Dipende. Dipende da quanti altri figli c’erano da accudire, quante bocche da sfamare, quanti altri da accontentare.
Ho conosciuto donne libere di coltivare uno sguardo perso nel vuoto, uno sguardo cattivo, uno sguardo orripilato, uno sguardo malato.
E anche donne libere di mentire, “oh sì, sono qui perché me lo sono meritato”. Negando che per quel posto di lavoro avevano dovuto prostituirsi e “tenersi pronte” ogni volta che quel lui avrebbe chiamato. Ma questa libertà, credetemi, la praticano anche gli uomini, dando via un po’ meno il corpo, un po’ più mesi di stipendio.
Ho conosciuto bambini liberi di guardare nel mio piatto fino a che non avessi finito di mangiare per prenderne cosa restava o fino a che non avessi deciso di allungare la mano e darne via un pezzo, di quel cibo.
Ho conosciuto bambini liberi di far da staffette di affari loschi rimediandone qualche moneta o un po’ di cibo.
Ho conosciuto bambini e bambine liberi di appoggiarsi ai vetri di un locale à la page nella speranza che prima o poi sarei uscita e, forse, li avrei guardati negli occhi.
Ho conosciuto bambine libere di accudire i fratelli più piccoli mentre i genitori stavano pescando, zappando, vendendo per mercati, combattendo l’AIDS…
Ho conosciuto persone libere di respirare la puzza dei propri escrementi (rilasciati in secchi o anche in bustine di plastica) perché nella baracca dove vivono non ci sono bagni e fuori, di notte, uno slam non è ben frequentato.
Ho conosciuto persone libere di vivere, mangiare, morire tra i rifiuti. Rifiuti spesso generati e spediti in loco dalla nostra opulenta e avida società. Altro posto per loro non c’era.
Ho conosciuto persone libere di morire senza un perché o senza un come. Senza una diagnosi. Troppo costoso l’ospedale. E per lo stesso motivo ho conosciuto persone libere di acquistare medicine improbabili, inutili, dannosi, nei mercati locali. Spesso fake, spesso inservibili. Ma costano poco, costano quel poco che può permettersi coloro per i quali un medico e una farmacia sono un lusso.
Ho conosciuto uomini, donne, bambini liberi di accettare la “carità” di ONG e organizzazioni internazionali, in campi rifugiati da cui, molto probabilmente, non andranno più via.
Ho conosciuto uomini liberi di tentare la sorte. Per deserto o per mare. Privi di passaporto o con un viatico in tasca sì, ma inutile. Privo di visto, privo di valore.
Ho conosciuto uomini liberi di guardarmi con disprezzo, con sospetto o con ironia. Io, donna, occidentale, bianca. Con tanti diritti, tanti privilegi e poche necessità. Poche necessità che non possano essere soddisfatte, ovviamente.
Ho conosciuto uomini liberi di non considerarmi per quel che ero, cosa facevo, che storia avessi da condividere. Quello che importava era cosa portassi e significassi per loro. E loro erano liberi di chiedere e accettare.
Ne ho conosciute di libertà. Potrei dirmi fortunata di esserne testimone.
Ma a noi quale libertà manca in questo periodo? Questo periodo in cui ci viene chiesto di restare in casa per contrastare la diffusione di un virus letale e la cui durata pare dipendere da noi.
Quello della giostra della vita? Quello dei caroselli, delle risate, delle bevute? Se è questo, mancano anche a me. Mi mancano tanto. Quello che non mi manca è tutto il resto. Quello che ho visto mancare ad altri. Ad altri che rimarranno senza nome. Anche quando noi avremo ripreso possesso delle nostre irrinunciabili libertà. Anche quando noi continueremo a di-soc-cupparci delle libertà degli altri. Di quelle vergognose libertà.
[Tutte le foto sono di Antonella Sinopoli]