C’è un settore dell’economia italiana dove la crisi non sembra arrivare e che, al contrario, è cresciuto in maniera esponenziale negli ultimi anni. Non si tratta di un settore come tutti gli altri, ma della produzione e vendita di armamenti. Secondo la relazione annuale del Governo sull’export militare del 2015, presentata la scorsa primavera, c’è stato un aumento del 200% delle autorizzazioni all’esportazione di armamenti rispetto al 2014. Il volume d’affari ha raggiunto i 7,9 miliardi di euro a fronte dei 2,6 miliardi dell’anno precedente. Il trend continua a crescere.
Un recente report dell’Istat, inoltre, segnala tra giugno e settembre 2016 un forte aumento dell’export di armi e munizioni in partenza dalla Sardegna verso l’Arabia Saudita per un totale di 20,6 milioni di euro. L’anno precedente, nello stesso periodo, l’export si era fermato a 3,8 milioni di euro: un aumento di 16,8 milioni di euro e del 400% in termini percentuali, secondo quanto riportato da Sardinia Post.
Nonostante molte organizzazioni internazionali siano impegnate da anni per contrastare il commercio internazionale degli armamenti, il fenomeno non sembra incontrare battute d’arresto, soprattutto in Italia. Nel Belpaese non solo cresce il volume d’affari, ma migliora anche il proprio posizionamento nel ranking globale. Oggi occupa, infatti, l’ottavo posto tra i dieci paesi che esportano più armi secondo i dati raccolti dal SIPRI, lo Stockholm International Peace Reseach Institute.
Sempre grazie all’attività di ricerca del SIPRI emerge che i principali clienti dell’Italia sono gli Emirati Arabi Uniti, seguiti da India e Turchia. Tuttavia ciò che desta particolare preoccupazione è il flusso di vendita di armamenti verso Paesi in guerra o coinvolti in conflitti di vario genere. Non si tratta di un dettaglio: l’esportazione e il commercio di armamenti verso Paesi in stato di conflitto armato e in contrasto con i principi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite è esplicitamente vietato dalla legge 185 del 1990. Il divieto si può aggirare, come di fatto accade, soltanto nel caso in cui i due Governi abbiano stipulato un accordo intergovernativo nel campo della difesa con menzione specifica della regolamentazione dell’import-export dei sistemi d’arma.
Questo è ciò che accade, nel caso più grave sia dal punto di vista politico che dal punto di vista umanitario, con l’Arabia Saudita. L’ipotesi sollevata da giornalisti e attivisti è che parte di queste armi e componenti venduti a Riyadh contribuiscano all’aggravarsi della guerra nel vicino Yemen, un conflitto che ha provocato almeno seimila vittime e che ha affamato la gran parte del Paese.
Ole Solvang, ricercatore di Human Rights Watch, ha fotografato uno specifico modello di bomba, la MK83, in Yemen, con il marchio di RWM Italia. Questo dato emerge da un’importante inchiesta di Reported.ly tradotta in Italia dal Post. I giornalisti hanno provato a ricostruire tutti i passaggi che legano l’Italia, la Germania, l’Arabia Saudita e lo Yemen, riportando che “nel 2013 e nel 2014 l’Italia ha concesso licenze per l’esportazione di grandi quantità di componenti per bombe MK83, alcune delle quali sono state poi trovate da Human Rights Watch sul terreno in Yemen. Tra le licenze c’è anche un contratto di 62 milioni di euro per 3.650 bombe. Nelle licenze del 2013 e del 2014 la destinazione non è specificata.”
Sono in molti ad aver sollevato alcuni dubbi in merito: Patrick Wilcken di Amnesty International ha sottolineato come l’Italia, adempiendo ai suoi obblighi internazionali, dovrebbe valutare caso per caso il rischio di trasferire armamenti in un qualsiasi Paese, valutando se chi riceve le armi le può utilizzare per compiere o facilitare gravi violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani. La questione è arrivata anche in Parlamento, dove il deputato Mauro Pili, Gruppo Misto, ha posto un interrogazione: come riportato da ValigiaBlu, l’obiettivo è fare luce sul commercio di armi con l’Arabia Saudita e, in particolare, sull’esponenziale crescita dell’export dalla sola Sardegna.
L’Arabia Saudita non è il solo cliente “scomodo” dell’Italia che commercia armamenti. Enrico Piovesana ricostruisce su Il Fatto Quotidiano i principali porti d’approdo delle armi made in Italy, menzionando gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Qatar, il Kuwait, tutti Paesi direttamente o indirettamente coinvolti nella guerra yemenita. Nel 2015 l’Italia ha inoltre esportato armi leggere e munizioni per 14 milioni in Iraq; blindati Lince di produzione Fiat-Iveco alla Russia, elicotteri T129 costruiti su licenza Finmeccanica alla Turchia. Completano il quadro le esportazioni verso Pakistan, India ed Egitto. Proprio all’Egitto di Al Sisi, prima del caso Regeni, sono state recapitate armi leggere e lacrimogeni usati, sempre secondo quanto riportato da Piovesana, per reprimere le manifestazioni di piazza.
Cresce anche l’export verso l’Africa: per la prima volta nel 2015, la regione subsahariana ha superato il Nordafrica. Si parla di 152,9 milioni di euro, arricchiti dall’ingresso dello Zambia il cui valore è passato da 0 a 98,3 milioni tra il 2014 e il 2015. Il resto della torta è spartito principalmente da Kenya, Algeria e Marocco.
La produzione di componenti per la fabbricazione di armi, l’esportazione delle stesse non possono essere considerate attività produttive come le altre. Troppi sono gli interessi in gioco e troppo alto è l‘impatto che le stesse hanno sulle vite umane. Ma senza addentrarsi nelle questioni etiche e morali, il proprio Paese che vende armi a Paesi coinvolti in un conflitto, violando di fatto la legge a tre livelli distinti, nazionale, europeo ed internazionale, non può che lasciare attoniti.