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Kosovo, enclavi, ponti e treni carichi di tensione

La parola enclave evoca da subito scenari di divisione, intolleranza, ingiustizie storiche, guerra. Il termine indica, in ambito geografico e politico, un territorio che si trova entro uno Stato pur non appartenendo ad esso per l’origine etnica, religiosa della popolazione e per ragioni di amministrazione politica. È, quindi, chiuso in confini che non sono della propria nazione.

La presenza di enclavi e di territori ben delimitati, dove la differenza etnica e religiosa è rimarcata e rivendicata con orgoglio, segna la storia di tutta la ex Jugoslavia. Dai primi insediamenti in questa regione di ottomani e serbi alle guerre balcaniche prima della Grande Guerra, fino alla federazione di Tito, alla disgregazione nazionalista e alle varie e drammatiche fasi delle guerre negli anni ’90, questa terra europea non conosce pace. Divisioni etniche e rivendicazioni territoriali in nome di nazionalismi spesso estremi hanno creato un clima di odio con radici difficili da estirpare.

Scena del film ″Enclave″

Il piccolo Kosovo ne è una dimostrazione. Per raccontare la storia del villaggio kosovaro a maggioranza albanese, Vrelo, dove i pochi serbi rimasti dopo il drammatico conflitto del 1999 vivono su una parte di territorio chiusi e scortati dalle forze internazionali, il regista Radovanovic sceglie come titolo Enclave. Il lungometraggio (del 2015 e distribuito in pochi cinema italiani a ottobre 2016) altro non è che lo sguardo triste di Nedad sul villaggio kosovaro, desolato tra macerie e povertà.

Il bambino serbo è costretto ad essere scortato dai carri armati della KFOR per uscire dal suo perimetro di terra protetta, l’enclave serba. Non ci sono altri bambini della sua etnia. Il paese è popolato unicamente da ragazzini albanesi. La cruenta guerra conclusasi da pochi anni non ha fatto altro che rafforzare l’antica convinzione che serbi e albanesi sono nemici, anche se bambini.

Il ritmo della storia è lento, scandito da un assordante silenzio. Pochi i dialoghi e molti i primi piani: di adulti orgogliosi e pieni di rabbia, di bambini tristi e innocenti, incattiviti dalla brutalità che ha portato via madri e padri, di anziani stanchi e gelosi custodi di tradizioni culturali ed etniche inossidabili. Seppure spinti dall’istinto infantile di giocare, Baskim e Nedad improvvisano un nascondino con diffidenza, chiamandosi sempre “albanese” e “serbo”, sprezzanti etichette a sostituzione dei nomi. Il ragazzo albanese porta con sé una pistola, che maneggia con fierezza e tanta rabbia, per rivendicare la morte del padre ad opera dei serbi. Nedad, in quanto appartenente a questa etnia, è ai suoi occhi un bersaglio sul quale far ricadere la sua sete di giustizia.

L’odio, la paura e la rabbia dei bambini lascerà spazio al perdono e alla riconciliazione alla fine. Ciò che invece non scompare è l’abitudine al pregiudizio etnico. Quando Nedad arriva nella nuova scuola a Belgrado, convinto di trovare bambini uguali a lui e socievoli, viene subito classificato come “albanese”, poiché proveniente dal Kosovo. A prescindere dalle valutazioni di natura cinematografica, Enclave è uno scorcio efficace sulla ex Jugoslavia e sulle ferite lasciate aperte dopo la guerra del 1999.

Immagine di archivio della rivista online East Journal

Oggi il Kosovo non è quello della pellicola. La Storia ha continuato a fare il suo corso. La dichiarazione di indipendenza dalla Serbia nel 2008 ha impresso in modo quasi insanabile una ferita tuttora aperta tra i due protagonisti. Il governo serbo non riconosce affatto la sovranità kosovara, considerando il territorio una mera regione autonoma del proprio Stato. I kosovari, da parte loro, difendono con orgoglio la liberazione dalle storiche pretese egemoniche del nazionalismo panslavo.

Seppure non riconosciuto da tutti i membri dell’ONU (con Russia e Serbia a guidare le fila degli Stati contrari all’indipendenza), e sostenuto nel processo di State building da forze internazionali prima ed europee fino ad oggi (Eulex è la missione Ue per lo stato di diritto, la giustizia, il sistema di polizia), il Kosovo è intenzionato a portare a compimento la strada della sovranità indipendente.

I due protagonisti, storicamente nemici, sono riusciti negli anni a impegnarsi, almeno formalmente, nella normalizzazione dei loro rapporti. L’Unione Europea ha fornito l’appoggio e la cornice per rendere concreto questo difficile e complesso cammino. Con “l’Accordo sui principi che disciplinano la normalizzazione delle relazioni” del 2013 e le intese del 2015, Kosovo e Serbia hanno raggiunto tappe storiche. Sotto l’egida dell’UE si è stabilita la creazione di un’Associazione/Comunità dei comuni a maggioranza serba nel territorio kosovaro, con poteri di completa supervisione su sviluppo economico, istruzione, sanità, pianificazione urbana e rurale (interpretata dai serbi come massima autonomia dal potere centrale e dai kosovari come una concessione che, comunque, assoggetta i serbi alla legge statale). Sono accordate anche disposizioni in materia giudiziaria e di polizia regionale, con le quali le zone a maggioranza serba vedono riconoscere una certa autonomia e rappresentanza e viene definita l’apertura del ponte di Mitrovica, per un pacifico passaggio tra la popolazione serba del Nord e quella albanese del Sud.

Insegna del ponte di Mitrovica, città divisa

La cornice legislativa e diplomatica, però, nasconde nodi e tensioni irrisolte. E proprio Mitrovica ne è il simbolo. La triste parola enclave torna di attualità, anche in queste ultime settimane. Questa città ripropone la divisione tra serbi e albanesi, rappresentata visivamente e geograficamente dal fiume Ibar. Le due comunità vivono relegate e chiuse nei loro territori. Il ponte che collega le due sponde si erge come speranza per favorire liberi e pacifici spostamenti, nonché l’avvio di un clima distensivo e comunicativo. Per questo l’UE ha inserito negli accordi il ripristino totale del passaggio sul ponte, ostruito e bloccato per troppo tempo da barricate e forze militari.

L’inaugurazione era prevista per il 20 gennaio 2017, quando Mitrovica avrebbe dovuto festeggiare la fruibilità piena del ponte da parte di serbi e albanesi, cittadini dello stesso territorio. E invece la città aspetta ancora. Nel dicembre scorso, l’amministrazione serba della parte Nord della città ha iniziato a costruire un muro, giustificando i lavori come pienamente rientranti nelle disposizioni UE per la ristrutturazione del ponte. Il Kosovo ha subito condannato l’iniziativa, definendola arrogante e in violazione del processo di normalizzazione.

In un territorio così denso di rabbia e pronto a scoppiare alla minima scintilla, i ponti possono creare distanze invece di avvicinare. Così come il treno, simbolo di viaggi oltre frontiere, può addirittura scatenare venti di guerra e invece di arrivare a destinazione, tornare indietro, sul punto di partenza.

Il 14 gennaio il convoglio partito da Belgrado per raggiungere la parte nord di Mitrovica è stato bloccato su ordine del Kosovo. Il treno riportava la scritta “Kosovo è Serbia in varie lingue sull’esterno dei vagoni, mentre all’interno era decorato con immagini di santi e chiese ortodosse. Il mezzo sembrava trasportare un messaggio politico piuttosto che persone, a ribadire in modo netto la negazione di una sovranità nazionale kosovara. La reazione del Kosovo è stata furiosa e l’escalation rapida e violenta. I Governi si sono accusati a vicenda di voler provocare una vera e propria guerra in nome di un nazionalismo mai placato, su un territorio, quello di Mitrovica, dove il tempo sembra essersi fermato al 1999.

Inoltre, l’arresto in Francia del generale dell’Uck Haradinaj su mandato serbo per crimini contro l’umanità nel 2004 ha reso il clima ancora più pesante. L’ex militare è stato poi rilasciato in via temporanea dalle autorità francesi, ma la vicenda ha sollevato le proteste kosovare. Assolto per due volte dal Tribunale internazionale per la ex Jugoslavia per mancanza di prove, l’uomo è un eroe dell’indipendenza per i kosovari, mentre i serbi gli attribuiscono eccidi e torture rimaste senza giustizia.

Il brusco ritorno alle tensioni tra Serbia e Kosovo ha spinto l’UE, nella persona di Federica Mogherini come Alto rappresentante della politica estera, a riunire d’urgenza le due parti per colloqui distensivi lo scorso 24 gennaio. Impegnati in un lungo percorso di avvicinamento all’adesione all’Unione Europea, Serbia e Kosovo sono monitorati accuratamente dalle istituzioni UE. L’obiettivo comune ai due Stati di diventare membri ufficiali dell’Unione è forse l’unico stimolo a fare sforzi verso la distensione. La normalizzazione dei rapporti è considerata condizione irrinunciabile per l’ingresso nell’UE. I fatti, però, dimostrano quanto sia acceso il rancore tra le popolazioni, testimoni di atrocità che non troveranno mai giustizia, e nei proclami di cieco nazionalismo dei Governi.

Sorgono due dubbi: può l’UE essere credibile nella democratizzazione e nel ripristino dei diritti umani dopo i fallimenti interni ed esterni, dopo la firma dell’accordo con la Turchia sui migranti? Kosovo e Serbia raggiungeranno mai una maturità civile che educhi alla convivenza intelligente e inclusiva, senza i rigurgiti di un nazionalismo etnico alimentato dai tragici errori della Storia?

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