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Nablus, nel campo di Askar al Jadid dove non c’è libertà

[Nota: Chi ha scritto questo articolo ha subìto pressioni da Israele e il divieto di entrare  nei territori occupati. Per questo è preferibile che non compaia il suo nome. Riteniamo però che la sua testimonianza diretta possa essere utile a comprendere come si vive davvero su quella terra]

 

Dopo aver visitato Gerusalemme ho deciso di fermarmi per qualche settimana a Nablus, una città interessante dal punto di vista storico e non solo. Per capire meglio la situazione in questa zona ho deciso di non vivere in un ostello qualsiasi ma in una famiglia che abita non molto lontano da Nablus nel campo di Askar al Jadid, non molto distanti si trovano il campo di Askar al qadim (vecchio) e quello di Balata e Ain. Quello che appare come un sobborgo o una propaggine della città è in realtà un campo profughi. Fondato nel 1964, oggi ospita circa 7.000 persone in 1 chilometro quadrato. Gli abitanti sono quelli che una volta venivano cacciati dalle proprie terre da Israele. Sono trascorsi 10 anni da quando il campo è stato devastato dall’esercito israeliano durante la seconda Intifada e nulla sembra essere cambiato.

Ho avuto modo di visitare il campo ed è realmente abbandonato a se stesso. Le case sono ammassate una accanto all`altra, non vi sono mezzi per spostarsi, i bambini sono sempre in strada a giocare e spesso non avendo attività con cui distrarsi rischiano di dedicare il loro tempo in attività illegali o pericolose. Il campo ha finalmente ottenuto un ambulatorio medico, ma ha un solo medico per i 7.000 residenti. All`interno del campo è presente un’Associazione di Sviluppo Sociale (DSC) per bambini e disabili. Il 30% degli abitanti sono disoccupati e non hanno reddito. Ho anche  conosciuto alcuni giovani, molti dei quali laureati e disoccupati da anni, che hanno deciso di supportare i bambini residenti nel campo Askar impegnandosi in attività che possano distrarli dalla realtà quotidiana allontanandoli così dalla strada.

Hanno creato l’Askar sport school, una piccola Associazione in cui bambini, bambine e giovani possono dedicarsi a diverse attività sportive. Proprio grazie all`aiuto e alla perseveranza di questi giovani allenatori i bambini sono riusciti per la prima volta nella loro vita ad uscire dal campo profughi e giocare in un vero campo sportivo, quello di Nablus (mal3ab baladya).

Mi è stato raccontato di come fossero emozionati la prima volta che hanno varcato quei confini. Alcuni hanno baciato la terra, altri hanno pianto tanto era grande l’emozione. Molti di loro si allenano ogni giorno con il sogno di poter giocare un giorno in una squadra fuori da questo inferno.  Il problema consiste nel fatto che gli allenatori sono semplici volontari, nessuno è disposto a finanziare quest’attività, che sembra essere l’unica fonte di gioia per i bambini che vivono qui.

Le stesse Ong presenti a Nablus non si occupano delle esigenze dei bambini del campo di Askar le cui menti e ricordi sono colmati dal trauma di vivere sotto l’occupazione militare israeliana. L’Associazione è riuscita a far viaggiare i bambini in alcuni Paesi europei per giocare e incontrare altre squadre. Ma alla fine si torna a una realtà fatta di soldati e restrizioni di movimento. E bisogna anche segnalare un paradosso: mentre i bambini possono ottenere un visto di 20 giorni per visitare l’Europa, non hanno il permesso di visitare la propria capitale, a soli 45 minuti, Gerusalemme.

Per i residenti del campo, un fatto rimane. Nessuna somma di denaro o nuova costruzione porterà una soluzione. Il campo profughi è solo un luogo temporaneo per un popolo che è stato costretto ad abbandonare le proprie case. Un allenatore di calcio mi ha mostrato una seconda “attrazione” che il campo ha da offrire ai visitatori. Presso il sito di una vecchia scuola materna, 7 lapidi bianche costituiscono un monumento per le vittime della seconda Intifada, garantendo che qualcosa di quello che avvenne nell’aprile del 2002 non sarà dimenticato.

Le lapidi di Askar al Jadid, foto dell'autrice del post

La macchina militare israeliana ha devastato il campo di Askar durante la seconda Intifada. La strada all’ingresso del campo è stata trafficata da carri armati invece che da automobili. Dalla cima della montagna attraverso la valle, le forze israeliane erano in grado di sparare direttamente nel campo. Molte case sono state rase al suolo o gravemente danneggiate. Così, durante la seconda Intifada, qui  hanno perso la vita 33 persone. Molti sono stati arrestati e 50 dei residenti rimangono tuttora nelle carceri israeliane.
Molti sono i problemi nel campo. A cominciare dal fatto che medicine e attrezzature per la cura dei bambini disabili sono molto costose, e devono passare attraverso Israele, il che complica ulteriormente il loro arrivo. Vi è  mancanza di assistenza da parte sia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione, che da parte dell’Autorità palestinese. Entrambi sarebbero ufficialmente presenti, ma di fatto offrono ben poco agli abitanti. L’intero campo è in Area C: significa che è sotto il pieno controllo israeliano civile e militare. Così, i soldati israeliani e i coloni armati possono entrare quando vogliono e molestare i suoi residenti. Coloni estremisti utilizzano la presenza della Tomba di Yousef come scusa per invadere l’area e cercare di aumentare la loro influenza.

Mi preme sottolineare che la vita per i residenti nel campo Askar, e in generale per chi risiede in un campo profughi, è ancora più complicata. Molte sono le lamentele riguardanti l’atteggiamento di razzismo da parte degli abitanti della città di Nablus nei loro confronti. A parità di merito un giovane laureato residente in città ha più possibilità di essere assunto rispetto ad un laureato proveniente da un campo profughi.

Molto difficile risulta anche sposarsi: i matrimoni tra una persona della città e una del campo profughi spesso non sono accettati a causa della percezione negativa che le persone hanno dei residenti nei campi. Questo è un aspetto che disturba molto. Riporto di seguito una delle frasi che mi sono sentita ripetere in questi giorni “non è mica colpa nostra se anni fa le nostre famiglie sono state costrette a fuggire e stabilirsi in questa zona, perché dovremmo essere puniti per questo? Non abbiamo già abbastanza problemi?“.

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