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Capelli come arma di ribellione e affermazione. Gesto di sorellanza

[Traduzione a cura di Davide Galati dell’articolo originale di Catherine Early pubblicato su The Conversation]

Tagliarsi i capelli o lasciarli crescere, tingerli o sfoggiare capelli grigi, esibire una chioma o coprirli. Si tratta di atti quotidiani con cui milioni di donne rivendicano la propria identità, cercano di inserirsi, lottano per i propri diritti o si attengono a norme rispetto a cui, troppo spesso, non hanno voce in capitolo.

Mahsa Amini, una donna curda di 22 anni, è stata arrestata lo scorso settembre dalla polizia della moralità a Teheran con l’accusa di aver violato la legge che obbliga le donne a coprirsi i capelli. Secondo quanto riferito, non indossava correttamente il velo. Pochi giorni dopo, la notizia della sua morte ha scosso il mondo.

Alcune donne iraniane hanno iniziato a mostrare i capelli e a tagliarli per protesta, ma anche in associazione ad antiche tradizioni di lutto. Da allora, donne di vari Paesi e culture hanno condiviso immagini e video di loro stesse che si tagliano i capelli per dimostrare sostegno.

I capelli significano molto di più

Esistono numerosi riferimenti culturali in cui i capelli sono legati alla forza, al potere, alla punizione o addirittura all’intelligenza: da Sansone o Medusa fino allo stereotipo di  “bionde stupide”. Su quest’ultimo luogo comune, ricerche accademiche hanno dimostrato che, sebbene non sia vero che i capelli biondi implichino meno intelligenza, pochissime persone bionde raggiungono posizioni di spicco nella lista Fortune 500 [le 500 maggiori imprese societarie statunitensi, NdT].

Oggi sui social media c’è una proliferazione di immagini e video di donne che difendono tutti i tipi di cause attraverso diverse acconciature della testa e del corpo. Di questi, quelli in cui donne si radono la testa come gesto di sorellanza con parenti e amici malati di cancro sono particolarmente toccanti. Alcuni sono ampiamente condivisi.

Una questione religiosa o politica

Alcuni gruppi di credenze impongono o raccomandano di radersi i capelli al matrimonio, e di coprirli con sciarpe, cappelli o parrucche in nome della “modestia”. Serie come Unorthodox rendono visibili queste pratiche, in questo caso nell’ebraismo chassidico della comunità Satmar.

Altri artisti riflettono nelle proprie opere la ribellione passiva o silenziosa di molte donne che usano tessuti e accessori luminosi, o parrucche bionde molto vistose. Era ad esempio così per l’iraniana Shirin Aliabadi in opere come Miss Hybrid (2008).

Miss Hybrid 5, di Shirin Aliabadi, 2008. The Third Line

La storica dei capelli Rachel Gibson ci ricorda come i capelli siano diventati una via di espressione politica. Un chiaro esempio è lo stile afro, legato alla lotta per i diritti civili. Per Gibson, in questo caso i capelli sono stati una forma di protesta fin dall’inizio della schiavitù, quando sono stati imposti determinati tagli di capelli per cancellare la cultura e i diritti fondamentali delle persone.

In alcune culture i capelli possono essere considerati arte. Ad esempio in canzoni come “Non toccare i miei capelli” o “Io non sono i miei capelli“. Mena Fombo, con la campagna “No. You Can’t Touch My Hair!”, aiuta le persone a capire perché qualcosa di apparentemente innocente come toccare i capelli di uno sconosciuto può generare un profondo disagio e rappresentare un segno di razzismo.

Tagliarli o farli crescere lunghi?

L’immagine di una donna con la testa rasata è solitamente associata a malattia o punizione. È raro e spesso scioccante. Ciò si riflette nell’impatto di attrici e cantanti che sono diventate calve.

La maggior parte lo ha fatto per ritrarre i propri personaggi e alcune confessano che è stato “liberatorio”. Tuttavia, per una minoranza, come la cantante Sinead O’Connor o la modella Adwoa Aboah, è stato anche un modo per affrontare gli stereotipi e le pressioni commerciali sugli ideali di bellezza femminile – ideali che Frida Kahlo ha sfidato con il suo Autoritratto con i capelli corti (1940) dopo la sua separazione da Diego Rivera.

Non tutte le rivendicazioni comportano la rasatura della testa. Nel mio lavoro “Reliquiario: chiome di famiglia” ho cercato di raccogliere le varie connessioni estetiche, politiche e religiose dei capelli per le donne della mia famiglia.

In Wigs (1994), la fotografa Lorna Simpson esplora come le persone vengono solitamente identificate, giudicate e classificate dai loro capelli, in particolare le afroamericane. L’artista di origine cubana María Magdalena Campos-Pons usa i capelli lunghi come elemento di riconoscimento di sé e di riconnessione con le sue radici Yoruba in opere come De las dos aguas (2007).

È interessante riflettere su The Hijab Series: Mother, Daughter & Doll, dell’artista yemenita Boushra Yahya Almutawakel, che si occupa della scomparsa sociale delle donne nella sua cultura; un’opera tanto potente quanto devastante.

The Hijab series: Mother, Daughter, Doll“, concessa da Boushra Yahya Almutawakel a fini informativi o educativi.

L’ultimo lavoro di un artista controverso che spicca è quello di aleXsandro Palombo, che ha dipinto Marge Simpson che taglia i suoi peculiari capelli blu nei graffiti davanti al consolato iraniano a Milano per mostrare il suo sostegno a Mahsa Amini.

I graffiti sono scomparsi il giorno dopo essere stati dipinti. Li ha poi dipinti di nuovo, ma con un’espressione e un gesto più provocatori e aggressivi, un trattamento del soggetto diverso dalle artiste che ho citato. Le donne nell’arte tendono ad essere energiche ma più sottili quando usano i capelli per rivendicare problemi politici, di identità o per i loro diritti più elementari, come essere in grado di mostrarli senza paura di essere uccise per questo.

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