La crociata contro l’omosessualità che ha segnato un così netto successo in Uganda, con l’approvazione della nuova legge (Anti-Homosexuality Act) firmata dal presidente Yoweri Museveni, si
Oltre alle violazioni dei diritti LGBT, l’applicazione di norme così restrittive preoccupa anche per un altro motivo, ovvero la possibilità che venga compromessa l’efficacia dei trattamenti sanitari contro l’HIV/AIDS. L’Uganda è storicamente un Paese esemplare nella lotta contro la malattia, dimostrando fino ad anni recenti un costante declino della percentuale di adulti infetti. La situazione era davvero emergenziale negli anni ’80 e ’90, toccando un picco del tasso di incidenza nel 1992, quando il 18,5% degli adulti risultava infetto da HIV. Secondo l’ultimo Progress Report (2012) di UNAIDS , negli anni 2004/2005 si è raggiunto il tasso minimo del 6,4%, grazie a – si legge – “una forte leadership politica, un approccio aperto nel combattere la malattia, e una forte risposta della comunità“.
Lo stesso rapporto rileva tuttavia una ripresa del tasso di incidenza negli ultimi anni, con un rialzo del tasso di incidenza al 6,7% nel 2011. A fronte di questa incerta tendenza, UNAIDS indica comunque come “ancora inaccettabilmente alto” il livello di diffusione della malattia. Altri dati, pubblicati dalla International HIV/AIDS Alliance indicano per il 2012 un’ulteriore aumento al 7,2%.
Secondo Enrique Rastoy, senior advisor dell’Alliance, l’Uganda è oggi uno dei pochi Paesi in cui il trend della malattia è in crescita anziché in diminuzione. Ciò sarebbe causato dalla “mancanza di investimenti, scarsità di risorse e una strategia semplicistica basata sull’astinenza sessuale o in alternativa sull’uso dei preservativi“. Oltre a questo, secondo Rastoy grava la criminalizzazione dei rapporti omosessuali.
Il dibattito sulla promozione dell’astinenza sessuale in opposizione al condom ha peraltro una lunga storia, che si intreccia con le politiche di intervento statunitensi e l’ideologia dei gruppi evangelici conservatori impegnati nel volontariato internazionale. Si può partire ricordando la global gag rule (cd. “regola del bavaglio”), una norma introdotta da Ronald Reagan, cancellata dal presidente Clinton e reintrodotta da George W.Bush al suo primo giorno di insediamento nel 2001, che prevedeva la sospensione dei finanziamenti da parte degli Stati Uniti a tutte le ONG attive nella pianificazione familiare nei Paesi poveri che si occupassero di aborto e, dal 2003, in maniera estesa e restrittiva, di progetti legati all’HIV/AIDS. La misura bloccava anche le donazioni di contraccettivi, inclusi i preservativi, ritenendo l’astinenza sessuale come la migliore scelta possibile nella lotta all’AIDS. A fronte della definitiva cancellazione della global gag rule durante la presidenza Obama, si è però mantenuta forte la pressione delle comunità missionarie evangeliche, forse anche sull’onda crescente del movimento Tea Party.
In Uganda, la presenza di queste organizzazioni (talmente coese e agguerrite da arrivare in alcuni casi ad autodefinirsi Christian Mafia), molto potenti finanziariamente e con ottime capacità di lobbying, hanno sicuramente influenzato le strategie governative nella lotta all’HIV/AIDS, ad esempio con la promozione dell’astinenza sessuale. Nel caso dell’Uganda è risultata ancora più drammaticamente di successo la battaglia contro l’omosessualità, questione che non solo si intreccia, ma probabilmente deriva, dalla diffusione del virus HIV/AIDS nel Paese.
La determinazione feroce di queste comunità contro gli LGBT è documentata con grande efficacia nell’ottimo documentario americano God Loves Uganda, tra i 15 documentari candidati quest’anno all’Oscar. Il film ripercorre l’azione del gruppo pentecostale IHOP e degli altri protagonisti della vicenda, religiosi e politici, statunitensi e ugandesi, come il deputato David Bahati, promotore dell’Anti-Homosexuality Act nel 2009, e descrive bene il sentimento di crescente intolleranza che si è riusciti ad instillare nel Paese, culminato nell’assassinio dell’attivista per i diritti gay David Kato, nel 2011.
Tornando alle valutazioni di Enrique Rastoy, la criminalizzazione degli omosessuali “porterà queste persone a nascondersi. Avranno timore di esporsi accedendo ai servizi sanitari per la prevenzione dell’HIV…o per curarsi“. Ritiene inoltre probabile che, non rivelando il proprio status ai partner di sesso femminile, sarà più difficile controllare la diffusione del virus anche al di fuori delle comunità LGBT. Un altro aspetto grave, “nonostante le rassicurazioni del ministero della Salute“, è che “viene messa a rischio la stessa capacità di operare delle organizzazioni prestatrici di servizi“, perché, sostiene Rastoy, temeranno di essere accusate di favorire o promuovere l’omosessualità per il solo fatto di fornire assistenza agli LGBT malati, risultando peraltro potenzialmente sottoposte a intercettazioni e soprattutto condannabili a pene carcerarie.
Per questi motivi, oltre che per le ritorsioni diplomatiche attualmente in corso, l’afflusso di fondi da parte di molti Paesi donatori è destinato a ridursi. Al dramma dei gay ugandesi si aggiunge la prospettiva di un ulteriore arretramento dei successi nella lotta contro l’HIV/AIDS.