Voci Globali

Passaporti, violenza e controllo delle nazioni europee

[Traduzione a cura di Benedetta Monti, dall’articolo originale di Aaron Scheid e Leonard Barlag* pubblicato su Pambazuka]

Foto Flickr dell'utente Craig James
Foto Flickr dell’utente Craig James

Un passaporto sembra qualcosa di naturale e un’esigenza ovvia nel XXI secolo. Tuttavia un breve resoconto storico mostra che questo potente pezzo di carta è il risultato di uno sviluppo piuttosto recente, strettamente collegato al colonialismo e alla creazione degli stati nazionali.

Nella primavera del 2015, l’autrice senegalese Fatou Diome, tra le cui opere ricordiamo “Il ventre dell’Atlantico”, suscitò grande scalpore durante il talk show francese “Ce soir ou jamais!“. Solamente un mese prima, più di 1.000 persone erano affogate nel Mar Mediterraneo. La barca su cui si trovavano si era rovesciata sulla rotta che va dalla costa della Tunisia all’Italia. La Diome sfogava la propria rabbia riguardo al punto di vista e al dibattito europeo sull’emigrazione. Ed esprimeva la propria convinzione secondo cui esiste un problema globale che ha le proprie radici nel trattamento privilegiato di una piccola percentuale della popolazione mondiale che dipende da un unico documento:

“Gli europei assistono all’arrivo degli africani, ok. Questo flusso migratorio delle popolazioni è registrato e ben visibile. Ma non si assiste al flusso migratorio degli europei verso altre nazioni. Si tratta dell’emigrazione di persone che hanno potere e denaro. Sono coloro che hanno diritto ad un passaporto. Vanno in Senegal, in Mali, in qualsiasi nazione del mondo, in Canada, negli Stati Uniti. Ovunque vado […] incontro francesi, tedeschi, olandesi. Li incontro in qualsiasi parte del mondo perché hanno il diritto al passaporto.”

Oltre a smascherare un punto di vista selettivo europeo e l’uso della parola “migrazione”, la Diome affrontava una diseguaglianza evidente. Esiste un potere strutturale che i cittadini privilegiati possono ignorare ma che i meno privilegiati devono affrontare ogni giorno, cioè il potere del passaporto. Chiaramente, questa ineguaglianza non rappresenta uno sviluppo naturale, ma si è evoluta nel tempo, come dimostra uno sguardo alla storia di questo documento.

Un resoconto del passato

La storia del passaporto è una storia caratterizzata da controllo e diffidenza ed è strettamente connessa al processo di creazione degli Stati nazionali in Europa. È da notare che lo scopo dello sviluppo di un documento che controlla gli spostamenti non è stato sempre uguale durante gli ultimi due secoli.

La Bibbia fa riferimento a documenti firmati dal re che conferivano a un delegato il diritto di spostarsi in modo sicuro e senza ostacoli all’interno di un regno. Questi cosiddetti salvacondotti erano in uso anche durante il Medio Evo fino a circa al XIX secolo, inizio della creazione degli Stati nazionali. Durante la loro fondazione, gli Stati e le capitali hanno monopolizzato e espropriato i mezzi di produzione e anche l’utilizzo della violenza e i mezzi di spostamento legittimi. Tuttavia, un monopolio funziona solamente se applicato e controllato, e questo ha scatenato il processo di attuazione di un meccanismo di controllo. L’introduzione della cittadinanza, con il significato di nativismo, divenne naturale. A questo punto della storia, la cittadinanza divenne quindi una questione di discendenza, non più di residenza. Grande enfasi cominciava ad essere data alla nazione di origine di un individuo, ad esempio tedesco o francese, e ciò si rivelò importante per lo status e per l’affermazione dei propri diritti. Sarebbe sbagliato affermare che l’introduzione della cittadinanza e del controllo degli spostamenti vennero sviluppati esclusivamente per garantire la sicurezza del territorio nei confronti degli stranieri. Un altro catalizzatore fu quello di controllare i propri cittadini e introdurre la distinzione tra viaggiatori, espatriati e disertori dell’esercito.

Nonostante il processo rapido dello sviluppo dei documenti d’identificazione, la fine del XIX secolo fu segnata da un controllo limitato degli spostamenti in Eurasia. Il passaporto e l’obbligo del visto erano stati aboliti completamente in Sassonia e in Svizzera, mentre l’Inghilterra, la Francia, il Belgio e la nazioni scandinave avevano allentato le precedenti regole in materia di obbligo del visto.

I liberali e i socialisti in Europa celebravano così il flusso libero di capitali, merce e lavoro, nonché il fatto che un individuo poteva spostarsi dalla Francia alla Russia senza dover avere un visto, come Ulrike Guérot e Robert Menasse scrivono su “Le Monde Diplomatique“:

Percepire l’attuale area di Schengen senza confini come un’eccezionalità storica, una conquista quasi rivoluzionaria della storia europea recente di integrazione è fuorviante. Al contrario: il ricordo del fatto che la libertà dai confini europei abbia rappresentato per secoli la normalità è importante per poter discutere che cosa dovrebbe rappresentare questo spazio europeo oggi – cioè ciò che è sempre stato: un palinsesto di confini che non esistono, ma definiscono solamente le regioni culturali che hanno creato uno spazio europeo dalla varietà culturale in Europa”.

Il momento più “liberale” nella breve storia degli Stati nazionali è stato interrotto da due Guerre mondiali. I timori di una penetrazione esterna e di un afflusso massiccio di persone che scappavano dai conflitti armati cominciò a comportare un maggiore controllo dei confini. I conflitti armati divennero anche un evento ricorrente che ha caratterizzato il periodo del dopoguerra, con persone che scappavano da guerre e devastazioni. I limiti del sistema degli Stati nazionali apparvero quindi ovvi considerando il numero di cittadini non residenti che non avevano uno Stato di appartenenza. Inoltre, era esercitato l’invalidamento del passaporto per le persone che lasciavano una nazione, cosa che ha portato all’introduzione del Passaporto Nansen in Europa. L’idea era che i Governi potevano emettere un documento di identificazione senza concedere la cittadinanza agli ‘immigrati’ – un tentativo di tappare una falla nel sistema, che – nelle intenzioni – era destinato a durare solo temporaneamente.

L’eredità coloniale

Gli Stati europei erano anche potenze coloniali e dominavano i territori e le popolazioni in tutto il mondo. Tali territori erano così esposti a decenni di sfruttamento violento e di imposizione di sistemi politici ed economici che di fatto sostituivano o assumevano il controllo di sistemi già esistenti, alcuni dei quali esistevano da secoli. Questi sistemi politici pre-coloniali erano diversificati e dinamici come il mondo stesso, e se dovessimo farne un resoconto, riempiremmo interi scaffali delle librerie. Ciò nonostante, alcuni esempi dell’Africa Occidentale dell’epoca pre-coloniale mostrano come gli Stati e i regni seguivano logiche diverse e questo di conseguenza incideva sugli spostamenti delle persone. L’impero Ashanti era in grado di controllare un vasto territorio tramite le infrastrutture che erano presenti nel XVIII e nel XIX secolo, ad esempio, in cui le strade e non i confini rappresentavano il pilastro centrale del controllo dello Stato. Altri regni, come quello del Mali del XIV secolo, facevano più affidamento su una struttura dello Stato “centralizzata”, che si è sviluppata attorno ad una capitale con una periferia piuttosto definita e un potere dello statale “concepito come una serie di cerchi concentrici che si propagavano dal nucleo“. Il colonialismo europeo invece ha introdotto la logica di Stato nazionale con confini territoriali definiti e un tipo di “status globale” subordinato al concetto di nazionalità. Il colonialismo, oltre ai problemi politici, sociali e umanitari, ha comportato una mobilità limitata, non soltanto dal punto di vista globale ma anche all’interno del continente, separando inoltre gli spazi che un tempo erano coesi politicamente e socialmente. Il nazionalismo e l’assetto economico dell’era post-coloniale hanno intensificato questo processo rendendo più difficile ai cittadini africani viaggiare, specialmente verso le nazioni che avevano invaso e ristrutturato le loro patrie.

La situazione nel XXI secolo

Da un punto di vista europeo, ci sono due tipi di documenti che controllato e legittimano il movimento: il passaporto internazionale e la carta d’identità. Entrambe creano e sostengono il sistema degli Stati nazionali e della cittadinanza per gestire i cittadini di un determinato Stato. Soffermiamoci sul passaporto internazionale. Questo documento è utilizzato per controllare la partenza da un Paese di origine per entrare in una nazione straniera e poi ritornare nel proprio Paese. Chi ha attraversato un confine nazionale conosce il processo che prevede la consegna del proprio passaporto ad un funzionario di frontiera che si trova dietro un pannello di vetro. Questo funzionario controlla persone e passaporti molto attentamente e a volte pone domande riguardo allo scopo del viaggio.

Ciononostante, un passaporto tedesco consente di entrare senza visto in 172 delle 192 nazioni del mondo. Al contrario, soltanto cittadini di 81 nazioni del mondo possono entrare in Germania senza un visto – squilibrio che mostra il potere di un passaporto. Lo sviluppo di una gerarchia in termini di passaporto è un processo avanzato che si sta verificando solamente da alcuni decenni. E mette i cittadini di nazioni come la Somalia, Eritrea, Sudan, Sud-Sudan, Etiopia, Congo o Liberia al livello più basso di tale gerarchia, applicando un sistema restrittivo e molto spesso arbitrario di rilascio del visto. Tale sistema consente alle nazioni potenti dal punto di vista economico e politico di utilizzare la mobilità delle persone come una fonte di negoziazione e rafforza il loro dominio. Un esempio di questo meccanismo è rappresentato dalla Coppa del mondo FIFA 2014 in Brasile: le nazioni europee hanno agito nel loro interesse nel concedere l’accesso gratuito ai propri cittadini tifosi in Brasile e in cambio il Brasile è riuscito a garantire normative in materia di visto più liberali per i propri cittadini che si recano in Europa. In questo caso, l’evento culturale ha conferito al Brasile un potere di negoziazione e questo di conseguenza ha aumentato il suo potere economico e politico. Se agli Stati mancano queste risorse materiali e simboliche, non sono quindi in grado di consentire alla propria popolazione l’accesso alle reti, agli scambi, all’educazione e al lavoro a livello internazionale.

Prospettiva

Le alternative sono possibili se iniziamo a scardinare la ‘naturalità’ percepita dello status quo. Un numero crescente di intellettuali, studiosi, artisti e attivisti politici sottolineano l’evoluzione storica dei confini rendendoci consapevoli della loro violenza e arbitrarietà, e si esprimono a favore dei vantaggi sociali ed economici che si potrebbero ottenere senza l’esistenza dei confini… un mondo in cui potremmo affermare che il passaporto rappresenta solamente un episodio che è durato poco più di un secolo. Sarebbe un mondo in cui l’affermazione della Diome sarà plausibile per tutti:

“Viviamo in un mondo globalizzato in cui un indiano potrebbe vivere e trovarsi un lavoro a Dakar, un individuo di Dakar a New York e uno del Gabon a Parigi. Che vi piaccia o no, si tratta di una realtà irreversibile. Quindi troviamo una soluzione collettiva, o abbandoniamo l’Europa, perché io ho intenzione di restare.”

[*Aaron Scheid e Leonard Barlag collaborano alla campagna “VisaWie” in Germania. “VisaWie? Gegen diskriminierende Visaverfahren!” è una rete di diverse organizzazioni critiche riguardo al modo in cui sia la Germania che l’Europa emettono i visti. La rete di attivisti richiede un processo di emissione dei visti più equo e trasparente. Ulteriori informazioni riguardo a questa campagna sono disponibili al sito www.visawie.org oppure all’indirizzo email info@visawie.org.]

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