Sono rimbalzate sui media di tutto il mondo le notizie delle pubbliche impiccagioni dei giovani manifestanti di Teheran. Ma lo sconcerto internazionale che colpisce la Repubblica islamica d’Iran non sembra scalfire in alcun modo la posizione del Governo del presidente Raisi, forte di un primato che il Paese tiene saldo da quarantatré anni: il più alto tasso di esecuzioni pro capite al mondo.
Al lordo della censura che copre la questione all’ombra della teocrazia sciita, e delle esecuzioni che l’amministrazione persiana tiene segrete, la pena capitale ha colpito oltre 300 persone solo nel 2021, mai così tante dal 2017. In 251 sono stati messi a morte nei primi sei mesi del 2022, quando sono riprese le esecuzioni in pubblico e si sono regolarmente compiute esecuzioni di massa nelle prigioni del territorio. Da allora, quel numero è in continua, vertiginosa crescita stando ai dati della Società iraniana per i diritti umani che conta 623 iraniani alla forca alla fine dello scorso anno.
Omicidi e stupri, ma anche reati minori come quelli finanziari e di droga. E poi l’adulterio e l’omosessualità. E una serie di altri non meglio specificati crimini di blasfemia e apostasia come gli “atti offensivi nei confronti del profeta dell’Islam“, l'”inimicizia contro Dio” e la “diffusione della corruzione sulla terra“, possono valere la vita nella terra degli ayatollah.
Già prima che esplodessero le proteste antigovernative che oggi corrono per la Repubblica nel nome di Masha Amini e accendono i fari sugli spregi del diritto internazionale dei diritti umani che vi si consumano, la pena capitale era sinonimo di repressione nelle mani dell’autorità costituita in Iran. Con le minoranze etniche e religiose (i beluci soprattutto) colpite in modo sproporzionato, i minorenni non risparmiati dal braccio della morte, e le sentenze in tasca ai tribunali prima ancora dell’inizio dei processi dove a fare da prova sono le confessioni estorte con la tortura agli accusati.
Era ancora l’ottobre 2021 quando il Relatore speciale delle Nazioni Unite in Iran, Javaid Rehman, parlava di “arbitraria privazione della vita, nella maggioranza dei casi se non in tutti“. Ed era luglio 2022 quando il Centro Abdorrahman Boroumand per i diritti umani sollevava preoccupazioni per le dichiarazioni del capo del potere giudiziario Gholamhossein Mohseni riguardo alla necessità di intervenire sul sovraffollamento delle carceri, che già in passato avevano preceduto grandi ondate di esecuzioni.
È il racconto di una pratica di regime quotidiana quello che arriva dal Paese dell’estremo Medio Oriente. Che non ha iniziato ieri a impiccare dissidenti e presunte spie come il cittadino europeo, l’ex viceministro alla Difesa naturalizzato britannico, Alireza Akbari (“un precedente spaventoso” nelle parole dell’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea Josep Borrell).
“Più di una volta abbiamo affermato che le repressioni violentissime e purtroppo non inaudite delle proteste erano solamente il preludio di quella che sarebbe poi diventata una violenza organizzata da parte della giustizia dei tribunali. Avevamo avvertito che dopo i primi arresti e l’identificazione vera o presunta dei capi delle proteste, la ben organizzata macchina della repressione giudiziaria e della repressione di Stato avrebbe cominciato a funzionare“, dice a Voci Globali Emanuele Russo, presidente di Amnesty International Italia.
E aggiunge, “avevamo anche invitato a non cadere vittima delle dichiarazioni ambigue sulla chiusura della polizia morale e sul fatto che non ci fosse alcun collegamento tra la polizia morale e la repressione giudiziaria. Questi collegamenti esistono e sono sempre rimasti in funzione in questi quattro decenni“.
Per l’Organizzazione iraniana per i diritti umani, sarebbero 109 i dissidenti detenuti nelle carceri del Paese affacciato sul Golfo Persico che ora rischiano di essere condannati a morte. Decine di sentenze, riporta l’Agence France-Presse, sono già state emesse, e il parlamento a guida ultraconservatrice insiste per avere processi ancora più rapidi e nuove esecuzioni pubbliche. E la ragione è tutta politica.
Lo spiega bene il numero uno della sezione italiana del Movimento globale che coordina le attività della Rete asiatica contro la pena di morte:
le esecuzioni, che avvengono all’esito di processi farsa e con accuse tanto gravi come quelle di violenza o guerra contro Dio, quanto inaccettabili perché colpiscono manifestanti pacifici, dimostrano come il Governo iraniano sia più che determinato non solo a non fare alcuna concessione ai manifestanti, ma soprattutto a proseguire la sua linea politica anche oltre questa protesta, che ricordiamo non è la prima nel suo genere nel Paese. La nostra impressione è che l’obiettivo sia quello di portare allo sfinimento i manifestanti, portarne all’esecuzione un numero abbastanza alto da convincere gli altri a cessare le proteste, e poi continuare, come già in passato, come se nulla fosse accaduto.
La situazione iranica gode oggi di una relativa attenzione mediatica, e dunque politica. Anche il capo della Farnesina, il vicepresidente del Consiglio Antonio Tajani, ha preso posizione sulla vicenda rappresentando all’ambasciatore iraniano a Roma, Mohammad Reza Sabouri, il biasimo dell’Italia nei confronti di Teheran per aver, così ha detto, “superato la linea rossa“.
Amnesty, che figura tra i membri fondatori della Coalizione mondiale contro la pena di morte, accoglie con soddisfazione le importanti dichiarazioni rilasciate da alcuni Governi. Ma, sottolinea Russo, “ora bisognerà vedere cosa la comunità internazionale farà di concreto“.
Intanto, è bene ricordare che l’Iran di Khamenei non è di certo l’unico posto al mondo dove il boia ha ancora molto da fare. È il Rapporto annuale di Amnesty International a darci conto dello stato dell’arte al riguardo.
Sebbene siano sempre meno i Paesi che prevedono la pena capitale come metodo di presunta giustizia nel loro ordinamento, e siano ancora meno quelli che de facto la utilizzano, almeno 2.052 persone sono state raggiunte da sentenza di morte in 55 Stati (in Bangladesh, India e Pakistan i tribunali più prolifici) nel 2021, +40% rispetto all’anno precedente quando la pandemia aveva fermato le corti. Ed erano quasi 29 mila i detenuti nei bracci della morte di tutto il mondo.
Nello stesso anno, 18 Paesi hanno concluso 579 esecuzioni, un numero enorme di vite cancellate, anche questo in salita rispetto al 2020. Senza contare le migliaia di persone che potrebbero essere state messe a morte nella Repubblica popolare cinese, che al pari di Corea del Nord e Vietnam classifica come segreto di stato i dati sulla faccenda.
Non sono ancora disponibili le cifre definitive per l’anno appena trascorso, ma il censimento globale delle esecuzioni aveva già superato quota 600 tra gennaio e settembre 2022.
Nel contempo, rimarca il presidente di Amnesty Italia, il numero degli Stati abolizionisti aumenta (seppur molto lentamente). E viene sostenuta da sempre più Paesi la moratoria universale delle Nazioni Unite che chiede la non esecuzione per reati commessi da minorenni e una forte limitazione del numero di reati punibili con la pena capitale, strada maestra in direzione dell’obiettivo ultimo che resta l’abolizione totale.
“Da un lato c’è lo Zambia che diventa abolizionista totale, dall’altro l’Afghanistan che sta ritornando in tempi record ai livelli degli anni ’90 e a fine 2022 ha realizzato la prima esecuzione capitale in pubblico in uno stadio nella provincia di Herat“, commenta Russo a fotografare importanti successi, ma anche drammatici passi indietro.
Dalla Siria alla Bielorussia, dall’Egitto al Giappone. Attraverso l’Arabia Saudita che lo scorso marzo ha realizzato la più grande esecuzione di massa nel Paese dal 1980 mettendo a morte 81 persone in un solo giorno, e a giugno ha confermato la condanna capitale per Abdullah al-Huwaiti che all’epoca del presunto reato aveva 14 anni e dopo 4 mesi di isolamento e torture confessava un crimine che non avrebbe potuto commettere. Fino al Myanmar che dopo tre decenni torna a praticare le esecuzioni, e dal colpo di stato del 2021 conta già almeno un centinaio di condanne a morte sentenziate sotto legge marziale.
Con una fermata d’obbligo negli Stati Uniti che, seppur facciano registrare il numero più basso di esecuzioni in quasi trent’anni e aggiungano la Virginia alla lista degli abolizionisti, continuano a eseguire condanne contro persone con gravi disabilità intellettive. E a mandare prigionieri nel braccio della morte nonostante i dubbi sulla loro colpevolezza.
Elwood Jones ha passato 27 dei suoi settant’anni in attesa di esecuzione nella prigione della Contea di Hamilton, in Ohio. Eddie Lee Howard ne ha trascorsi 26 tra i condannati a morte del Mississippi. Prima di loro, 167 detenuti sono stati rilasciati ad un passo dall’iniezione letale dal 1973 ad oggi. Erano innocenti.
È un lungo viaggio quello attraverso i Paesi che ancora usano la pena di morte. E lo fanno con sempre più preoccupante entusiasmo, e troppo spesso fuori da ogni parametro di legalità rispetto alle norme del diritto internazionale.
Ogni sistema ha il suo metodo. Impiccagione, decapitazione, fucilazione. Talvolta la sedia elettrica. E poi quello che è considerato il più umano e indolore, l’iniezione letale. La stessa che lo scorso luglio ha torturato per oltre tre ore il condannato Joe Nathan James Jr. prima di ucciderlo nell’Alabama che adesso valuta la reintroduzione del gas in risposta a quello che il Death Penalty Information Center chiama “l’anno delle esecuzioni andate male” (il 2022) negli Usa.
Ognuno ha le sue ragioni per ammettere ciò che attentando all’inviolabilità e alla dignità della persona è sempre inammissibile, per parafrasare le parole recentemente scelte da Bergoglio. E che è oltretutto inutile in termini di deterrenza, e si riduce a nient’altro che a strumento di vendetta mascherata di giustizia. Per i regimi autoritari, arma contro oppositori politici e minoranze.
Quella dei Paesi che mantengono in vigore la pena capitale resta comunque una minoranza, che continua a restringersi ogni anno. Nonostante i numeri ancora allarmanti segnati nell’ultimo biennio in fatto di condanne ed esecuzioni, rimane chiara la tendenza globale a camminare verso un mondo senza la pena di morte. 144 Stati la hanno ormai bandita, per legge o nella pratica. Oltre due terzi del mondo.
“Nel contesto mondiale attuale mantiene la pena capitale come metodo di esecuzione di una sentenza solo chi ne è convinto, e allora la pratica senza particolari difficoltà“, osserva l’attivista torinese a capo della divisione nazionale di Amnesty International.
Attenzione, però, a considerarlo un tema lontano da noi. L’utilizzo della pena di morte “è una cartina di tornasole di come si considera la vita, che è il primo vero diritto umano nel mondo contemporaneo. Nel momento in cui uno Stato si ritiene legittimato a interrompere la vita attraverso l’esecuzione capitale ci dice molto sul suo modo di leggere l’importanza di tutti i diritti umani“, dice il leader del gruppo impegnato dal 2014 nella Task force contro la pena di morte istituita dal ministero degli Affari esteri italiano a supporto della moratoria Onu.
È indispensabile che si tenga alta la guardia sullo stato dell’abolizione della pena di morte nel mondo, ripete Russo, finché non saranno fermate tutte le esecuzioni, per qualsiasi reato, ovunque e da chiunque siano praticate, e indipendentemente dalla copertura mediatica che solo alcuni casi conquistano.
E a proposito dell’atteggiamento di condanna o tollerante indifferenza che investe a intermittenza la questione, interviene: “questo problema può porsi a tutti i livelli quando parliamo di diritti umani, ed è una delle difficoltà con cui Amnesty si è sempre dovuta interfacciare“.
Per parlare di diritti umani in senso proprio, spiega, bisogna spogliare l’argomento dall’utilizzo retorico e propagandistico che se ne fa, “che purtroppo viene fatto da tutti, dagli Stati Uniti quando si tratta di dire che la Cina non rispetta i diritti umani salvo poi mantenere le esecuzioni capitali e tenere aperto un carcere come Guantanamo, dall’Italia che parla di diritti umani ma poi ha nell’Egitto il principale partner commerciale di armamenti militari, e così via… Vale sempre“.
Lo mette bene in chiaro Russo, “dal nostro punto di vista, non esiste nessuno Stato, nessun Governo che si comporti in modo coerente con i diritti umani sanciti nella Dichiarazione universale e negli altri trattati. Non ce n’è uno. E noi ci rifiutiamo anche di fare classifiche, perché dichiariamo che i diritti umani sono equipollenti e interdipendenti. Se facessimo una classifica tra Paesi è come se dicessimo che le violazioni dei diritti umani di uno Stato sono più o meno gravi che quelle di un altro”.
“E invece noi diciamo: avessi anche torto solo un capello all’ultimo dei tuoi prigionieri, e questa fosse anche l’unica violazione dei diritti umani che hai fatto in tutto un anno, per noi comunque non sei adempiente, sei criticabile, e cercheremo di agire perché tu cambi atteggiamento esattamente come per il Paese che fa centocinquanta esecuzioni l’anno“, chiosa.
La pena di morte, ribadisce il presidente di Amnesty International Italia, “è sempre una pena disumana e degradante, non è un modo di fare giustizia“.
Era il 1764 quando Cesare Beccaria scriveva, “parmi assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio“.
Sono passati quasi tre secoli da allora, e siamo ancora qui a dover fare le stesse, identiche considerazioni.