[Traduzione a cura di Elena Intra dall’articolo originale di Bérengère Sim pubblicato su Open Democracy]
Isabel Cristina Zuleta è un’attivista per i diritti umani che vive ad Antioquia, nel nord della Colombia, dove lavora per Ríos Vivos Movimiento de Afectados por Represas , movimento di persone affette negativamente dalla costruzione di dighe. Secondo l’ONG Global Witness, solo nel 2017, in questo Paese sono stati uccisi 27 attivisti.
Dal 2010, Zuleta si oppone alla costruzione della diga idroelettrica di Hidroituango sul fiume Cauca, il secondo più importante della Colombia. Ríos Vivos sta cercando di sensibilizzare sui problemi che la diga potrebbe causare, tra cui danni ambientali, sfratti forzati e l’impoverimento dei residenti locali i cui mezzi di sostentamento dipendono proprio dal fiume.
A causa del suo attivismo, Zuleta ha affrontato minacce, molestie, tentate sparizioni forzate, accuse penali e violenze sessuali. Nel 2013, ha raccontato di essere stata rapita da agenti della cosiddetta Unità Mobile Anti-Disordini del Governo i cui agenti hanno anche fotografato le sue parti intime mentre era in detenzione.
Secondo un rapporto del 2018 della rete per i diritti umani Fondo de Acción Urgente (FAU-AL), quando Zuleta ha detto tutto questo al procuratore generale, le è stato detto che “non era la cosa importante“, e, al contrario, è stata accusata di promuovere attacchi contro la costruzione della diga.
Lo scorso agosto, Zuleta ci ha raccontato che gli attivisti hanno ricevuto ancora numerose minacce, tra cui persone che li avvicinano per intimarli a non protestare o minacciano di ucciderli, pedinamenti per le strade e altre minacce di morte tramite SMS, telefonate e Twitter. Il mese successivo, due familiari di attivisti della sua organizzazione sono stati uccisi.
“Penso che noi difensori della terra e dell’ambiente affrontiamo gli interessi capitalisti e questo significa che [il nostro lavoro] comporta un livello di rischio più elevato“, ci ha detto Zuleta tramite un messaggio vocale su WhatsApp. Tuttavia, “senza questa terra non abbiamo possibilità di vita“, ha aggiunto,”non possiamo negoziare le nostre vite“.
A novembre, sette uomini sono stati riconosciuti colpevoli di aver ucciso Berta Isabel Cáceres, un’attivista indigena honduregna che aveva combattuto a lungo per bloccare la costruzione di una diga sul fiume Gualcarque, considerato sacro dal popolo Lenca.
La Corte Suprema ha stabilito che l’omicidio di Cáceres è stato ordinato dai dirigenti della società Desarrollos Energeticos SA, responsabile del progetto della diga di Agua Zarca, a causa dei ritardi e delle perdite finanziarie che avevano subito per via delle proteste guidate dall’attivista.
Dopo aver ricevuto minacce di morte per anni, Cáceres, 44 anni, il 2 marzo 2016 è stata uccisa in casa sua a colpi di arma da fuoco. Il suo omicidio ha scioccato il mondo e attirato maggiore attenzione internazionale sulla situazione dei difensori dei diritti umani e ambientali in America Latina.
Secondo Global Witness, almeno 207 attivisti per i diritti umani e l’ambiente sono stati assassinati in tutto il mondo nel 2017 – il 60% in America Latina. Questa regione è anche la patria del Paese con il numero più alto di morti registrate: il Brasile, dove sono state uccise 57 persone, l’80% dei quali difendeva la Foresta Amazzonica.
Se da un lato la maggior parte di questi omicidi riguarda uomini, la ONG sottolinea che anche le attiviste donne “hanno affrontato minacce specifiche di genere, inclusa la violenza sessuale“.
In un rapporto si legge: “Sono state spesso sottoposte a campagne diffamatorie, hanno subito minacce contro i loro figli e tentativi di indebolire la loro credibilità, a volte all’interno delle proprie comunità, dove la cultura del ‘machismo’ potrebbe impedire alle donne di assumere posizioni di leadership“.
Anche la rete del Fondo FAU monitora la situazione delle attiviste nella regione e fornisce loro supporto logistico e finanziario. Nel 2018 ha pubblicato un altro rapporto che mette in luce la sfida in corso contro l’impunità di cui godono gli autori di violenze.
Hanno inoltre attirato l’attenzione sulle vulnerabilità e i diversi tipi di violenza che le attiviste affrontano, tra cui criminalizzazione, minacce, molestie, attacchi e femminicidi.
Uno dei casi trattati nel loro rapporto è quello di Lottie Cunningham, dell’organizzazione per la società civile Centro por la Justicia y Derechos Humanos de la Costa Atlántica de Nicaragua, CEJUDHCAN).
Lavora con oltre 100 comunità indigene che affrontano attacchi, omicidi, rapimenti, incendi delle colture e sfratti forzati. Denunciare queste violazioni dei diritti umani le ha procurato ripetute minacce di morte.
Questo uno dei messaggi che ha ricevuto: “Nel nostro Paese esiste la spazzatura come queste persone che dedicano le loro vite a diffondere spazzatura … contro il Governo … sono stufo di questi rifiuti [persone] e se devo difendere il mio benedetto Nicaragua contro questa spazzatura, allora sarà un onore farlo“.
Anche Cunningham è stata seguita per le strade e le hanno detto che circolavano “voci” che sarebbe stata uccisa.
Un altro caso citato dal rapporto del FAU è quello di Macarena “La Negra” Valdés, in Cile. Ad agosto 2016, uno dei suoi figli l’ha trovata impiccata alle travi di casa sua. Anche lei aveva ricevuto minacce di morte per mesi prima della tragedia.
Valdés aveva condotto una campagna contro la costruzione di un’altra centrale idroelettrica da parte della società cileno-austriaca Global Chile Energías Renovables, a Paso Tranguil, dove era leader nella sua comunità, i Mapuche.
Il suo ex partner, Ruben Collío, ci ha detto che Valdés è stata assassinata in “un chiaro tentativo di delegittimare la nostra lotta e cercare di farci reagire con la violenza. È veramente difficile ignorare questo istinto e combatterli con le loro leggi“.
Collío insiste che Valdés non aveva mostrato segni di depressione, ma le autorità hanno affermato che si è trattato di suicidio. Ha raccontato che la sua famiglia ha richiesto una seconda autopsia, la quale ha dimostrato che il suo corpo era stato sistemato in modo da simulare il suicidio.
Sta ancora combattendo per ottenere giustizia. A due anni dalla sua morte, i pubblici ministeri ancora non hanno riconosciuto la validità della seconda autopsia; Collío e la comunità Mapuche intanto continuano a cercare prove per dimostrare che è stata uccisa.
A livello regionale, il FAU chiede che venga applicata e rispettata la Risoluzione 68/181 delle Nazioni Unite adottata dall’Assemblea generale a dicembre 2013, che si concentra sulla protezione delle donne che difendono i diritti umani.
I casi di violenza devono essere documentati meglio, afferma inoltre il FAU. Sono necessari nuovi osservatori che si concentrino su questo aspetto, oltre a indagini più approfondite e indipendenti sulle minacce contro le donne che difendono l’ambiente e i diritti umani.