Israele e striscia di Gaza continuano ad essere protagonisti del Medio Oriente, sempre più in agitazione.
Innanzitutto, per la legge votata pochi giorni fa dalla Knesset. 62 voti favorevoli e 55 contrari hanno decretato l’entrata in vigore di un testo molto chiaro nel ribadire la linea politica israeliana degli ultimi anni. La legge ha importanza costituzionale.
Secondo quanto stabilito, Israele è definita la patria degli ebrei. Ufficialmente, quindi, il territorio israeliano è Stato-nazione del popolo ebraico. La legge sancisce la piena realizzazione della democrazia e dei valori ebraici secondo Benyamin Netanyahu, il Likud e la Casa ebraica.
Uno spirito nazionalista e sionista che, però, aveva suscitato le perplessità per il suo radicalismo – già nella fase di proposta di legge – del presidente della Repubblica Reuven Rivlin e del procuratore generale di Stato. Il giurista Mordechai Kremnitzer non ha esitato a considerare la legge una guida per altri Paesi nazionalisti come Polonia e Ungheria.
Tra i punti salienti del testo, spiccano la proclamazione di Gerusalemme come capitale unita di Israele e la definizione della lingua araba come lingua “speciale”, non più considerata, quindi, seconda lingua ufficiale.
Inoltre, lo Stato israeliano potrà promuovere e sviluppare comunità ebraiche sul territorio, che avranno un valore nazionale. La legge sembra tradire, quindi, anche lo spirito della dichiarazione di indipendenza del 1948, nella quale si leggeva…”completa eguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso..”
Se è vero che una maggioranza ebraica vive ormai da secoli in questa terra, la valutazione esclusivamente su base etnica degli abitanti di diritto ha suscitato preoccupazione e indignazione.
Innanzitutto negli arabi – il 20% della popolazione del territorio – che leggono nella legge una codificazione della discriminazione nei loro confronti. Ayman Odeh, leader dei partiti arabi alla Knesset, ha affermato che:
“La legge sulla supremazia ebraica è votata. Lo Stato ci dice che oggi non siamo i benvenuti. Ma questa è la nostra patria.”
Ahmed Tibi, leader del Movimento Arabo per il Cambiamento ha parlato di morte della democrazia. Anche da Adalah, il Centro Legale per i Diritti delle Minoranze Arabe in Israele, sono arrivate parole di disaccordo e di accuse del testo come espressione di superiorità etnica e legalizzazione dell’apartheid. L’Associazione per i diritti civili in Israele ha espresso preoccupazione per la legge, che sarà una spinta verso pratiche discriminatorie nel Paese.
La distensione tra Israeliani e Palestinesi si allontana? In realtà la tensione è già cresciuta in modo drammatico negli ultimi mesi. Lo scenario di morte è sempre la striscia di Gaza. Nello specifico, il pericoloso e fragile confine tra Israele e territorio di Gaza, governato dai Palestinesi dal 2005 ma sottoposto al controllo militare israeliano nei confini terrestri e marittimi.
Qui ha avuto inizio il 30 marzo 2018 la manifestazione di protesta palestinese chiamata Marcia del Ritorno. La data è simbolica e ricorda il lontano 30 marzo 1976 quando, durante le proteste per la confisca di territori palestinesi da parte israeliana, vennero uccisi 6 cittadini arabi. Secondo gli organizzatori della manifestazione, il tutto doveva concludersi il 15 maggio, giornata altrettanto carica di significato per la storia palestinese. La data ricordava Giorno della Nakba, quando iniziò l’esodo dei Palestinesi nel 1948.
La Marcia del Ritorno, quindi, voleva essere una richiesta di attenzione verso il Governo israeliano per rivendicare il diritto dei Palestinesi di tornare nelle loro terre e case. La manifestazione, però, è sfociata in un’escalation di violenza.
Dagli aquiloni incendiari lanciati dai Palestinesi verso i territori israeliani fino alle risposte armate dei militari di Netanyahu gli episodi di morte sono stati molti. Da quando è iniziata la protesta, sono stati uccisi 152 Palestinesi e ferite 160.000 persone.
L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha lanciato il suo monito il 13 giugno scorso, condannando l’uso spropositato della forza da parte delle milizie israeliane nella striscia di Gaza. A nulla è valso neanche l’accordo di cessate il fuoco del 21 luglio, ottenuto con lo sforzo di mediazione dell’ONU e dell’Egitto. L’inviato speciale ONU per il Medio Oriente è tornato al Cairo proprio in questi giorni per tentare, insieme agli egiziani, di trovare una tregua alla violenza senza sosta.
La tensione, intanto, si riaccende anche su altri fronti. Lo scenario è il territorio West Bank, in Cisgiordania. Qui nei giorni scorsi un cittadino israeliano è stato ucciso da un Palestinese in un atto di rabbia contro gli insediamenti israeliani su questa striscia di terra. La risposta israeliana non si è fatta attendere, con il ministro della Difesa Avigdor Lieberman che ha annunciato l’avvio della costruzione di altre 400 unità abitative in Giudea e Samaria. Questa, a detta del Governo israeliano, sarà la misura più concreta contro gli atti di terrorismo dei Palestinesi.
Questa degli insediamenti israeliani è una delle questioni più spinose ed irrisolte della Palestina. Nonostante il Consiglio di Sicurezza Onu si sia pronunciato in modo netto sulla politica israeliana nei territori considerati occupati, affermando che non hanno validità giuridica e violano il diritto internazionale, il Governo di Tel Aviv non ha mai smesso di seguire questa politica.
Rinfrancato dal supporto esplicito degli Stati Uniti di Trump, Netanyahu sta sicuramente portando avanti con successo la sua politica di affermazione israeliana nei territori. Con lo spostamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, avvenuto ufficialmente il 14 maggio scorso, giorno di sangue con 58 Palestinesi uccisi, la tensione è aumentata ancora di più.
I Palestinesi si sentono privati senza speranza dei loro diritti sulla terra che considerano la loro patria e gli Israeliani avvertono sempre di più il bisogno di difendersi dalla violenza di Hamas.
Un cerchio di morte e di guerra, quindi, che non riesce a rompersi.
Intanto, uno spiraglio di distensione è arrivato con la liberazione di Ahed Tamimi. La giovanissima attivista palestinese era stata arrestata il 19 dicembre 2017 per aver spinto, schiaffeggiato e preso a calci due soldati israeliani. Azioni di reazione alle occupazioni territoriali portate avanti con forza da Israele.
Anche il giovane artista italiano Jorit Agoch è stato rilasciato dopo essere stato fermato a Betlemme pochi giorni fa. Il reato per gli Israeliani era la realizzazione di un murales dedicato proprio ad Ahed Tamimi, disegnata sul muro di difesa e separazione costruito dal Governo israeliano.
Segni di distensione deboli, in realtà, figli di un clima molto teso e di restrizione delle libertà.