Voci Globali

Europadreaming, storia visuale delle migrazioni dal ’95 ad oggi

Una riflessione sull’Europa tradotta in un progetto di Visual Journalism ideato e promosso da un gruppo di ricercatori della Libera Università di Bolzano: Europa Dreaming. Ce lo racconta uno degli ideatori, Matteo Moretti, designer e ricercatore.

Cosa è l’Europa oggi e cosa vuol diventare? Come si pensa o si immagina? Domande impegnative a cui nessuno ancora sa dare una risposta. Da cosa nasce il progetto http://www.europadreaming.eu/? E a chi è diretto?

Europa Dreaming è il secondo lavoro del mio percorso di ricerca sul Visual Journalism, una pratica che porto avanti da qualche anno all’Unibz (Libera Università di Bolzano, Facoltà di Design e Arti). Come ricercatore nel design, mi occupo infatti di come un progetto possa contribuire all’apertura di un dibattito su fenomeni sociali complessi. In Europa Dreaming siamo partiti da un fenomeno locale, quello degli attraversamenti e i respingimenti dei profughi al confine del Brennero, che quotidianamente avviene almeno dal 2013, analizzandolo su un livello più ampio, sia geograficamente che temporalmente.

Abbiamo scelto la metafora del sogno, l’idea è nata in seguito all’immagine dei profughi siriani, bloccati in Ungheria, che decidono di intraprendere una marcia a piedi verso la Germania. In testa un uomo sventola la bandiera europea. Quell’immagine per noi è stata fortissima, ci ha dimostrato come – paradossalmente – i migranti credessero molto più di noi nell’Europa e nei suoi valori. Il loro sogno è più forte del nostro. Cosa succede quando il sogno europeo incontra quello dei migranti?  È questa l’Europa che abbiamo sognato? Personalmente non credo. Un’unione economica, ma non dei diritti, dove si è sempre agito in maniera emergenziale in materia di profughi e asilo politico.

Sicuramente non esistono soluzioni veloci ed efficaci per risolvere una situazione così complessa e che esiste da sempre. Il trattato di Schengen, spesso assimilato al sogno europeo è l’esatto opposto, è l‘inizio dell’incubo. Scarica le conseguenze di possibili migrazioni sui Paesi affacciati sul Mediterraneo, e assieme al regolamento di Dublino, crea un sistema che non è sostenibile. Manca inoltre uno status di rifugiato europeo, che cerchi di armonizzarne i tempi e le condizioni che attualmente oscillano di Paese in Paese.

In che modo avete lavorato e qual è l’obiettivo del progetto?

Con Europa Dreaming abbiamo cercato di ricollocare l’attuale crisi in un arco temporale più ampio: Alexander Langer, europarlamentare di origini sudtirolesi, nel 1995 aveva rilasciato dichiarazioni quasi profetiche, su Schengen e l’Europa, che si sono avverate nel 2015… o meglio, erano già avverate nel 1995 e quelle affermazioni sono ancor validissime, segno che poco è cambiato. Langer venne intervistato da Radio Radicale durante il blocco dei profughi bosniaci a Ventimiglia, stavano andando a manifestare per l’annessione della Bosnia Herzegovina alla comunità Europea, ma vennero bloccati e la tendopoli che era stata allestita venne sgomberata dalla polizia, esattamente come nel 2015 la tendopoli dei profughi africani, sempre a Ventimiglia.

Un’ulteriore riflessione è stata aperta analizzando la storia dei passaggi al Brennero, sin dall’anno della sua istituzione, il 1919. Da allora, sono passati milioni di persone, dai deportati della Seconda guerra mondiale, ai conseguenti profughi, i lavoratori ospiti in Germania che con lo stesso treno preso dagli attuali profughi che cercano di raggiungere il Nord Europa, si recavano in cerca di lavoro in Germania, con permessi temporanei. Scorrendo la timeline dei passaggi umani al Brennero ci si rende conto di come vi siano passati milioni di persone quando questo era un confine. Ed ora, in seguito al passaggio stimato di 25.000 profughi nel 2015 (fonte: ripartizione Politiche Sociali della Provincia autonoma dell’Alto Adige), l’Austria ha minacciato di ripristinare i controlli. C’è qualcosa che non va.

All’interno della mia ricerca cerco sempre di raccontare tutte le sfaccettature del fenomeno, affiancando dati quantitativi e qualitativi. Mai come questa volta, i dati sui migranti erano imprecisi, cito ad esempio quelli forniti da Frontex (l’agenzia che controlla i confini esterni dell’Europa) che dichiara in fondo alla pagina che i migranti sono stati contati due volte, quindi che il valore dichiarato dei profughi entrati in Europa è impreciso. Per questo motivo ci siamo affidati solo ai dati relativi agli sbarchi (Unhcr) e alle richieste di asilo presentate in prima istanza, dati più affidabili ed evidenti, che ci hanno permesso di raccontare come e quanti sono i profughi sbarcati nel 2015 e dove sono andati a richiedere asilo. Per contribuire a un’informazione più trasparente e bilanciare il sensazionalismo diffuso.

Inoltre, proprio perché mai come questa volta i dati dicono veramente poco del fenomeno globale, abbiamo anche raccolto una serie di interviste in cui determinazione, paura, speranza fanno da cornice alle storie dei profughi. Sono storie che appartengono a tantissimi di loro, il deserto attraversato a piedi, la morte di amici e compagni di viaggio, la prigionia e le violenze in Libia, il viaggio su un barcone che rischia di affondare da un momento all’altro, fino allo sbarco in Europa.

Un’altra parte dell’analisi che abbiamo condotto, è stata possibile grazie alla collaborazione con la fotografa Claudia Corrent, che ha fotografato gli oggetti che hanno protetto i migranti durante il loro drammatico viaggio. La cosa che mi ha colpito di più sono i tatuaggi, tutti a carattere sacro, spesso fatti dai propri familiari amici o genitori. Una dimostrazione di come per loro, il corpo, sia l’unica cosa rimasta, e come questo serva da supporto, memoria e allo stesso tempo protezione dalle avversità.

 

Quali sono i punti di forza del Visual Journalism? Perché in Italia fatica così tanto a prendere forma?

Innanzitutto cerca di riportare online il racconto di fenomeni complessi, offrendone un punto di entrata ad un pubblico più ampio. Spesso si avvale di immagini, elementi interattivi, visualizzazioni di dati, proprio per raccontare in maniera più leggera la complessità dei fenomeni trattati e rappresentarne ogni possibile sfaccettatura.

L’attuale panorama mediatico on line è alla deriva, come dice Clay A. Johnson: “The internet is the single biggest creator of ignorance mankind has ever created, as well as the single biggest eliminator of that ignorance”. In questo contesto diventa sempre più importante produrre un’informazione bilanciata, trasparente, che informi e non intrattenga, come la gran parte di notizie che vengono pubblicate quotidianamente.

Questo tipo di lavoro ha tempi più lunghi di quelli delle redazioni giornalistiche e coinvolge diverse discipline e professionisti. Significa tempi e costi molto alti, ma anche un innalzamento della qualità che potrebbe solo giovare al dibattito sulla crisi dei giornali online. Percepisco anche una certa diffidenza da parte dei giganti dell’informazione italiana, rispetto al Visual/Data Journalism e in generale all’informazione online. L’Italia è decisamente indietro rispetto ad altri Paesi come Germania o Inghilterra in cui questa pratica è già consolidata e sta aiutando il riposizionamento di testate come Guardian o il Suddeutsche Zeitung.

Otto Neurath diceva che “l’educazione visiva è collegata all’estensione della democrazia intellettuale all’interno delle singole comunità e dell’intera umanità. Per una società democratica è importante avere un linguaggio comune”. In Europa ci stiamo arrivando?

Sicuramente abbiamo fatto progressi rispetto ai tempi nei quali Neurath affermava ciò: un’Austria massacrata dalla Seconda guerra mondiale, nella quale Neurath sentì il bisogno di un linguaggio visivo universale (ISOTYPE) per istruire quell’ampia fetta di popolazione che dopo la guerra non aveva più niente, tanto meno l’istruzione.

In qualche modo, la nostra ricerca sul Visual Journalism segue quella direzione, riferendosi a lettori istruiti, ma spesso sovrastimolati da news, e circondati da informazioni sempre più imprecise, nonostante l’Italia sia una tra i Paesi con la più alta percentuale di analfabetismo funzionale. Ragionando a livello europeo, direi che si, c’è una educazione visiva più diffusa legata alla fruizione di news, anche se populismo e disinformazione sono tuttora duri da sconfiggere non solo in Italia.

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