Nell’universo di Twitter, sotto l’hashtag #Bahrain si parla del Gran Premio di Formula 1, della presenza all’Expo 2015 di Milano e di lussuose architetture d’interni. Ma ci sono anche proteste, spesso soffocate duramente e report che parlano di sangue, repressione e torture.
L’immagine del piccolo regno del Golfo Persico che appare è quasi schizofrenica: da un lato la ribalta di grandi eventi internazionali, dall’altro il controllo sui propri cittadini, specie quelli dissidenti. Ma le violazioni dei diritti umani, cominciate a partire dai primi accenni di risveglio della popolazione durante la Primavera Araba, ormai 4 anni fa, sono all’ordine del giorno nel Paese.
All’epoca la repressione fu subito durissima, per soffocare sul nascere la voglia di democrazia. La famiglia reale, Al-Khalifa, non corse rischi e l’aiuto del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC) non si fece attendere. Le truppe che entrarono nel Paese e diedero subito ai cittadini l’idea precisa di come sarebbe andata. A 4 anni di distanza, il web rimane uno strumento fondamentale per restare informati e per diffondere notizie su quanto sta accadendo laggiù. Ci prova Bahrain Watch con una rassegna stampa abbastanza aggiornata che comprende testate mainstream e blog.
Eppure ci sono molti vuoti e in realtà “per il Bahrain non c’è audience” dice Ali Abdulemam, attivista che i metodi del regime li conosce bene. Costretto a nascondersi, poi imprigionato e sottoposto a torture, Abduleman – grazie anche ad organizzazioni per i diritti umani – è riuscito a lasciare il Paese. In questa intervista, rilasciata a Global Voices Advocacy nel 2013, sottolineava la brutalità dei metodi del regime e delle reazioni alle proteste – mai spente – della popolazione e da allora le cose non sembrano migliorate, soprattutto non si conosce la sorte di tanti attivisti e dissidenti politici. Molti sono in carcere o si nascondono, ma come afferma Abdulemam nell’intervista:
Non conosciamo il numero esatto ma stimiamo che nelle carceri ci siano tra i 3500 e i 4000 attivisti e dissidenti.
Il Bahrain Centre for Human Rights prova a dare un nome e una storia a questi attivisti, di seguirne le tracce, di raccontarne la trafila giudiziaria e di accendere l’attenzione su cosa sta loro accadendo. E in carcere è finito anche il presidente del BCFHR, Nabeel Rajab, arrestato con l’accusa di aver postato due tweet ritenuti “offensivi per il Governo” dove sottolineava che nel carcere di Jau viene costantemente praticata la tortura. Intanto, nonostante le proteste delle organizzazioni per i diritti umani, il Governo del Bahrain ha esteso il suo periodo di arresto:
Il Bahrain estende il carcere per Nabeel Rajab per altri 15 giorni, per indagare sul suo tweet che parlava di tortura.
Si tratta già del secondo prolungamento dell’arresto, cosa che ha reso più difficile ma anche più determinata la lotta di gruppi, associazioni, organizzazioni che seguono le vicende del Paese e si battono per il ripristino e rispetto dei diritti fondamentali.
Prima di essere arrestato Rajab aveva registrato il video seguente:
[youtube]https://youtu.be/p5qQFhVPXps[/youtube]
Intanto un suo amico continua a postare sul suo account Twitter, ma non è sempre facile inviare notizie o sapere cosa accade alle persone in prigione, così come risulta sempre più complesso entrare nel Paese. Si tratti di giornalisti o inviati di ONG. Bahrain Watch ha formato un archivio delle persone espulse dal Paese o a cui è stato negato l’accesso, ma Access Denied si ferma ormai al dicembre 2013.
Sono sempre di più gli account su Twitter e i blog che riescono a tenere informati su quando accade e su quante voci vengono silenziate, come ad esempio Bahrain Online, fondato dallo stesso Abdulemam nel 1999, quando per lui cominciarono i guai.
Oggi però Abdulemam ha il vantaggio di poter parlare e cercare di allargare quell’audience che invece, secondo i media mainstream, come lui afferma, non sarebbe interessato alle repressioni e violazioni dei diritti umani nel suo Paese. In un talk al Festival Internazionale del Giornalismo 2015 a Perugia, Abdulemam ha spiegato “Come il regime sta attaccando i giornalisti“. Ma prima di questo ha voluto ricordare gli attivisti in carcere, tra questi, appunto Nabeel Rajab. Abdulemam ha raccontato la sua storia e di come sia stato imprigionato, torturato, costretto a rimanere due anni nascosto e poi di come sia riuscito a lasciare il Paese e a rifugiarsi a Londra dove ha ottenuto asilo politico. Afferma:
Non possono più prendermi e torturarmi però ora usano altri sistemi, due mesi fa mi hanno tolto la cittadinanza ed è la peggiore punizione che una persona possa ricevere. Ora sono privo di nazionalità, non saprei neanche cosa scrivere in un’application.
Non è solo Abduleman ad aver perso la nazionalità del suo Paese, con lui altre 71 persone, molti dei quali blogger o cittadini evidentemente non graditi dalla famiglia reale. A caldo Adbuleman aveva rilasciato una appassionata e lunga riflessione a Global Voices.
Sulla situazione della stampa in Bahrain, Abdulemam afferma:
In Bahrain c’è una dittatura, se lasciassero parlare liberamente blogger, giornalisti, scrittori, allora verrebbero a galla le forti discriminazioni esistenti nel Paese, la corruzione… ovviamente non vogliono che si parla in maniera opposta alla realtà che intendono mostrare all’esterno.
Nell’intervista da me realizzata, sottolinea il motivo per cui il Bahrain è così poco presente sui media e le azioni degli attivisti per riportare invece attenzione sul Paese:
Credo che il regime stia usando il suo potere economico e stia letteralmente pagando perché non venga fuori l’immagine degli abusi nel Paese. I media dicono: non c’è audience sui fatti che riguardano il Bahrain, ma noi abbiamo scoperto che volutamente si sta facendo in modo di non far raccontare quello che accade. Noi attivisti cerchiamo di diffondere il messaggio che in Bahrain ci sono tante persone in pericolo e le violazioni dei diritti umani continuano, a cominciare dalla libertà di espressione.
E’ possibile guardare l’intervista per intero di seguito:
[youtube]https://youtu.be/HX9j9cz8j_o[/youtube]
[Pubblicato in cross-posting con Global Voices in Italiano.]