[Quella che segue è la testimonianza che Alfredo Bini ha scritto per Voci Globali. Bini, fotogiornalista impegnato da anni nel dare un volto a storie di migrazione, ha contribuito a portare alla ribalta quanto accade nei viaggi , spesso disperati, attraverso il deserto del Sahara. Il suo lavoro è racchiuso in alcune raccolte, tra cui Transmigrations, di cui pubblichiamo alcune foto.]
Il deserto s’allarga davanti a noi, il sole è a picco e il calore discendente avvolge tutto come un fluido dalla consistenza indefinita. La canicola asciuga la pelle da qualsiasi traccia di sudore, fino al tramonto, che procurerà un po’ di sollievo, temporaneo, prima del ghiaccio della notte Sahariana.
È in queste condizioni che migliaia di persone stipate sopra vecchi camion Mercedes carichi di merci, percorrono per giorni l’ultima tappa di un viaggio epico, d’altri tempi. Dall’Africa Occidentale a quella Mediterranea lungo le piste che attraversano il Sahara.
Quando cinque anni fa, al seguito d’un convoglio di 50 camion e 4000 migranti transitavo su quelle piste per realizzare Transmigrations, non credevo che sarebbe stato un lavoro così longevo. Eravamo in piena rivolta Tuareg MNJ e non avevo ben compreso la portata del fenomeno che stavo documentando o forse chi avrebbe potuto trovarci delle soluzioni non ha avuto interesse a farlo. Fatto sta che di Transmigrations s’è discusso ovunque, dagli Stati Uniti alla Cina passando per L’Europa e l’Australia fino alla Nuova Zelanda.
Contrariamente a quanto si crede, la maggioranza di chi si muove lungo quelle rotte è spinta da ragioni economiche: da sempre l’Africa mediterranea è più florida di quella sub-Sahariana e ne attira i lavoratori stagionali che poi diventano stabili. L’unico modo per giungervi è attraversare il deserto e sperare che tutto vada bene, perché se in Europa riceviamo le cronache dei migranti dispersi in mare, in Africa ricevono quelle dei dispersi nel deserto. Avere un guasto sul mezzo che ti traghetta da una sponda all’altra del Sahara equivale a un naufragio e se i naufraghi in ultima istanza possono verosimilmente sperare in un salvataggio da parte delle marine degli stati di “Fortezza Europa”, quelli che attraversano il deserto vengono spesso ritrovati morti dopo diversi mesi. Non che i primi siano più fortunati dei secondi, solo che dei secondi non sappiamo mai niente perché tutto avviene così lontano da noi che la politica e la stampa perdono completamente interesse a spartirsi l’opinione pubblica.
La Libia di Gheddafi per anni è stata la meta più ambìta per via dei salari dieci volte più alti degli standard sub-Sahariani e una domanda di manodopera stimolata anche dalla scarsa propensione dei libici ai lavori manuali. Al momento dello scoppio della rivoluzione del 17 febbraio c’era un milione e mezzo di immigrati su una popolazione di sei.
Gran parte di loro tornarono nei Paesi d’origine, mentre alcuni attraversarono il Mediterraneo insieme ai richiedenti asilo politico provenienti dal Corno d’Africa che fino ad allora avevano vissuto in clandestinità o in carcere.
Confrontando queste cifre -riferite alla sola Libia- con quelle degli sbarchi, è evidente che le proporzioni tra i movimenti migratori interni all’Africa e quelli verso l’Europa sono tutto sommato modeste e che non sarebbe un problema attuare serie politiche d’accoglienza per qualche decina di migliaia di persone all’anno che, nella maggioranza dei casi, fugge da persecuzioni o Paesi in guerra.
42.925 è il numero degli sbarchi del 2013, e di questi 11307 erano Siriani, 9834 Eritrei, e 9263 Somali.
Da tempo la politica ha rinunciato alla pianificazione a favore della gestione dell’emergenza, che permette di operare in deroga a normative e leggi e che vede sempre avvantaggiarsi i più scaltri.
Secondo le stime Eurispes in Italia il valore dell’economia sommersa generata dai migranti che lavorano per aziende italiane è di 22.500 miliardi di euro, così mentre all’unanimità le istituzioni partoriscono soluzioni spesso sconclusionate, i migranti sono vittime d’interessi economici e di potere molto più grandi di loro.
Transmigrations racconta la storia e il viaggio di alcuni di coloro che ho incontrato lungo la rotta, soprattutto di quelli che, rimasti senza soldi, sono stati costretti a fermarsi e lavorare per un tempo indefinito per guadagnare il necessario a proseguire il viaggio.
Ci sono però due foto che non sono riuscito a scattare che riaffiorano spesso nei miei ricordi.
-L’espressione del ragazzo caduto da qualche camion in pieno deserto, a 50 km da Agadez, che s’inginocchia al lato della pista implorando lo chauffeur di fermarsi a raccoglierlo. Eravamo l’ultimo mezzo alla fine del convoglio e l’autista non si fermò.
-La festa che i 4000 migranti fecero la sera stessa e che continuò per tutta la notte nell’oasi di Turawet. Euforici per essere riusciti a partire, iniziava la loro avventura. Giovani, incoscienti e sognatori festeggiarono fino all’alba tra canti e balli della loro terra.
[Le foto pubblicate in questo post fanno parte dei progetti “Trasmigrations”, “Libya Uprising” e “Bibione” e sono state gentilmente concesse a Voci Globali dall’autore.]