Mi trovo a Khartoum, in Sudan. Ho visitato la piccola comunità di artisti chiamata Mellow, che ha sede in un piccolo appartamento nel quartiere Al-Amarat. Qui si svolgono regolarmente jam sessions, live paintings, piccole proiezioni cinematografiche, discussioni informali su temi sociali e politici, laboratori artistici e artigianali.
Questa comunità di musicisti, pittori, amanti dell’arte o più semplicemente amici è uscita allo scoperto dopo la fine della trentennale dittatura di Omar Al-Bashir. In particolar modo, durante il sit-in di protesta situato di fronte al quartier generale delle Forze Armate organizzato per la richiesta di un nuovo governo civile e democratico (“Madania”, come urlato dai dimostranti durante le manifestazioni degli scorsi mesi), durato circa due mesi. C’è poi un evento terribile che ha segnato lo spartiacque tra un prima e un dopo la storia di questo gruppo di artisti e del Sudan stesso: il massacro attuato dalle milizie RSF (finanziate ed appoggiate da esponenti contro-rivoluzionari) nella mattina del 3 giugno scorso, che ha distrutto l’intera area di protesta e ucciso brutalmente più di 100 persone.
Prima di questo episodio di violenza estrema, culmine di mesi di pestaggi, reclusioni e un costante clima di terrore, il piccolo locale si chiamava Orem (“nero” nella lingua nubiana). Il nuovo nome, Mellow, segna un passaggio da questo colore – un riferimento all’Africa ma anche a uno stato d’animo confessa MJ, leader del progetto – a una nuova maturità umana e artistica, capace di ritrovare il sentimento di pace perduta. Il termine fa anche riferimento alla musica di Bob Marley e allo slang rastafariano, indicante una serata tranquilla, passata a rilassarsi e chiacchierare con gli amici senza pensieri per la testa.
Majda (“MJ”)
Majda, o “MJ”, ha 30 anni. Insegna storia e informatica in una scuola di Khartoum; è nata nel Kordofan, a Babanosa, ma ora vive con la famiglia nella capitale. Vuole diventare una batterista professionista, con l’obiettivo di vedersi su un palco ad esprimere la sua passione musicale. “Non mi piace parlare molto, preferisco suonare e trasmettere vibrazioni positive. Anche se ho iniziato solo un mese fa, ho la possibilità di esprimermi e migliorare molto. Durante le jam session sono stata attirata dalla chitarra, provando ad imparare le basi con alcuni corsi online. Ma ho presto capito che mi sentivo più a mio agio con la batteria. L’insegnamento è la mia prima passione, durerà per sempre; ma vorrei anche approfondire questo lato artistico”.
L’esperienza del sit-in è stata la prima vera opportunità di riunirsi, condividere un obiettivo comune, un senso di comunità fraterna e libertà mai sperimentati in precedenza. “Come ragazza, mi sono sempre dovuta coprire adeguatamente prima di uscire in strada. Sono stata criticata ogni giorno per non seguire le regole tradizionali”. MJ porta i rasta (dreadlocks), raccolti elegantemente su un lato, una gonna lunga e una maglietta blu: un look molto lontano dal velo e dagli abiti pesanti normalmente usati dalle donne sudanesi.
“Durante il sit-in”, continua “la gente ha iniziato ad accettarsi vicendevolmente senza badare all’appartenenza ad un gruppo sociale, al proprio aspetto, alla propria provenienza sociale. La notte del massacro ho lasciato l’area un paio d’ore prima che iniziassero a sparare. Sono stata fortunata, non ho perso nessun amico quella notte. Sono positiva rispetto al futuro del Sudan. Non so cosa succederà, ma ci vorranno anni prima di vedere un reale cambiamento. Probabilmente le nuove generazioni, i nostri figli saranno testimoni e protagonisti di questa evoluzione. Non sappiamo cosa succederà, ma sento che siamo nella direzione giusta. Le persone sono più aperte, partecipative, coraggiose, motivate, attive sui social media”.
Nonostante non provi ancora fiducia per l’attuale Governo di transizione, ritenuto anch’esso responsabile dei fatti di sangue, continua dall’altro lato a crescere il suo sentimento positivo verso amici, dimostranti, giovani artisti sudanesi. “Il mio più grande sogno è essere fiera di me stessa e sapere che la mia comunità lo è verso di me, per aver creduto e raggiunto i miei obiettivi”.
Continua: “Per il mio Paese chiedo libertà, pace, giustizia[1]. Penso al 100% che la democrazia sia la soluzione migliore per il Sudan in quanto esprime la volontà del popolo. Le vecchie generazioni, tuttavia, vedono ancora le cose in maniera differente, troppo legate ai modelli del passato. Quelle stesse persone dovrebbero cambiare prospettiva sul modo in cui percepiscono noi donne, soprattutto nella mancanza di alcuni diritti per cui soffriamo e abbiamo sofferto molto. Questa lotta è da me intesa come una ricerca di uguaglianza: uomini e donne sono uguali, non ho nessun credo di superiorità di genere”.
Il confronto è un altro difficile terreno di discussione: “Credo che quella stessa generazione dovrebbe semplicemente accettarci per come siamo. La maggior parte di loro non sono cattive persone, ma sono cresciute con una mentalità che appartiene al passato. Io mi ritengo musulmana, ma mi sono posta molte domande sulla religione durante questi anni; per me si tratta di una ricerca spirituale, strettamente personale. Mi trovo ancora in un momento di riflessione, iniziato durante un viaggio con alcuni amici circa quattro anni fa, fuori dal Sudan. Incontrare diverse prospettive, tradizioni, modi di pensare mi ha fatto vedere come vivessimo in una scatola, una piccola scatola. Ora sento di volerne uscire; è difficile, ma seguo questa direzione. Conoscere e frequentare artisti di talento ha un effetto positivo su di me”.
Quest’anno ha deciso di non digiunare durante il periodo di Ramadan: una scelta personale, per la quale non si sente o si è sentita in dovere di giustificarsi. “Sono una leader di me stessa, non una follower. Non bisogna lasciare che qualcuno influenzi le tue scelte o chi sei, fino al momento in cui non si fa del male a qualcuno”. Nella sua comunità, a suo dire, tutti le hanno sempre detto cosa fare e cosa non fare; tuttavia, questa “pressione sociale quotidiana” attorno a lei ha fatto “sviluppare una differente versione del proprio sè, non quella costruita e voluta da altri”. L’arte, nelle sue varie espressioni, è intesa come una forma di evasione e libertà universale: “Tutti hanno un artista dentro, devono solo scoprirlo. Non dobbiamo avere paura, possiamo fare tutto ciò che desideriamo. In questo momento storico per il Sudan possiamo costruire il futuro che vogliamo”.
Nasser Zaki (“Zack”)
Nasser Zaki, o “Zack”, ha anche lui 30 anni. Suona principalmente la chitarra, ma anche il basso e la batteria. Nato e cresciuto in Arabia Saudita, è arrivato in Sudan quando aveva 15 anni. Ultimo di sei fratelli, fa parte di “quel gruppo di persone che ha dovuto e continua a dover migrare per trovare migliori possibilità”. La sua famiglia è originariamente sudanese, ma questi spostamenti hanno creato in lui un senso di “sradicamento”, da lui inteso come “un profondo senso di incompletezza”. Per lui si tratta di “qualcosa che non vogliamo si ripeta con i nostri figli, come lo è stato per me, per noi. Vogliamo rimanere qui, avere successo, seguire i nostri sogni”.
Gli ultimi mesi sono stati difficili ma molto importanti. Zack si è sposato il 19 dicembre 2018, lo stesso giorno in cui sono iniziate le proteste a Khartoum. Da quel momento ha partecipato alle dimostrazioni ed è stato molto attivo sui social media. “Voglio un futuro migliore per i miei figli e lotto per il rispetto dell’arte e degli artisti, trattati malamente ed uccisi durante lo sgombero del sit-in”. Le proteste pacifiche sono state un momento in cui si poteva suonare fino a tardi, dipingere in piena notte, esprimersi liberamente come si desiderava. “Questa generazione ha conosciuto la libertà di parola al sit-in. Ho frequentato l’area chiamata Safragt[2], vicino alla piccola clinica medica, dove suonavamo reggae e canzoni ispirate alla rivoluzione. Ho dato una mano anche nella zona chiamata El Mastaba[3], rimessa a posto per produrre murales. Durante il massacro ho perso della strumentazione con cui lavoro dovendo scappare per salvarmi la vita”.
Il racconto di quel 3 giugno è ancora vivido nella sua memoria: “Sono arrivato sul posto alle due del mattino, informato della possibilità di una incursione notturna. Ho pregato attorno alle 4.30, iniziando a sentire i primi spari. Molte persone coraggiose erano sul posto, ma siamo dovuti scappare, eravamo circondati! Io ed altri compagni abbiamo raggiunto la strada principale verso i cancelli del Commando Generale. Qui abbiamo chiesto ai soldati di aprirci, per metterci in salvo; tuttavia, gli stessi che dovevano proteggerci sono rimasti immobili. Le milizie RSF ci hanno presto circondato.
Sono scappato cercando una via di fuga in direzione del quartiere Burri. Mi sono rifugiato dietro una tenda, a fianco di un muro. Dietro di me gli spari, molte persone sono rimaste uccise. In quel momento ho visto una ragazza immobile, in stato di shock. Ho pensato che sarei morto là, in quella tenda. Altre persone erano terrorizzate e impietrite, chiedevano di rimanere fermi, non scappare. Ma non ho potuto: sono scappato senza fermarmi, spinto dall’adrenalina e dalla paura degli spari attorno a me. Mi sono mosso verso Sud. Un assembramento di soldati bloccava la strada, ma non sparava. Ero scalzo, avevo perso le ciabatte nella disperata corsa. I soldati mi schernivano con il termine offensivo “Sabinaha[4]!”.
Sono riuscito a passare attraverso l’assembramento, continuando a correre in direzione della casa di un amico; ero fradicio di sudore, erano circa le sei del mattino. Ho pubblicato subito quanto avvenuto su Facebook, prima che tagliassero Internet per censurare la diffusione di informazioni. Sotto shock e terrorizzato, mi sono chiuso in casa per due giorni dormendo o rimanendo fermo a letto. Mi sono letteralmente barricato in casa, anche se ero lontano dalla zona del sit-in: i miei vicini mi credevano impazzito. Ero convinto che le milizie RSF sarebbero entrate a casa mia e che i proiettili potessero arrivare dentro la stanza. Sono uscito di casa per la stringente necessità di riprendere la mia auto parcheggiata nelle vicinanze: quello è stato il primo momento in cui ho cominciato a rielaborare il trauma”.
La protesta pacifica è stato un modello vincente sul lungo periodo, che ha raggiunto risultati di cui potranno godere anche le prossime generazioni. “Questa gioventù ha la rivoluzione nel sangue, non accetterà un altro dittatore. Abbiamo ancora molte riserve sugli ultimi accordi politici. Non sono un politico, voglio solo il meglio per me e questo Paese. Non accetteremo soluzioni facili o manipolazioni politiche”. La soluzione democratica è percepita come l’unico modo per vivere insieme, capace di far coesistere le differenze: “una qualità che già appartiene ai sudanesi, nel nostro essere ospitali, gentili e pacifici, ma che deve potersi esprimere liberamente in questo grande paese composto da moltissime differenze”. Il processo rivoluzionario è stato catalizzatore di questo sentimento di appartenenza comune, poiché ha visto partecipare comunità provenienti da ogni direzione. “La politica ha creato differenze, imposto una classe che si definiva superiore creando conflitti. Le nuove generazioni vogliono lasciarsi alle spalle questa idea”.
Sulle conseguenze di quell’esperienza – devastante a livello personale -, Zack nota che “la mia produzione artistica è diminuita di molto in seguito a quei fatti. So che influenzerà molto la mia attività di musicista come la mia vita privata. Tuttavia, ora ho un nuovo progetto: mi piace partire dall’osservazione di arte visiva per improvvisare musica. Questa è la ragione per cui frequento molto Mellow, un piccolo posto in cui è possibile creare un network con artisti locali, riprendere in mano idee e progetti solisti, fare altro rispetto le canzoni rivoluzionarie degli ultimi mesi”. Tuttavia, v’è sempre spazio per la positività:“Io e mia moglie ci sposeremo ufficialmente secondo il rito tradizionale (dukla) il prossimo dicembre. Ora siamo già uniti ufficialmente secondo il rito islamico (hagid), ma ci aspetta questo ulteriore passo per completare la nostra unione ufficiale di fronte alla comunità. Mia moglie vestirà l’abito rosso, come da suo desiderio, faremo delle foto con i nostri amici e le nostre famiglie. Sarà un grande passo in avanti, molto importante per noi”.
Mohammed Omer
Mohammed Omer ha 27 anni, vive con la sua famiglia a Khartoum ma spesso si appoggia per comodità al suo locale, il Mellow. Da tutti è chiamato “MJ” poiché da ragazzo gli piaceva ballare a scuola imitando Michael Jackson. Due anni e mezzo fa ha iniziato il suo progetto culturale Orem, un centro per accogliere artisti, creare connessioni sociali, esprimere talenti. Quattro anni fa, MJ ha viaggiato con un amico attraverso il Malawi, il Kenya, l’Etiopia e l’Egitto, ove ha conosciuto numerose realtà e comunità di artisti sviluppando l’idea di creare qualcosa di simile anche a Khartoum.
Dopo aver trovato un piccolo appartamento senza elettricità e acqua, ha lavorato da solo per risistemarlo al meglio e dare il via al suo “esperimento sociale”. Le spese sono tuttora a carico suo ma, attraverso l’organizzazione di feste, eventi, laboratori, serate musicali, live paintings, la vendita di alcune bibite e caffè per il pubblico, la gestione di un piccolo studio per le prove musicali, può raccogliere i soldi necessari a coprire le spese. Spesso si fa anticipare il denaro da amici per poter organizzare le iniziative, ripagandolo in seguito, ad incasso avvenuto.
Piccolo ma coloratissimo, il locale è letteralmente tappezzato di quadri, murales, disegni donati dai frequentatori di questo spazio. Il cambio di nome da Orem a Mellow è indicativo del “nostro stato d’animo a seguito della rivoluzione, quando è iniziata una nuova fase”, mi spiega MJ. Durante il sit-in (situato a Nord dell’aeroporto di Khartoum) il gruppo di artisti era presente nella zona a ridosso della scuola di quartiere, organizzando jam session ogni giorno: “era magnifico! Sin dal primo giorno ho sognato che tutto sarebbe stato differente. La mattina del 3 giugno ho lasciato l’area poche ore prima dell’assalto. Ho perso due amici musicisti, uccisi dalla milizia. Inoltre, molta attrezzatura che usavamo per organizzare gli incontri musicali è andata perduta. Siamo stati fermi fino a metà luglio, senza poter fare nulla”.
Il sogno di MJ è di allargare la sua attività, potersi permettere un locale più grande, organizzare eventi che richiamino artisti da tutta l’Africa. “Penso di essere sulla giusta strada: ci sono in programma nuovi acquisti per il locale, nuovi progetti artistici in cantiere, un sacco di idee da sviluppare con la mia comunità. Abbiamo appena terminato una settimana di laboratori ed incontri con artisti sudanesi e non solo. Ora ci stiamo occupando della distribuzione di bidoni in plastica che saranno dipinti e posti in diverse aree della città per incoraggiare la corretta raccolta dei rifiuti, dal momento che nessuno se ne occupa. Inoltre, la stagione delle piogge ha già causato numerosi allagamenti in città. Attraverso donazioni, piccoli contributi, volontariato, si organizzeranno anche piccoli concerti nel quartiere, per poter raccogliere fondi e donare dei teli alle famiglie locali per ripararsi dall’acqua”.
Non manca la volontà di continuare a diffondere messaggi pacifici attraverso l’arte poiché, sostiene MJ, “non abbiamo più bisogno di guerra nelle nostre vite! Se si dice la verità e si agisce pacificamente, non si perderà mai! Anche da un piccolo posto come questo può iniziare un grande cambiamento. Molti artisti vivono esclusivamente della loro produzione, bisogna sostenersi a vicenda! Il Sudan è il Paese dal quale provengo: sento di stare facendo qualcosa di buono per la mia comunità, ma la mia idea è più ampia, inclusiva, non si limita solo a questo territorio. Credo che esprimere artisticamente un messaggio di protesta contro un’ingiustizia subita sia il migliore modo per combatterla”.
[1] In arabo “Horeyya, Salam, Adaala”, le tre parole ripetute ritmicamente durante le manifestazioni di piazza.
[2] Tradotto dall’arabo locale: “Ho vinto, fine del gioco!” o “scacco matto”.
[3] Tradotto dall’arabo locale: “muretto”. La omonima pagina FB è ancora attiva e chiamata “ElMastaba TV”.
[4] Tradotto dall’arabo: “cemento”. Parola usata dai protestanti per definirsi irremovibili e decisi a rimanere sulle loro posizioni come un blocco di cemento).
[Tutte le foto sono dell’autore]