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Informazione dal basso e uso democratico della parola on line

Questo articolo è stato scritto da Thi Hòa Evangelisti, studentessa del Corso in Diritti Umani e Giornalismo Partecipativo tenuto al liceo Fermi di Bologna nell’ambito dei Progetti di Voci Globali.  L’autrice si è avvalsa dei suggerimenti della docente Antonella Sinopoli e ha utilizzato fonti che questa le ha fornito.

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Semplicemente il numero di utenti di Internet attivi sul globo terracqueo, rilevati al 30 giugno 2012.  Sono le cifre di una svolta nella storia della comunicazione, avviata poco più di mezzo secolo fa, con la diffusione del primo hardware di massa; passando per le BBS, sedi delle prime comunità virtuali, e dall’invenzione del World Wide Web – quella parte veramente sociale dell’impalcatura di Internet, senza quale la Rete non sarebbe… una rete.

Questo gigantesco ipertesto, quasi moderna incarnazione delle perle di Indra, ci ha permesso di polverizzare il tempo e valicare le barriere dello spazio, ma soprattutto ha spalancato le porte dell’etere alla vox populi. Se la stampa, la radio, la televisione sono costitutivamente espressione della voce dei pochi, il “www” è stato progettato per essere uno spazio collettivo. Un cambiamento di paradigma radicale per l’opinione pubblica. Da platea passiva e unicamente orientabile, attraverso il canale unico dei media tradizionali, anche la “massa” ha finalmente trovato nella Rete un microfono per calcare il palcoscenico. Esprimendosi liberamente, democraticamente, al di là di ogni filtro istituzionale: così la piazza delle arringhe si è trasfigurata in un’agorà.

Una trasformazione irreversibile, che sta cambiando inevitabilmente anche il panorama dell’informazione – come ci è stato testimoniato dal terremoto in Giappone, dalla Primavera Araba, dalla silenziosa rivolta di qualche anno fa dei monaci birmani, tanto per menzionare alcuni dei macrocasi più noti. È la rivoluzione copernicana del citizen journalism. Per usare le limpide parole di Jay Rosen, “Citizen journalism è quando la gente, in altri tempi detta pubblico, usa gli strumenti della stampa che sono in suo possesso per informarsi l’uno con l’altro.

Citizen journalist è, dunque, il cittadino che si fa giornalista. Ovunque, e ogniqualvolta ci sia qualcosa da raccontare. Grazie, ma non solo, agli strumenti messi a disposizione dalla tecnologia del web 2.0: la Rete, e tutti gli apparati materiali ad essa in un qualche modo connessi. Suo cavallo di battaglia è la condivisione immediata di contenuti: la comunicazione della modernità si configura come orizzontale, fra pari, dai molti ai molti. In netta opposizione con il modello verticale del giornalismo tradizionale, fondato sull’unilateralità del broadcasting. Questo attraverso il social network , il blog, la piattaforma user generated content, i portali veri e propri di citizen journalism – tra cui ricordiamo OhmyNews, per importanza storica, e Agoravox, fra i più noti nel nostro paese.

Ora, vi sarete accorti che questo quadro del citizen journalism rimane ancora molto nebuloso. Abbiamo provato a rispondere solo alle prime quattro delle canoniche cinque W. Manca, infatti, quella forse più importante: “Why?”. Perché è nato il citizen journalism? In effetti, bisognerebbe aggiungere una H: “How?”. Com’è nato questo nuovo giornalismo? Ma soprattutto, come funziona, e come facciamo ad avere garanzia della sua attendibilità?  Sono domande che non hanno una risposta lineare e secca, ahimè – tanto che a partire dall’articolo iniziale si è dipanato un breve saggio (che spero a breve di pubblicare anvhe su queste pagine). Segno della complessità di questi quesiti, entro i quali non ci si addentrerà in questa sede; ci si limiterà piuttosto a rispondere alla quinta W.

Da quanto detto sinora, potrebbe sembrare che le origini del citizen journalism siano da deputare unicamente alle possibilità che la Rete ha creato. Certamente, il progresso tecnologico ha costituito un catalizzatore importante nell’evoluzione del giornalismo; tuttavia, risulta difficile credere che non abbia agito anche un “fattore umano” in combinazione con la tecnologia. Ritenere che la mera esistenza di uno strumento sia sufficiente a produrre il cambiamento è un vecchio pregiudizio positivistico, declinazione di un atavico pragmatismo utilitarista che caratterizza l’Occidente sin dai tempi della cultura romana. L’idea di non avere un peso o una responsabilità sarebbe fin troppo confortevole, per l’umanità; troppo comodo, l’abbandono ai facili ottimismi del tecno-utopismo. Al contrario, le possibilità di Internet vanno problematizzate funzionalmente alla sua utenza.

Il potenziale della Rete è immenso, è vero; ma non si può coltivare l’illusione che l’innovazione vada sempre a braccetto con libertà, democrazia e tante altre belle cose – basti pensare al proliferare dei siti negazionisti del post-climategate. C’è inoltre da considerare che la democrazia non è solo la luminosità del pluralismo, ma in essa striscia anche l’ombra del pensiero dominante, della tirannia brutale di una massa, statisticamente mediocre, sulle altre minoranze. Di fatto, c’è il pericolo di un monopolio a opera di quelle realtà che già godono della maggior parte delle attenzioni mediatiche.

È per rispondere a questo pericolo che sono nate piattaforme come Voci Globali e Global Voices, fra le poche ad aver colto l’importanza fondamentale della traduzione, quale ponte culturale indispensabile per ridistribuire gli spazi dell’informazione e tutelare l’infodiversità. Progetti come VG e GV costituiscono quelle oasi partecipative che dovrebbero fungere da faro agli internauti, e che ricordano quotidianamente quanto la sinergia della cooperazione possa fare la differenza. È nella condivisione di un forte ideale che risiede il successo di questi due progetti, proprio perché sono state le persone a trasformare in prassi l’astrattezza della possibilità. I nuovi cittadini-giornalisti altro non sono che parte integrante di una società civile che ha intuito il potenziale della Rete: agendo di conseguenza.

Una società che troppo a lungo ha dovuto gridare sotto alle balconate di potenti e potentati, e leggere e ascoltare le persone che contano. Oggi questa società ha trovato una voce, proiettando nella Rete la necessità di un giornalismo più umano e vicino alle proprie esigenze: per ricordare a questo XXI secolo che sono le persone che contano veramente. Questa società non aspettava altro. E se la Rete ha fornito l’occasione del grande salto, compierlo è stata una scelta del pubblico – più o meno inconscia, ma pur sempre una scelta.

Un mezzo è un mezzo, un mezzo, un mezzo. Una cosa fredda e inerte, senza delle mani che lo impugnino. Così è stato per la stampa, per la radio, per la televisione. Così è stato, è e sarà per Internet.

 

 

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