In Siria si combatte senza tregua ormai da oltre otto anni.
L’entità dell’emergenza umanitaria così come le implicazioni geopolitiche ed economiche del conflitto sono ben note. Meno noto è invece il disastro ambientale che la guerra sta provocando, non soltanto all’interno dei confini nazionali ma altresì nei Paesi limitrofi – Giordania e Libano in primis – dove il flusso dei rifugiati continua ad essere enorme.
Va sottolineato che gli ecosistemi siriani non godevano di buona salute neanche prima dell’inizio della crisi.
La cattiva gestione delle fonti idriche, l’assenza di valide politiche ambientali e la mancanza di norme volte a regolamentare l’industria, soprattutto nei settori petrolchimico, farmaceutico e biologico, avevano causato il forte degrado delle risorse naturali e della biodiversità.
Nel report finale della delegazione UE in Siria, redatto nel 2009, veniva appunto rilevato come il Paese fosse abbastanza lontano dal rispettare “gli standard qualitativi regionali e internazionali sulla tutela dell’ambiente”, pur avendo aderito ai principali trattati internazionali in materia.
L’ambiente naturale siriano, secondo il documento, presentava seri problemi in termini di inquinamento atmosferico, idrico e del suolo.
Va da sé che la guerra abbia “soltanto” peggiorato la situazione, trasformando quelle criticità in una vera e propria catastrofe ambientale.
Ad oggi, non esistono dati ufficiali in grado di chiarire la reale portata dei danni ecologici generati dal conflitto. Ciò, da un lato, è dovuto al proseguimento dei combattimenti sul campo che rendono difficile se non impossibile qualsivoglia attività di rilevamento e valutazione in diverse aree del Paese; dall’altro, alla crisi umanitaria che, richiedendo il più immediato intervento della comunità internazionale, ha messo in ombra l’ambiente e le sue problematiche.
Dalle poche informazioni a disposizione, contenute per lo più in report di organismi internazionali e ONG, si ricava che, nel caso della Siria, l'”ecodisastro bellico” sia da ricondurre ad una serie di fattori specifici.
Anzitutto, va considerata la tipologia di armi utilizzate dalle parti in lotta. Il conflitto siriano è stato, sin dall’inizio, caratterizzato da un uso massiccio di ordigni esplosivi fortemente impattanti sull’ambiente in ragione della loro composizione. L’ONG britannica AOAV (Action on armed violence), nel report “The Reverberating effects of explosive weapon use in Syria”, spiega, infatti, che tali armamenti avrebbero determinato l’inquinamento di suolo e acque sotterranee (falde e sorgenti) provocando grossi rischi anche per la biodiversità.
In secondo luogo, la scelta dei belligeranti di colpire infrastrutture vitali e siti industriali potrebbe aver comportato, secondo l’ONG olandese PAX, il rilascio di sostanze tossiche e il deposito di materiali pericolosi – soprattutto nelle zone vicino a Damasco, Aleppo, Homs e Hama – pregiudicando la qualità dell’aria, dell’acqua, del terreno e del sottosuolo.
In effetti, le esperienze del passato mostrano come la distruzione di stabilimenti industriali abbia originato l’avvelenamento dell’ambiente circostante. È stato così, ad esempio, in Kosovo dopo il raid aereo della NATO sul complesso petrolchimico di Pančevo. In Libano a seguito dell’attacco israeliano, del 2006, contro fabbriche alimentari, tessili e di detersivi. E in Iraq dopo il danneggiamento di alcuni impianti di munizioni e pesticidi.
Come se ciò non bastasse, i combattimenti condotti nelle aree urbane del Paese, rileva la Banca Mondiale, hanno provocato una mastodontica quantità di detriti che, con ogni probabilità, hanno contaminato le risorse idriche.
Non solo, la trasformazione di molti centri urbani in veri e propri campi di battaglia ha costretto un elevato numero di siriani a spostarsi verso altri luoghi. La conseguenza di questi spostamenti è stata la deforestazione di alcune aree protette situate intorno a Qusab e Abu Qabis.
“Oltre un milione di individui ha lasciato la zona di conflitto attorno ad Aleppo alla volta della costa e della foresta mediterranea”, dichiara Aroub Almasri – ecologa della Commissione Nazionale di Biotecnologia di Damasco – in un’intervista al New Scientist. “Queste persone – prosegue – devono soddisfare i loro bisogni primari di cibo, elettricità e carburante per riscaldarsi, cucinare e pompare acqua. Non hanno quindi altra scelta” che abbattere alberi anche se si tratta “di specie a rischio come il Quercus cerris, una quercia originaria della regione”.
In questo quadro già piuttosto desolante, vanno poi inserite le raffinerie improvvisate dai gruppi armati nei territori sottoposti al loro controllo.
Quello delle raffinerie artigianali non è un fenomeno del tutto nuovo in Siria. Nel periodo pre-conflittuale, esistevano diverse strutture di questo tipo in prossimità dei pozzi petroliferi. Con l’inizio della crisi, tuttavia, il loro numero è cresciuto in maniera esponenziale, soprattutto nella regione di Deir ez-Zor.
“A causa dei bombardamenti e della mancanza di personale qualificato che ha abbandonato il Paese”, chiarisce Wim Zwijnenburg, autore per l’ONG PAX del report “Scorched Earth and Charred Lives”, “le raffinerie professionali hanno drasticamente ridotto la loro produzione. Allo stesso tempo la richiesta giornaliera di combustibili è rimasta inalterata”. “I gruppi armati, ISIS compreso – dice – hanno incoraggiato le raffinerie amatoriali perché costituiscono una fonte di guadagno attraverso la vendita del greggio prima e la tassazione sul petrolio prodotto dopo”.
È facile immaginare come la lavorazione del greggio avvenga senza alcun rispetto delle più elementari norme sulla sicurezza relative alla tutela dei lavoratori, che spesso sono minori. L’Unicef e Save the Children, nel report “Small hands. Heavy burden”, hanno denunciato l’allarmante numero di bambini impiegati presso questi impianti artigianali e i rischi per la salute che gli stessi corrono. “Odio il mercato del diesel e gli abiti che sono costretto ad indossare in quel posto. Sto male.”, racconta il dodicenne Khalid in una testimonianza riportata nel documento. “Un giorno – afferma il bimbo – sono comparse alcune macchie rosse sul mio corpo. Il medico ha detto che è a causa del diesel. Per curarmi, mi ha prescritto un sapone medicinale”.
“I bambini – riferisce sempre Zwijnenburg – sono ricoperti da ustioni di secondo e terzo grado oltre che da residui neri dalla testa ai piedi” essendo forzati a lavorare in questi contesti tossici.
Risulta quasi superfluo sottolineare il contraccolpo sull’ambiente derivante da queste strutture improvvisate. Il fumo e le polveri sollevati dall’attività di estrazione e raffinazione del petrolio, come evidenziato nel suddetto report di PAX, stanno contaminando le falde acquifere nonché i terreni agricoli e non sarà facile risanarli neppure dopo la fine della guerra.
L’ecocidio siriano non è un’invenzione degli ambientalisti o della società civile. Le stesse istituzioni di Damasco lo hanno confermato durante la terza sessione plenaria dell’Assemblea per l’ambiente ONU (UNEA-3), tenutasi nel dicembre 2017.
In quell’occasione, il rappresentante siriano, tra le altre cose, aveva imputato la responsabilità dei danni ambientali ai gruppi terroristici e alla “coalizione internazionale” a guida statunitense, asserendo che “le sanzioni economiche imposte al Paese rendono difficile la realizzazione dei progetti di recupero ambientale”.
Attribuire la colpa della devastazione dell’ambiente alle altre parti coinvolte nel conflitto è stata chiaramente una scelta di comodo per il regime di Assad, avendo esso stesso impiegato armi chimiche, che di certo non hanno una composizione ecologica. E tenendo conto che i danni ambientali in tempo di guerra costituiscono una violazione del Primo Protocollo aggiuntivo alle quattro Convenzioni di Ginevra e un crimine di diritto internazionale in base alla Statuto di Roma (ex art. 8, 2b, iv) istitutivo della Corte Penale Internazionale.
Tralasciando il discorso sulla responsabilità, troppo ampio e complesso per essere trattato in questa sede, preme qui sottolineare che la “questione ambientale” siriana non può più essere ignorata né dalle istituzioni statali né dalla comunità internazionale.
È necessaria infatti un’azione tempestiva ed efficace al fine di contenere quanto più possibile l’impatto che la guerra ha ormai avuto sull’ambiente. La storia insegna – dal Vietnam al Sudan passando per il Kosovo – che un conflitto armato, a prescindere dalla sua natura internazionale o interna, è in grado di infliggere ferite permanenti sulla natura e di conseguenza sull’uomo.
Del resto, in Siria, l’inquinamento sta già avendo profonde ripercussioni sulla salute pubblica e sulla qualità di vita della popolazione, aggravando una situazione umanitaria già di per sé drammatica.
Basti pensare, a titolo esemplificativo, che in diverse zone del Paese si è sviluppata, in modo endemico, la leishmaniosi cutanea. Si tratta di una malattia della pelle trasmessa all’uomo dalle cosiddette mosche della sabbia (sand flies). L’infezione provoca ulcere nelle parti esposte del corpo generando cicatrici anche deturpanti e in alcuni casi disabilità. L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) stima che “ogni anno si verificano oltre 40.000 nuovi casi soltanto a Idleb, Hama e Aleppo“.
La diffusione della malattia, ad avviso dell’ISID (International Society for Infectious Diseases), sarebbe da attribuire al collasso dei sistemi fognari e al mancato smaltimento dei rifiuti che hanno reso possibile la proliferazione dei flebotomi anche nei centri urbani.
Troppe persone, riporta la piattaforma online REACH Resource Centre, “vivono e dormono tra le macerie delle loro abitazioni e in prossimità dei siti di riproduzione di questi insetti” esponendosi così ad un alto rischio di essere punti.
D’altro canto, non hanno alternative. Alcuni civili, intervistati dal giornale Asharq Al-Awsat, raccontano quanto sia estenuante convivere con questi parassiti. “La notte – dice una donna – non riusciamo a dormire per la massiccia presenza delle mosche“. Le autorità, gli fa eco un 50enne, “hanno provveduto a disinfestare le nostre abitazioni, ma è successo una sola volta. La verità è che a nessuno importa di noi, altrimenti tutto questo non sarebbe successo”.
Sempre sotto il profilo della salute, la situazione è di gran lunga peggiore nel nord-est siriano, dove sono maggiormente concentrate le raffinerie artigianali.
Nel governatorato di Deir ez-Zor, “si è registrato un considerevole incremento di tumori. Crediamo ci sia un collegamento diretto con l’aumento dell’inquinamento”. Precisamente, “tumori della pelle e dei polmoni nonché malformazioni fetali, sono stati segnalati nelle regioni al di fuori del controllo governativo. I numeri sono molto alti se comparati al 2011 (ovvero all’inizio della rivoluzione siriana) anche se è difficile essere più precisi per la mancanza di statistiche e di registri compilati correttamente”. A parlare è Abed Najem El-Obeid, Direttore sanitario della regione, in un’intervista del 2016 al settimanale Arab Weekly.
La sofferenza patita dai siriani a causa dell’inquinamento è tale che un medico locale afferma: “a volte sono troppo sopraffatto. Quello che ho imparato alla facoltà di medicina non è abbastanza per poter capire le innumerevoli patologie causate dal petrolio e dal suo sfruttamento”.
La guerra mortifica e uccide l’ambiente.
Questo è un dato di fatto di cui governi, comunità internazionale e opinione pubblica sono fin troppo consapevoli. Non a caso, nel 2011, la Commissione di diritto internazionale ONU ha incluso nella sua agenda il tema della “protezione dell’ambiente in relazione ai conflitti armati“. E lo scorso 8 luglio, ha adottato un progetto di principi volti a garantire una migliore tutela ambientale proprio nei contesti di guerra.
Nello stesso mese, un gruppo di scienziati con una lettera aperta, pubblicata dalla rivista Nature, ha chiesto “ai governi di introdurre garanzie esplicite per la biodiversità e di utilizzare le raccomandazioni della Commissione [di diritto internazionale] per elaborare una quinta Convenzione di Ginevra”. Nella lettera, intitolata “Stop military conflicts from trashing environment”, si legge “i conflitti armati distruggono la mega fauna, accelerano l’estinzione di alcune specie e avvelenano le risorse idriche (…). L’industria militare dovrebbe essere ritenuta responsabile per l’impatto delle sue attività”.
Ciononostante, nel momento stesso in cui scoppia un conflitto è come se si creasse intorno allo stesso una sorta di incoscienza collettiva, che spinge belligeranti e non a considerare i danni ambientali come un mero effetto collaterale del tutto trascurabile e di certo meno prioritario rispetto al costo umano ed economico della crisi.
Tutto questo, purtroppo, sta accadendo anche in Siria.