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Emergenza immigrazione, l’Europa non fa abbastanza

L’emergenza immigrazione conquista le prime pagine dei media e i numeri parlano chiaro: 5.302 il numero degli sbarchi dal primo gennaio a metà febbraio. “L’Europa è una superpotenza economica – ha dichiarato il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni – può andare oltre i 50 milioni di euro l’anno che oggi vengono spesi per fronteggiare questa emergenza”.

I 915 profughi che – 18 febbraio 2015 – sono ancora al Centro di Accoglienza di Lampedusa che è attrezzato soltanto per 250 migranti sono soltanto le ultime cifre di una situazione ormai al collasso. Mentre la minaccia dell’Isis di inviare “500mila migranti” se l’Italia attacca la Libia preoccupa chi vive sull’isola, nel “deserto dei Tartari lampedusano“. Cosa fare per migliorare la macchina dei soccorsi? Valeria Carlini, responsabile Ufficio Stampa CIR – Consiglio Italiano Rifugiati, illustra a Voci Globali una possibile direzione di marcia.

 

Lampedusa, foto dell'utente Flickr Noborder Network, licenza CC

Il problema dell’immigrazione riguarda direttamente tutta l’Europa. È concreta oggi l’idea di europeizzare lo sforzo di Mare Nostrum?

L’Europa si è dotata di un’Agenzia, Frontex, che in maniera efficiente si occupa di controllo delle frontiere. Ma non è con questo strumento che l’Europa può assicurare il soccorso dei migranti nel Mediterraneo. Crediamo che l’Europa abbia tutto il potere, economico – politico – tecnico, di dotarsi di un efficiente sistema per garantire la sicurezza in mare. Dal punto di vista pratico questo passaggio può essere fatto in due modi: o ci si dota di una nuova Agenzia che abbia come mandato quello del soccorso e della sicurezza in mare oppure si deve ampliare il Regolamento di Frontex. Non solo sono due strade percorribili, ma crediamo sia un vero e proprio dovere europeo. Anche perché siamo certi non sia un problema economico:  la cifra che l’Italia ha speso con Mare Nostrum, circa 9 milioni di euro al mese, è un costo economico assolutamente sostenibile a livello comunitario.

Quali sono i limiti del regolamento di Frontex? Come modificarlo?

Frontex nasce per garantire la sorveglianza e il controllo delle frontiere, di questo si occupa. Sono i “poliziotti dei confini” europei. Nascono per contrastare i flussi di migrazioni irregolari, monitorarli, studiarli e fronteggiarli, non hanno invece né un mandato specifico né un’expertise in materia di ricerca e soccorso in mare. È chiaro che se nel loro compito di controllo delle frontiere si imbattono in un natante in difficoltà hanno l’obbligo di soccorrerlo, ma questo è lo stesso obbligo che hanno tutti i marinai che si trovano in condizioni analoghe. Cosa diversa sarebbe se il loro regolamento comprendesse un capitolo sul soccorso e ricerca e se, quindi, si dotassero di strumenti per pattugliare il Mediterraneo al fine di garantire la sicurezza di tutte le imbarcazioni presenti nell’area.  Dovrebbero avere quindi adeguati mezzi per la perlustrazione, il soccorso e per la prima assistenza umanitaria.

Dai dati pubblicati da Frontex risulta che 170.757 sono le persone arrivate in Italia, in particolare dalla Siria e dall’Iraq. Quante persone avete assistito nell’anno appena concluso?

Nel 2014 solo nell’ufficio di Roma abbiamo assistito 2.744 persone, e ancora stiamo elaborando le statistiche per tutti gli altri uffici. Ma per avere un’idea quantitativa, nel 2013 avevamo seguito circa 11 mila persone in tutte le sedi del CIR. Il 2014 è stato un anno difficile: il nostro lavoro nel Nord Africa – in Libia e in Algeria – ha risentito di situazioni politiche che si sono deteriorate di giorno in giorno rendendo il nostro lavoro a favore dei migranti particolarmente complesso.

In Italia, d’altro canto, stiamo cercando di lavorare fondamentalmente su 3 grandi temi:

  1. garantire un qualificato servizio di assistenza legale, che permetta di facilitare  l’ottenimento della protezione internazionale, attraverso informazioni sui diritti e la consulenza per preparare l’audizione di Commissione. Questo è un aspetto che ci sembra particolarmente importante in un anno che ha visto un aumento esponenziale delle domande d’asilo che nel 2014 hanno raggiunto quota 64.886.
  2. facilitare l’integrazione di quanti ottengono una forma di protezione. L’Italia in pochi anni ha fatto un enorme sforzo passando da un sistema di accoglienza che prevedeva 3.000 posti nello SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) e 10 centri governativi, a un sistema che riesce a dare accoglienza a circa 67 mila persone – tra SPRAR (che ormai ha più di 20 mila posti) – centri governativi e Centri Assistenza Straordinaria. Ma purtroppo questa accoglienza spesso non ha gli strumenti per garantire una dignitosa integrazione. Come CIR siamo convinti che senza integrazione il diritto a rimanere in Italia e la protezione che diamo siano parole vuote: che significa essere protetti se non si ha una casa, un lavoro e si vive in condizioni di fortissima indigenza?
  3. abbiamo focalizzato le nostre attività di advocacy sulla promozione di modalità di accesso protetto. Stiamo parlando di misure ben precise che potrebbero essere realizzate con cambiamenti a livello nazionale e comunitario: dal rilascio di visti umanitari, all’apertura di programmi di reinsediamento e canali umanitari, all’attivazione di sponsorizzazioni fino alla possibilità di chiedere asilo dal territorio di Paesi terzi. Questo rimarrà un nostro obiettivo forte anche per il 2015. Perché per salvare le vite nel Mediterraneo si deve agire non solo sul rafforzamento del sistema di soccorso e ricerca, ma anche sull’apertura di potenziali canali legali.

Il Cir è membro di network nazionali e internazionali per la tutela dei rifugiati e per il rispetto dei diritti umani. In che modo funziona la collaborazione internazionale e quale ne è l’esito?

Per noi la collaborazione a livello europeo è essenziale. Siamo da sempre membri dell’ECRE (European Council on Refugees and Exiles) e dell’IRCT (International Rehabilitation Council for Torture Victims), per i nostri programmi a sostegno delle vittime di tortura, e insieme a questi network portiamo avanti battaglie e campagne a livello comunitario. Per esempio un importante risultato che abbiamo raggiunto proprio grazie all’attività dell’ECRE e di tutte le organizzazioni che ne fanno parte, è stato negli anni ’90-inizio 2000: l’inserimento prima nel dibattito, poi nell’agenda politica, infine nella legislazione di forme sussidiarie di protezione. Siamo convinti che senza la nostra spinta il percorso sarebbe stato ben diverso.

In che modo arginare il business dei migranti legato ai gruppi armati libici?

La situazione in Libia è particolarmente drammatica e crediamo che il traffico di migranti non possa che essere letto all’interno di un contesto politico e sociale che è totalmente collassato. Le risposte da dare vanno ben al di là del contrasto al traffico di esseri umani.

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