Ogni 24 ore qualcosa come 33.000 giovani sub-sahariani si mettono alla ricerca di un lavoro. Il 60% rimarrà deluso e disoccupato. Tra i 10 e i 12 milioni di persone ogni anno diventano potenziale forza lavoro eppure il continente è in grado di creare solo 3.7 milioni di posti di lavoro a livello annuale. Senza contare che la popolazione giovane nell’Africa Sub-Sahariana, continua a crescere rapidamente e – secondo le statistiche – dovrebbe raddoppiare entro il 2050 e raggiungere la cifra di 830 milioni.
Senza azioni sostanziali e urgenti si profila lo spettro della crisi delle migrazioni che nessun muro o guardia costiera può fermare.
In un interessante articolo pubblicato sul sito della Thomson Reuters Foundation si fa un’analisi, accurata quanto preoccupante, dell’attuale situazione sociale di questa parte del mondo da cui provengono migliaia di rifugiati o semplicemente migranti economici. Lo firmano l’ex presidente del Ghana, John Dramani Mahama e il coordinatore delle Nazioni Unite in Kenya, Siddharth Chatterjee.
Fa piacere che finalmente qualche leader africano cominci ad “esporsi” sulla questione immigrazione (sulla quale, evidentemente, occorrerebbe grande autocritica, che al momento manca).
Finora il loro ruolo è stato – e continua ad essere – abbastanza passivo, limitandosi a seguire le direttive della comunità europea e – negli ultimi tempi – a raccogliere soldi che l’Europa ha dirottato dal Fondo europeo di sviluppo – creato nel 1957 per la lotta alla povertà – a un Fondo fiduciario voluto sostanzialmente con lo scopo di bloccare il flusso di migranti. In che modo? Chiedendo ai Governi locali di creare barriere e incrementare le forze militari e di polizia. Lo ha spiegato bene Diverted-Aid, inchiesta finanziata dall’European Journalism Centre (Ejc).
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Senza contare gli accordi con la Turchia prima e con la Libia poi con tutte le “irregolarità” e i dubbi del caso. Organizzazioni come Amnesty International avevano denunciato i danni, dal punto di vista umanitario, che l’accordo con la Turchia aveva provocato e invitato a evitare accordi simili in futuro. Ovviamente, è rimasta inascoltata.
Dunque dove andranno, cosa faranno milioni di giovani disoccupati e senza speranza di futuro? Basteranno le milizie e le guardie costiere a fermarli?
Nel vertice di Taormina del maggio di quest’anno il presidente dell’African Development Bank, il nigeriano Akinwumi Adesina ha detto: “Il futuro dei giovani africani non è nella migrazione in Europa ma in un’Africa prospera“. Dichiarazioni di intenti, progetti e strategie a lungo termine non mancano. Come quelle elaborate dal Gruppo delle banche africane per lo sviluppo per creare 25 milioni di posti di lavoro e fornire competenze a 50 milioni di giovani entro il 2025 (documento in PDF),
La realtà però, per milioni di giovani, è fatta di sacche di povertà estrema, di abbandono delle campagne e urbanizzazione forzata ma senza prospettive, di frustrazione. Frustrazione che può anche risolversi con l’affiliazione a gruppi estremisti. E la religione – in questa scelta – c’entra assai meno delle condizione economica.
La realtà si chiama anche land grabbing, sfruttamento delle risorse, multinazionali. Un’analisi di Oxfam (2015) titolata Africa: rising for the few [Africa: l’ascesa per pochi, NdR] evidenzia proprio questo: che nuovi investimenti e nuove ricchezze beneficiano solo una minima parte di cittadini delle classi privilegiate, e poi soprattutto i Paesi esteri che continuano ad arricchirsi con le risorse del continente. Un fenomeno tra tutti, che aiuta le multinazionali a fare soldi sottraendoli all’Africa è il trade mispricing. In pratica, una compagnia stabilisce prezzi artificiali per i beni e servizi venduti tra le proprie sussidiarie. Lo scopo è, ovviamente, evitare la tassazione.
Il fenomeno dell’accaparramento della terra ha espropriato i contadini delle loro piccole proprietà e distrutto i territori contribuendo alla crisi ambientale che andrà ad acuire il fenomeno delle migrazioni. Entro il 2050 potrebbero essere 200 milioni i “rifugiati ambientali”.
Un’analisi più recente realizzata da ISS Africa (PDF) sintetizza così i risultati del lavoro di ricerca : “le cose in Africa si stanno mettendo meglio in alcune aree, ma non dovunque e non per tutti“. Uno dei punti critici sta, appunto, nell’ineguaglianza della crescita e delle opportunità e, al contrario del trend globale, il numero degli africani che vivono in uno stato di povertà estrema (meno di 1,90 dollari al giorno), continuerà a salire. Nel 2035 potrebbero esserci 170 milioni in più di africani in stato di povertà estrema rispetto al 2016 e questo nonostante tendono, invece, a migliorare le condizioni di povertà relativa.
Il futuro dipende quindi dalle scelte che i Governi locali appronteranno immediatamente, perché già domani sarà troppo tardi. E dipenderà anche dal modo in cui si continuerà a sfruttare il continente.
Un fattore importante è appunto l’economia. Secondo il lavoro dell’ISS Africa, il continente così essenziale per la crescita degli altri Paesi, rimane invece isolato nei contesti internazionali, rappresenta solo il 3% dell’economia globale e non riesce a rompere le barriere e i protezionismi che impediscono ai suoi prodotti di andare sui mercati esteri. Un fattore di rischio è anche la stessa urbanizzazione. Secondo uno studio dell’Africa Economic Outlook (PDF) l’Africa Sub-Sahariana potrebbe vedere triplicata la presenza di slum entro il 2050.
L’Africa però fa gola e anche l’Italia ha la sua parte di investimenti e interessi nel continente. Secondo l’ultimo rapporto di Ernst&Young (PDF) nel 2016 è stato il primo Paese europeo per Investimenti Diretti Esteri per un totale di 20 progetti e complessivi 4 miliardi di dollari. A fare la parte da leone è il gruppo Eni per l’estrazione del petrolio.
E se i risultati economici 2016 nel continente africano non sono stati soddisfacenti, con la crescita del PIL rallentato al 2.2%, la previsione per l’anno in corso è risalire al 3,4% e per il 2018 ci si attende un consolidamento e un’espansione al 4.3% anche se – nonostante i progressi – il 54% della popolazione in 46 Paesi africani vive ancora in condizioni di bisogno.
Industrializzazione, equa distribuzione dell’accesso alle risorse, programmi ambientali, sono fattori chiave. Vuol dire investire sugli africani, non sull’Africa. “La cultura imprenditoriale è vibrante nel continente. Circa l’80% degli africani considerano l’imprenditoria un’ottima opportunità di carriera. Il continente ha la più alta percentuale al mondo di persone che avviano o gestiscono un’attività, un nuovo business, ma spesso in settori dove c’è bassa produttività” si legge nell’African Economic Outlook 2017. Dunque, bisogna invertire la rotta per garantire davvero un futuro a questi giovani e adulti – uomini e donne – di talento.
Gli autori dell’intervento con cui abbiamo aperto questo articolo auspicano un Piano Marshall per l’Africa. La domanda è: chi controllerebbe altro flusso di denaro e investimenti in Africa? A chi sarebbe affidato? Quanta parte reale il continente avrebbe nello svolgimento del piano? E, soprattutto, che parte giocherebbero i giovani, la società civile, gli imprenditori (o aspiranti tali) locali?