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Rap e hip hop per dire no al terrore jihadista

L’attentato del novembre scorso al Bataclan di Parigi durante il concerto degli Eagles of Death Metal è solo il simbolo di come anche la musica rappresenti, nella visione dello Stato Islamico, una minaccia all’integrità di un certo pensiero integralista e un’attività contraria alla Sharia.

Nei territori controllati direttamente dal califfato di Al-Baghdadi gli strumenti musicali sono stati distrutti in terribili roghi e il rifiuto della musica sembra essere un leit motiv anche in altre aree dove la minaccia del terrorismo islamista attecchisce, almeno su una parte della popolazione. Ovunque vi sia la censura, compare però anche il dissenso, un dissenso che parte proprio dalla musica. A volte trasformandosi in una vera e propria forma di strenua resistenza fatta di beat, versi e refrain. Il messaggio di questi musicisti è diventato talmente forte che oggi, anche loro, sono in cima alla kill list dell’ISIS.

Kurdistan iracheno – Helly Luv a fianco dei peshmerga

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Nata in un campo profughi iraniano da genitori iracheni nel 1988, Helly Luv ha vissuto in Turchia ed è cresciuta in Svezia fino a quando, nel 2013, non si è trasferita in Kurdistan. Lì ha preso avvio la fulminante carriera musicale che l’ha resa famosa, tanto che per alcuni è considerata la Beyoncé curda. Nel video del brano “Revolution” è rappresentata come l’eroina (in tacco d’oro) che, kalashnikov in spalla, protegge il suo popolo, oppresso e disperato, dalla minaccia jihadista. “È una rivoluzione. Andiamo avanti a lottare. Non bisogna aver paura nel mondo. Uniamoci per far sapere loro che noi siamo qui” è il testo di “Revolution”, motivo per cui è finita nel radar degli uomini di Al-Baghdadi. Tra i commenti più dolci nei suoi confronti pubblicati in Rete, si legge “É un insulto vivente a tutte le donne”.

Tunisia – Il rap per contrastare la radicalizzazione 

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Cinque anni fa, proprio la Tunisia è stato il primo Paese dove manifestazioni di piazza e iniziative della società civile hanno messo in crisi il potere politico tradizionale. Era l’inizio di quel fenomeno che abbiamo imparato a conoscere come Primavere Arabe e di cui, in parte, osserviamo quotidianamente le conseguenze in Siria ed Egitto. La Tunisia viene spesso considerata l’esperimento di successo, l’esito positivo, la conquista più importante di un fronte di diritti e resistenza; proprio per questo motivo è nel mirino dei fondamentalisti islamici che hanno già, sanguinosamente, colpito il Paese. Oggi l’equilibrio è fragile, ma il risveglio della società civile non può essere sopito. Ecco allora i rapper che nel 2011 erano in prima linea contro Ben Ali e oggi rischiano il carcere per continuare ad esprimere in musica il loro bisogno di libertà.

Se cinque anni fa le parole delle canzoni erano tutte per il risveglio contro la dittatura, oggi le liriche sono preghiere per tenere i giovani lontani dall’ISIS. Mehdi “DJ Costa” Akkari è uno di questi rapper, per lui la vita è cambiata dopo che suo fratello ha mollato tutto per unirsi allo Stato Islamico in Siria nel 2012. Intervistato dal Guardian (che ha dedicato all’attività dei rapper tunisini un lungo reportage consultabile a questo link), DJ Costa racconta che per lui la guerra al terrorismo non è un conflitto armato, ma una guerra culturale: “Il terrorismo è il mio nemico. E un rapper che non difende la sua gente, non è un rapper.

Tra Kenya e Somalia – L’hip hop per dire NO ad Al Shabaab

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Non potrebbe essere più chiaro il messaggio del collettivo hip hop Waayaha Cusub che ha scelto di chiamare il suo album d’esordio No to Al Shabaab. Il gruppo, composto da 18 musicisti, è nato nel 2004 dall’esilio forzato in Kenya di molti cittadini somali costretti a lasciare il proprio Paese (anche) a causa dell’influenza guadagnata dal gruppo islamista Al Shabaab. “Penso alle canzoni – spiega Shine Abdullahi, uno dei fondatori del collettivo in un’intervistae creo qualcosa che possa produrre delle azioni concrete contro la violenza.” L’obiettivo delle liriche, semplici e dirette, è spiegare alla gente che la violenza islamista non è una strada sicura per raggiungere il paradiso, ma soltanto una forma di violenza che porterà ad altra violenza, in un vortice che non finirà facilmente.

La forza del messaggio degli Waayaha Cusub è proprio la semplicità con cui hanno scelto di rivolgersi ai propri concittadini e ai vicini kenyoti: tutto è limpido, ogni verso spiega la loro visione, la loro musica è disponibile gratuitamente online e, agli inizi, veniva distribuita gratuitamente nei quartieri dove riuscivano ad organizzare un concerto. I fondamentalisti vogliono fermare la musica, quale modo più efficace per contrastarli che spargere la musica ovunque sia possibile?

Nigeria – Nneka che canta la pace a Boko Haram

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Nneka, 33enne nigeriana, è una delle pop star più note nel panorama musicale africano. Lenny Kravitz nel 2008 le ha chiesto di aprire il suo tour europeo e un anno fa è uscito il suo terzo album, My fairy tales. Una delle tracce più d’impatto è proprio “I pray for you“, in cui la cantante si rivolge direttamente a Boko Haram: è una canzone sul perdono e sulla necessità di porre fine alle violenze instaurando una pace stabile e duratura. “La musica può cambiare il mondoha più volte dichiarato Nnekae noi musicisti dobbiamo essere consapevoli del fatto che ciò che cantiamo può trasmettere un messaggio forte e chiaro.

Costa d’Avorio – Il Collettivo Bassam sulla spiaggia dell’attentato

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Ci spostiamo sulle spiagge della Costa d’Avorio, dove lo scorso marzo un collettivo di artisti e musicisti ha scelto di tornare proprio alla Grand-Bassam beach dove un gruppo jihadista affiliato ad Al Qaeda aveva realizzato un sanguinoso attentato, costato la vita a 19 persone, solo qualche giorno prima. Il Collettivo Bassam, così hanno scelto di definirsi i musicisti, ha scelto di rivolgersi in maniera diretta agli attentatori: “Uccidete innocenti per le vostre cause perse. No, non andrete in paradiso.

Mali – I Songhoy Blues e l’abolizione della musica

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Quando nel 2012, nel Nord del Mali, iniziarono i primi segni del conflitto che avrebbe lacerato la Regione, Aliou Touré, Garba Touré, Omar Touré e Nathanael Dembélé nemmeno si conoscevano e mai avrebbero immaginato che uno delle conseguenze della guerra sarebbe stato il divieto di realizzare e riprodurre musica nella loro regione, Timbuktu. Rifugiati a Bamako, la capitale maliana, si sono conosciuti e hanno iniziato a ricostruire la loro vita proprio dalla musica: così sono nati i Songhoy Blues. Notati per caso un club della città, prima sono stati inclusi nella compilation Africa Express, poi hanno pubblicato il loro primo album Music in Exile. La loro storia, raccontata anche nel documentario They will need to kill us first, li ha portati anche in Europa sino alla Royal Albert Hall di Londra.

Il “Desert R&B” dei Songhoy Blues è nostalgia per il passato, speranza per il futuro, ma anche una risposta esplicita all’assurdità dello jihadismo come in Desert Melodie che parla direttamente ai fondamentalisti, denunciando una volta in più l’assurdità della barbarie, ancora una volta in musica poiché il terrore e la violenza uccidono i corpi, ma – per fortuna – non le idee.

 

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