Il 2016 è stato l’anno in cui ci siamo abituati a leggere articoli sull’immigrazione, a vedere servizi al telegiornale dedicati alla “crisi dei migranti”, a distinguere un richiedente asilo da un rifugiato. I flussi migratori, secondo quanto rilevato dall’Associazione Carta di Roma nel report “Notizie oltre i muri”, hanno conquistato le prime pagine dei giornali, tant’è che sono stati soltanto 12 i giorni in cui non è stata pubblicata alcuna notizia sull’argomento sui quotidiani più diffusi.
Una maggiore copertura mediatica del fenomeno, tuttavia, non sempre corrisponde ad una reale conoscenza dell’argomento. Infatti, si sono intrecciati diversi processi: da un lato, i media tradizionali hanno fortemente politicizzato l’argomento, tanto che una notizia su due riguardo all’immigrazione viene presentata sul piano politico; dall’altro, abbiamo assistito ad una estremizzazione delle posizioni di articoli, post e commenti sui social media.
Migranti e migrazioni sono, infatti, al centro di episodi sempre più frequenti di odio online. Secondo la ricerca condotta da Swg per il progetto Parole O_Stili, conformismo, ignoranza e paura sono tra i principali fattori che fanno sì che commenti carichi d’odio e di pregiudizi trovino spazio e che, contemporaneamente, siano in pochi a controbattere. La maggior parte degli utenti, infatti, ritiene che i tentativi di smorzare i toni e aprire un dialogo pacifico siano inutili. Inoltre, la proliferazione dei contenuti informativi a disposizione, la crisi dei media tradizionali e alcune campagne denigratorie messe in atto da varie parti politiche ha fatto sì che una porzione sempre maggiore di cittadini, il 27% secondo lo stesso rapporto, si affidino a fonti di informazione orizzontali, come blog e contatti diretti. Di fatto, quasi un italiano su tre tende a fidarsi di più dello status di un amico che dell’articolo di un giornale come Il Corriere della Sera o Repubblica.
In questo contesto, bufale e false notizie trovano terreno fertile per attecchire, soprattutto quando i protagonisti sono migranti e richiedenti asilo, fortemente marginalizzati sui media, e quindi nella condizione di non poter rispondere direttamente. Il problema, urgente, è quello di ristabilire la dimensione reale del fenomeno migratorio, etichettando come falsità e pregiudizi tutte quelle storie che continuano a trovare spazio sui newsfeed.
Quale invasione?
L’impiego di titoli sensazionalistici, l’utilizzo come sinonimi di termini come “clandestini”, “migranti”, “rifugiati”, la “de-umanizzazione” del migrante che non trova mai spazio – parlando in prima persona – sui media ha prodotto una sostanziale confusione riguardo al fenomeno. Di fatto, le linee di demarcazione tra il diritto d’asilo, la protezione internazionale e la migrazione economica si sono sfumate al punto che è diventato molto complesso definire la reale portata del flusso migratorio. Questi sono i passaggi che, secondo il ricercatore Stefano Volpicelli, hanno prodotto un senso di caos generalizzato per cui la sensazione è quella di un’Europa sotto assedio.
Tuttavia, la decostruzione di questa narrativa, che ha avuto ampio successo sia in ambito politico che sul piano mediatico, passa attraverso un’osservazione attenta dei dati. L’Alto Commissariato Onu per i rifugiati rileva che l’Italia, nel 2016, ha accordato una forma di protezione internazionale al 40% dei richiedenti asilo, una percentuale in leggero calo rispetto agli anni precedenti. In termini assoluti, in Italia i rifugiati sono 131mila. In Svezia, dove vivono solo 10 milioni di persone, i rifugiati sono 186mila; in Germania, invece, 478mila a fronte di una popolazione di 82 milioni di abitanti; in Turchia, i rifugiati sono 2 milioni e 800mila, praticamente un numero pari a quelli accolti nell’intera Europa.
Come osserva Alessandro Lanni su Carta di Roma, tutti i rifugiati accolti in Italia potrebbero essere ospitati contemporaneamente al Circo Massimo a Roma e ne riempirebbero circa metà: non certo la dimensione di un’invasione.
Non ci rubano il lavoro, anzi pagano le tasse
Uno degli stereotipi più diffusi sulla presenza di immigrati sul territorio riguarda la competizione per il lavoro. L’impatto della crisi economica, la crescita della disoccupazione, soprattutto giovanile come rilevato dall’Istat, e la diffusa percezione di un calo del potere d’acquisto sono fattori che, combinati, fanno crescere un senso di rabbia e frustrazione in molti italiani che hanno trovato nel migrante il perfetto capro espiatorio, responsabile della propria sventura.
Non esiste, però, alcuna evidenza scientifica che questa “concorrenza sleale” abbia un effetto negativo sui cittadini. Al contrario, Confindustria, in uno studio pubblicato nel 2016 sottolinea che l’immigrazione, per l’Italia, rappresenta un’opportunità dal punto di vista economico. In particolare, l’agricoltura beneficia in maniera sostanziale dell’immissione di forza lavoro dall’estero che, molto spesso, è impiegata in ambiti e attività che gli italiani rifiutano.
Inoltre, il beneficio derivante dalla presenza di lavoratori immigrati coinvolge anche il fisco: ogni anno, infatti, gli immigrati versano 8 miliardi di euro di contributi sociali, ricevendone 3 in termini di pensioni e altre prestazioni sociali. Di fatto, l’INPS calcola che i migranti hanno regalato all’Italia circa un punto di PIL.
Prendono 35€ al giorno e sono trattati meglio di noi
L’idea che ciascun richiedente asilo riceva, ogni giorno, 35 euro per il proprio sostentamento è una delle notizie false che più hanno attecchito nella maggior parte della popolazione. La diaria che spetta a ciascun migrante nei centri di accoglienza è di 2,50 euro. I 35 euro fanno invece riferimento al costo giornaliero che quella persona ha per la struttura d’accoglienza nel complesso. Si tratta, dunque, di una cifra che viene erogata alle cooperative che si occupano della gestione del centro di accoglienza e si attinge da uno speciale fondo europeo a cui l’Italia contribuisce proporzionalmente. Come spiega a Internazionale Roberta Di Capua, direttrice del servizio SPRAR, questi fondi “servono, prima di tutto, per coprire la spesa del personale: cioè per pagare gli stipendi, i contributi e i contratti degli operatori che lavorano nei centri, e che sono soprattutto giovani italiani. Una parte è spesa per l’alloggio e per il mantenimento delle strutture, che alcune volte sono di proprietà dei Comuni e vengono ristrutturate e altre volte sono prese in affitto da privati della zona. Infine, una parte serve a pagare i fornitori, da quelli di generi alimentari alle farmacie fino alle cartolerie”.
Inoltre, come emerge dal rapporto “Accogliere, la vera emergenza” della campagna LasciateCIEntrare, in alcuni Centri di Accoglienza straordinaria il pocket money viene barattato con un pacchetto di sigarette, dei biscotti o poco più. Beni che, nel complesso, hanno un valore nettamente inferiore ai 2,50 euro previsti dalla normativa vigente.
Hotel, alberghi e le case “degli italiani”
Stando alle prime pagine dei giornali e ai servizi di alcuni programmi tv, gli immigrati sono ospitati i hotel a 4 stelle, in condizioni molto migliori degli italiani, terremotati compresi, e osano addirittura lamentarsi del trattamento. In molti sono convinti che ai richiedenti asilo venga offerta una vacanza all-inclusive. Le cose non stanno esattamente così.
In effetti, un numero non definito di richiedenti asilo è ospitato all’interno di strutture alberghiere in tutta l’Italia. Questa tipologia di accoglienza rientra nel sistema dei CAS, i Centri di accoglienza straordinaria. In caso di necessità, il prefetto responsabile dell’area può ricorrere a strutture non convenzionali, come appunto gli hotel, per ospitare i migranti. Di fatto, sono gli stessi albergatori a decidere se accettare o meno la richiesta del prefetto e accogliere un gruppo di richiedenti asilo.
Il problema è piuttosto quello della vita dentro gli hotel e gli alberghi. Le associazioni che monitorano le condizioni di accoglienza, infatti, lamentano il fatto che le strutture vengono selezionate solo sulla base della disponibilità di posti e non dei servizi offerti. Il rischio è, quindi, che le condizioni igieniche non siano adeguate, che non sia erogato il pocket money e che i migranti non abbiano la possibilità di accedere all’assistenza giuridica o ai corsi di italiano.
Le ripetute visite all’interno dei centri di accoglienza straordinari, infatti, hanno portato alla luce che, in alcuni casi, i richiedenti asilo vivono in condizioni ai limiti della dignità: Medici Senza Frontiere denuncia che, oggi, sono almeno 10.000 i richiedenti asilo e i rifugiati che vivono nelle degradanti condizioni degli insediamenti informali, dove si vive, ghettizzati, ai margini della società e senza alcun sostegno.
La confusione sull’accoglienza ai migranti che sarebbe talmente lussuosa da far invidia agli italiani continua anche quando si parla di case popolari. Infatti, un’altra bufala sull’accoglienza molto diffusa è quella secondo cui questi alloggi siano assegnati ai migranti più che agli italiani. I dati, a questo proposito, sono molto disomogenei e cambiano di regione in regione.
In Lombardia, per esempio, il 40% degli alloggi sono assegnati a stranieri, mentre in provincia di Bologna la percentuale sfiora il 10%. I punti da chiarire sono diversi: in primo luogo, è normale che una percentuale crescente di case popolari venga assegnata a famiglie migranti perché vivono generalmente in condizioni economiche di maggior disagio quindi, nelle graduatorie, hanno maggiori possibilità di soddisfare tutti i requisiti necessari. In secondo luogo, le case popolari possono essere assegnate solo a persone e famiglie con regolari documenti, di conseguenza si tratta di una questione che non si interseca con l’accoglienza dei richiedenti asilo che, invece, è a carico dello Stato. I richiedenti asilo in Italia, secondo la normativa vigente, possono essere inseriti all’interno del progetto SPRAR oppure in un CAS, entrambe le modalità sono coordinate dal ministero dell’Interno. Le case popolari, invece, sono strutture del Comune, assegnate secondo un bando specifico e con requisiti specifici che fanno riferimento alla normativa italiana e non al diritto internazionale.
Smartphone e wifi, allora non sono poveri
Il fatto che un richiedente asilo sia stato costretto a lasciare il proprio Paese e che abbia investito una considerevole cifra di denaro nel viaggio che l’ha condotto in Europa non fa di lui un povero a tutti gli effetti. Questo pregiudizio, come viene spiegato chiaramente da Angelo Romano su ValigiaBlu, si fonda su una serie di associazioni cognitive errate che ci impediscono di associare l’immagine del migrante disperato sul barcone con il cellulare che noi tutti abbiamo nella tasca.
La responsabilità, anche in questo caso, è parzialmente attribuibile ai media che, negli ultimi anni, hanno costantemente rappresentato il migrante in una cornice “pietistica“. Fotografie e videoreportage, in cui richiedenti asilo sono protagonisti, nella maggior parte dei casi sono narrazioni di dramma e storie di vittime che devono smuovere le coscienze. Il migrante non viene mai rappresentato come un soggetto attivo e artefice delle proprie decisioni. Se fosse possibile compiere questa inversione rappresentativa e cognitiva, come del resto alcuni giornalisti e alcune testate si impegnano a fare, sarebbe più naturale rendersi conto che lo smartphone è un bene di prima necessità per il migrante.
Molto più di una valigia, il cellulare è lo strumento grazie al quale ciascuno può mantenersi in contatto con la propria famiglia, conservare alcuni ricordi, ma anche geolocalizzarsi in Europa per capire, di preciso, dove ci si trova, confrontarsi con i compagni di viaggio, condividere eventuali cambiamenti o pericoli sulla rotta. La tecnologia, inoltre, ha un ruolo sempre maggiore anche direttamente in Europa: l’accoglienza si fa anche attraverso app e siti web. Ciò permette di comprendere anche perché la richiesta di una connessione wifi accessibile non sia un vezzo, ma uno strumento irrinunciabile nella vita quotidiana.
Informazioni accurate e buon senso sono, invece, gli strumenti che i cittadini hanno a disposizione per agire concretamente e individualmente contro bufale e fake news. Craig Silverman, a proposito, ha raccolto su BuzzFeed sei consigli utili per sbugiardare le notizie false. Il decalogo, tradotto in italiano da IlPost, può essere utile anche quando leggiamo di immigrazione. Certo è che finché ogni contatto con i richiedenti asilo sarà mediato e non ci sarà una diffusa possibilità di superare i pregiudizi costruiti dal flusso di discorsi d’odio pubblicati online, continuerà ad essere complesso tracciare la linea tra verità e finzione.
Abbattere anche questo muro è il senso stesso dell’accoglienza diffusa, secondo cui l’integrazione passa attraverso il contatto, un lavoro condiviso, la normalizzazione dei rapporti. L’obiettivo è quello di restituire al migrante la sua dignità di essere umano, con tutte le caratteristiche individuali che ne conseguono. Ma come è possibile incontrarsi se il contatto è soltanto tra una massa informe di migranti, da un lato, e un cumulo di pregiudizi e notizie false dall’altro?
[Qui si chiude la prima parte di un lavoro a cura di Angela Caporale sul tema della rappresentazione del fenomeno migratorio. Per il secondo articolo, pubblicato il 10 aprile, si veda a questa pagina.]