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Capire l’ISIS svelando i meccanismi della propaganda

Qualcosa è cambiato da quando Abu Bakr Al-Baghdadi ha annunciato al mondo che esisteva una nuova realtà, un nuovo Stato fondato sui principi dell’islamismo jihadista tra le macerie di Iraq e Siria. Sono passati ormai due anni, eppure quello che sappiamo su ciò che accade in questa fetta di territorio nel cuore del Medio Oriente è ancora poco.

Merito e colpa, almeno in parte, è della strutturatissima macchina propagandistica realizzata dal Califfato che, da un lato, grazie alla presenza capillare sul territorio controlla e limita ogni ricerca indipendente e, dall’altro, nutre in maniera costante i media di tutto il mondo con materiali multimediali pronti all’uso. Sono proprio i video a fare la differenza: realizzati con tecniche (e un centinaio di tecnici) hollywoodiane, si diffondono in Rete raggiungendo simpatizzanti e possibili reclute in tutto il mondo. Spesso vengono oscurati in breve tempo, tuttavia è proprio studiando questi video che si può comprendere più a fondo ciò che accade dentro lo Stato Islamico. Questo è l’obiettivo del team di giornalisti e analisti di AGC Communication che, ormai da tre anni, realizza un lavoro quotidiano di social media intelligence finalizzato alla comprensione dei meccanismi e delle ragioni che garantiscono l’efficacia della propaganda.

Il risultato è il documentario “ISIS: morte di uno stato mai nato?”, scritto da Riccardo Mazzon, Graziella Giangiulio e Antonio Albanese, prodotto da Ruvido Produzioni e presentato in anteprima all’Europa Cinema di Bologna da Kinodromo in collaborazione con Civico32 e che sarà riproposto il 17 febbraio a Roma nel contesto istituzionale dell’Aula dei Gruppi Parlamentari della Camera.

Un'immagine tratta dal documentario "ISIS: morte di uno stato mai nato?" prodotto da Ruvido Produzioni

I video raccolti, montati e commentati raccontano di come lo Stato Islamico, o Daesh, abbia molteplici obiettivi; alla luce del motto “rimanere per espandersi”, la propaganda è funzionale al reclutamento di nuove forze militari e civili (in uno spot, per esempio, un medico di origine australiana spiega come la sua vita sia cambiata in meglio da quando ha deciso di partire per andare a lavorare in uno degli ospedali di Daesh dove manca il personale), ma anche alla promozione di un modello di vita sicuro e felice all’interno del territorio governato dal Califfato. Ecco spiegate le immagini di mercati colorati e pieni di uomini sorridenti, cene goliardiche dopo l’addestramento, cibo in quantità. Anche i bambini vengono utilizzati in questo senso: piccole reclute in mimetica cercano di coinvolgere i loro coetanei al luna park ed è facile notare come i primi appaiano più sani e belli dei secondi. Il messaggio è chiaro: Daesh ha tutto da offrire a chi vorrà unirsi alla causa, ma soprattutto fornisce un orizzonte di senso sociale e identitario in cui tutti i tasselli sono al loro posto.

La storia stessa viene utilizzata e riscritta nei video propagandistici: la tecnica del montaggio alternato tra immagini che ricostruiscono sul set le battaglie medievali e video di oggi ha l’obiettivo di rafforzare una connessione, forzata, finalizzata a giustificare ogni tipo di efferatezza compiuta. Il complotto sionista e lo strapotere del dollaro restano topoi particolarmente efficaci nella strategia comunicativa di tutte le forme di terrorismo islamista. Non si tratta infatti di novità assolute, l’elaborata strategia mediatica di Hezbollah (organizzazione islamista libanese), tutta orientata a gettare discredito su Israele, realizza clip del genere da quando ha fondato la sua televisione, Al Manar, all’inizio degli anni Novanta. Di nuovo, ciò che colpisce è la perizia tecnica dei video dello Stato Islamico che si presentano tali e quali i kolossal made in USA.

Un ruolo importante è quello svolto dagli spot legati al mondo militare: vengono documentati gli addestramenti, svelate le strategie per conquistare i villaggi, celebrati i martiri per la causa. L’obiettivo primario è il reclutamento dei foreign fighters, con particolare attenzione alle aree geografiche dei Balcani e del Maghreb. Non mancano tutorial e video motivazionali per attivare cellule silenti fedeli allo Stato Islamico lontane dal territorio. L’impressione che si vuole dare è che un covo jihadista possa essere ovunque: un esempio è quello dei video che incoraggiavano singoli terroristi a realizzare micro-atti di terrore in luoghi pubblici accoltellando i passanti. È lecito pensare che il fenomeno de “l’intifada dei coltelli” sia stato condizionato da questo tipo di materiale audio-visivo che è riuscito a raggiungere i suoi obiettivi nonostante la capillare censura di Israele.

Il pubblico dell'Europa Cinema di Bologna durante il dibattito con Antonio Albanese e Graziella Giangiulio in uno scatto di Kinodromo

Ogni video costa circa 30.000 euro e circola in rete, mediamente, 24 ore – spiega Antonio Albanese, giornalista professionista e analista politico-militare – già questo dato ci dice molto su quanto è importante per Daesh l’aspetto propagandistico”, mentre sui media occidentali regna la frammentazione. Si è molto discusso sulla censura riguardo alle immagini più cruente come quelle delle decapitazioni, tuttavia il timore di spaventare troppo l’opinione pubblica e la mancanza di risorse necessarie per studiare a fondo il fenomeno ci consegnano un’informazione incerta.

“Dobbiamo pensare – sottolinea Graziella Giangiulio, analista business intelligence – che ISIS si muove esattamente come una multinazionale che deve promuovere un prodotto. Studia il suo target, individua i canali più efficaci per raggiungerlo, realizza prodotti di qualità”. La molteplicità di anime dell’Europa e l’attaccamento alle proprie agende politiche prevalgono sulla necessità di realizzare e promuovere una contro-narrazione che sia efficace e superi la mera censura. Allora diventa fin troppo facile per il “marketing del terrore” ottenere ciò a cui aspira. 

D’altronde, la guerra si potrà anche fermare, ma è la pervasività ideologica e la potenza dell’universo semantico creato da Daesh a rappresentare la vera minaccia. E tutto ciò esiste, concretamente, su un piano d’azione che non è quello di bombardamenti e boots on the ground, ma afferisce alla sfera della conoscenza e dell’approfondimento socio-culturale.

In quanto giornalisti – commenta Albanese – per noi è un dovere deontologico raccontare quello che accade dentro i confini dello Stato Islamico. La politica dello struzzo non ha mai pagato, al contrario è fondamentale la consapevolezza di ciò che sta succedendo”.

Il fine di Daesh è arrivare allo scontro di civiltà, quello scontro di civiltà che sono sicuri di vincere perché dalla loro hanno Allah, perché di conseguenza ogni morto per la causa è martire, testimone e promessa della vittoria futura. Il sacrificio di oggi, in questo quadro semantico, non è altro che pegno per la gloria di domani. Ecco, di fronte a tutto ciò, non stiamo facendo abbastanza.

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