Voci Globali

Oppressione in Africa, un groviglio difficile da districare

[Traduzione a cura di Benedetta Montidall’articolo originale di George Mwai pubblicato su Pambazuka News]

Immagine dell'utente Flickr H4+, Sierra Leone, su licenza CC.
Immagine dell'utente Flickr H4+, Sierra Leone, su licenza CC.

Dato il proliferare delle ONG nell’Africa del periodo post-indipendenza, e l’organizzazione che ne è derivata, non si è più capaci di riconoscere la natura interconnessa dei fattori e dei sistemi di oppressione, e di come questi continuino a operare insieme per indurre dominazione, discriminazione ed emarginazione all’interno del continente africano. In effetti, come concorderebbero molti commentatori, tutto lo sbandierato ‘progresso’ africano trova le sue fondamenta in piramidi di oppressione. Inoltre, varie forme di oppressione si sovrappongono piuttosto che scorrere in parallelo nelle vite delle persone che ne sono affette. Le politiche e i processi neo-liberali in Africa, incorporati ed esasperati dalle moderne ideologie fondamentaliste, sono ulteriormente progredite condannando i gruppi già privi dei propri diritti civili.

Se si prendesse come esempio un qualsiasi Paese africano, si potrebbero identificare molte organizzazioni locali e nazionali volte al cambiamento, che si oppongono alla repressione, che combattono le impunità o che pretendono una trasformazione delle strutture che operano per la discriminazione. Si tratta certamente di grandi forze trainanti e di vaste risorse utilizzate al fine di ‘creare’ un nuovo ordine e una vita migliore per i cittadini africani. Ma una domanda importante che dobbiamo porci è se questi sforzi siano indirizzati ai sintomi o alle basi strutturali dei problemi sociali che cercano di risolvere.

Le risposte a queste domande si possono trovare solamente se siamo in grado di analizzare in modo critico i modelli che hanno tentato di risolvere i problemi sociali in Africa. Gli approcci ‘di sviluppo’ che sono stati introdotti nel continente per affrontare le sfide sociali hanno rafforzato le gerarchie burocratiche sia all’interno dei governi che delle ONG, hanno tolto il potere alla popolazione, hanno consolidato le diagnosi elitarie dei problemi sociali e hanno propagato altre forme di oppressione superiori a quelle che cercano di sradicare. È difficile dimenticare gli effetti a lungo termine dei Programmi di Aggiustamento Strutturale (Structural Adjustment Programs o SAPs) condotti su questo continente negli anni ’90, sia dal punto di vista sociale che economico, con cui le comunità sono alle prese ancora oggi.

Smascherare l’oppressione in Africa

Ma che cosa intendiamo per oppressione in Africa? Possiamo comprendere l’oppressione soltanto affrontandola e, cosa più importante, rimuovendo il velo che ci è stato messo sugli occhi dai suoi stessi responsabili. I nostri Paesi e in genere il nostro continente sono afflitti da una moltitudine di problemi sociali, ad esempio l’oppressione riproduttiva, lo sfruttamento dei contadini, il trattamento ingiusto di chi lavora nelle campagne, la disgregazione del patrimonio delle vedove, la distruzione dei luoghi naturali sacri e la negazione dei diritti alle comunità indigene.

E in che modo si manifesta l’oppressione in questi luoghi di conflitto? L’eredità del colonialismo raffigura nel modo migliore le origini diverse delle lotte contro l’oppressione in Africa. Il colonialismo (Clarke 1991) e il neo-colonialismo rappresentano una nuova forma di schiavitù dopo che la schiavitù originale ha raggiunto il suo punto di saturazione. La sua eredità e quella dei suoi aspetti concomitanti, come il razzismo, il patriarcato, il sessismo e qualsiasi altra tipologia di oppressione, hanno creato profondi divari di ineguaglianza tra gli individui in questo continente, emarginazione ed esclusione.

Se in alcune situazioni l’oppressione risulta visibile, in molti altri scenari non lo è. In Kenya, per esempio, una struttura patriarcale nelle pianificazioni governative ha inteso controllare in maniera costante la vita riproduttiva delle donne, ispirata dal concetto malthusiano secondo cui la sovrappopolazione comporta l’aumento dei livelli di povertà. Le donne, specialmente quelle che vivono nelle comunità economicamente svantaggiate, devono sopportare molti fardelli dell’oppressione che vanno dal controllo e dallo sfruttamento del loro corpi fino ai tentativi di adattare i loro corpi a quello che si crede sia naturale, culturale e religioso. Lo sfruttamento si estende al controllo del lavoro delle donne, esercitandosi quindi sulle loro fonti di sostentamento. Le donne sono più influenzate dall’oppressione riproduttiva, perché la programmazione sanitaria in molti Paesi è stata rimossa dagli altri temi di giustizia sociale che hanno un effetto sulle donne e sulle loro comunità, come la giustizia economica, la degradazione dell’ambiente, i problemi relativi ai rifugiati, la disabilità e la discriminazione basata sull’etnia e sull’orientamento sessuale e l’esclusione delle donne dai processi decisionali.

La reazione delle organizzazioni civili ai problemi relativi alla riproduzione nelle comunità è stata quella di condurre iniziative contro le limitazioni dei diritti riproduttivi delle donne senza però affrontare ulteriormente le strutture che creano queste forme di oppressione riproduttiva. Si tratta di un approccio così limitativo che ignora l’intersezione di tali lotte.

L’oppressione opera individualmente oppure collettivamente?

I contadini africani, specialmente quelli dei programmi di irrigazione sanzionati dal governo, hanno dovuto addossarsi il peso della povertà e dello sfruttamento, sacrificati sull’altare del neoliberalismo. Il “Mewa Irrigation Scheme” [Programma di irrigazione Mewa, NdT] in Kenya, un programma per la produzione del riso per i piccoli proprietari terrieri, è stato particolarmente colpito da un’interazione di strutture, legislazioni e sistemi oppressivi. Questo programma, che è stato fondato negli anni ’50 dai contadini coloni inglesi con grande supporto finanziario e politico da parte del loro governo, ha visto decenni di sfruttamento economico dei contadini per i bassi prezzi di produzione e la perdita dell’autonomia nell’attività agricola. La struttura imperialista ha poi trasformato la regola colonialista sfruttando i detenuti politici per la creazione delle reti dei canali d’irrigazione e per la produzione di riso; venne stabilito un regime legale illegittimo per gestire il comportamento dei detenuti. Il governo dell’indipendenza e quelli successivi, che hanno affermato di aver acquisito il potere attraverso il sostegno popolare, si sono rifiutati di eliminare queste leggi punitive, coloniali e obsolete. Una struttura iniqua di processi per il commercio globale non ha risparmiato i contadini, che adesso devono vedersela con il liberalismo del mercato il quale ha comportato il commercio di riso ad un prezzo inferiore proveniente da tutto il mondo, il che ha influenzato negativamente i prezzi del riso keniano. Allora, come operano insieme questi strati di sistemi e processi oppressivi nel corso delle generazioni?

Quando prendiamo in considerazione l’analisi della situazione delle piantagioni di tè in Kenya, non si può non risalire all’eredità oppressiva dell’occupazione colonialista. In genere si pensa che lo sfruttamento di un lavoratore significhi più che altro una paga misera e condizioni di lavoro pessime. Ma non è solo questo, esistono grandi problemi che si sono manifestati con l’occupazione dei colonizzatori. Alle comunità indigene sono state tolte grandi porzioni di campi, che avevano un profondo significato spirituale, economico e sociale. Questo trasferimento forzato ha comportato la sovrappopolazione e le attuali dispute irrisolte sui terreni nella regione della Rift Valley. La legislazione terriera non è riuscita a garantire la restituzione dei terreni che erano stati sottratti dai colonizzatori. L’attuale struttura della gestione del lavoro, altamente misogina e capitalista, ha adottato dal colonialismo il modo in cui venivano trattati i lavoratori africani, poiché centinaia di persone hanno lavorato come occasionali per anni senza che i loro diritti fossero presi in considerazione. I sindacati, che sono stati i baluardi dell’organizzazione del lavoro, sono stati cooptati dai governi che sostengono le società basate sullo sfruttamento, di proprietà inglese (quindi colonialiste). Dunque, la struttura coloniale e imperialista è davvero terminata da quando sventola la bandiera dell’indipendenza?

Come possiamo affrontare quest’oppressione interconnessa?

L’oppressione deve essere eliminata, ma non c’è non una risposta semplice. La mia argomentazione, ispirata dalla teoria di Paulo Freire nella sua opera La pedagogia degli oppressi, è l’amore e il dialogo. L’eliminazione delle strutture e degli ambienti oppressivi deve essere fondata sull’amore rivoluzionario nel corso delle nostre lotte. Le organizzazioni civili che affermano di rappresentare le comunità devono essere guidate da questo spirito trasformativo che è ispirato dall’amore per il cambiamento di tali strutture, con una visione d’insieme dei problemi. Devono essere sviluppati in tutte le nostre organizzazioni dibattiti critici sulle contraddizioni storiche, politiche, economiche e sociali che danno forma alla forza trainante dell’oppressione e al mantenimento dello status quo.

Non si tratta di un progetto apolitico delle ONG: è una lotta, o progetto per l’emancipazione, che cerca di mettere in questione le regole e le strutture che si trovano alla base delle società e che diffondono l’oppressione. Come organizzazioni dobbiamo riconoscere il fatto che non possiamo rendere omogenee le comunità, e che certi sistemi oppressivi mirano a privilegiare certe categorie di persone. Questa oppressione interconnessa in Africa è solida e necessita l’organizzazione di strategie che affrontino molteplici e differenziati problemi per poterla eliminare. Si tratta di una questione di cambiamento del sistema, non di una sua riforma.

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