24 Aprile 2024

Capelli come arma di ribellione e affermazione. Gesto di sorellanza

[Traduzione a cura di Davide Galati dell’articolo originale di Catherine Early pubblicato su The Conversation]

Tagliarsi i capelli o lasciarli crescere, tingerli o sfoggiare capelli grigi, esibire una chioma o coprirli. Si tratta di atti quotidiani con cui milioni di donne rivendicano la propria identità, cercano di inserirsi, lottano per i propri diritti o si attengono a norme rispetto a cui, troppo spesso, non hanno voce in capitolo.

Mahsa Amini, una donna curda di 22 anni, è stata arrestata lo scorso settembre dalla polizia della moralità a Teheran con l’accusa di aver violato la legge che obbliga le donne a coprirsi i capelli. Secondo quanto riferito, non indossava correttamente il velo. Pochi giorni dopo, la notizia della sua morte ha scosso il mondo.

Alcune donne iraniane hanno iniziato a mostrare i capelli e a tagliarli per protesta, ma anche in associazione ad antiche tradizioni di lutto. Da allora, donne di vari Paesi e culture hanno condiviso immagini e video di loro stesse che si tagliano i capelli per dimostrare sostegno.

I capelli significano molto di più

Esistono numerosi riferimenti culturali in cui i capelli sono legati alla forza, al potere, alla punizione o addirittura all’intelligenza: da Sansone o Medusa fino allo stereotipo di  “bionde stupide”. Su quest’ultimo luogo comune, ricerche accademiche hanno dimostrato che, sebbene non sia vero che i capelli biondi implichino meno intelligenza, pochissime persone bionde raggiungono posizioni di spicco nella lista Fortune 500 [le 500 maggiori imprese societarie statunitensi, NdT].

Oggi sui social media c’è una proliferazione di immagini e video di donne che difendono tutti i tipi di cause attraverso diverse acconciature della testa e del corpo. Di questi, quelli in cui donne si radono la testa come gesto di sorellanza con parenti e amici malati di cancro sono particolarmente toccanti. Alcuni sono ampiamente condivisi.

Una questione religiosa o politica

Alcuni gruppi di credenze impongono o raccomandano di radersi i capelli al matrimonio, e di coprirli con sciarpe, cappelli o parrucche in nome della “modestia”. Serie come Unorthodox rendono visibili queste pratiche, in questo caso nell’ebraismo chassidico della comunità Satmar.

Altri artisti riflettono nelle proprie opere la ribellione passiva o silenziosa di molte donne che usano tessuti e accessori luminosi, o parrucche bionde molto vistose. Era ad esempio così per l’iraniana Shirin Aliabadi in opere come Miss Hybrid (2008).

Miss Hybrid 5 by Shirin Aliabadi, 2008. The Third Line
Miss Hybrid 5, di Shirin Aliabadi, 2008. The Third Line

La storica dei capelli Rachel Gibson ci ricorda come i capelli siano diventati una via di espressione politica. Un chiaro esempio è lo stile afro, legato alla lotta per i diritti civili. Per Gibson, in questo caso i capelli sono stati una forma di protesta fin dall’inizio della schiavitù, quando sono stati imposti determinati tagli di capelli per cancellare la cultura e i diritti fondamentali delle persone.

In alcune culture i capelli possono essere considerati arte. Ad esempio in canzoni come “Non toccare i miei capelli” o “Io non sono i miei capelli“. Mena Fombo, con la campagna “No. You Can’t Touch My Hair!”, aiuta le persone a capire perché qualcosa di apparentemente innocente come toccare i capelli di uno sconosciuto può generare un profondo disagio e rappresentare un segno di razzismo.

Tagliarli o farli crescere lunghi?

L’immagine di una donna con la testa rasata è solitamente associata a malattia o punizione. È raro e spesso scioccante. Ciò si riflette nell’impatto di attrici e cantanti che sono diventate calve.

La maggior parte lo ha fatto per ritrarre i propri personaggi e alcune confessano che è stato “liberatorio”. Tuttavia, per una minoranza, come la cantante Sinead O’Connor o la modella Adwoa Aboah, è stato anche un modo per affrontare gli stereotipi e le pressioni commerciali sugli ideali di bellezza femminile – ideali che Frida Kahlo ha sfidato con il suo Autoritratto con i capelli corti (1940) dopo la sua separazione da Diego Rivera.

Non tutte le rivendicazioni comportano la rasatura della testa. Nel mio lavoro “Reliquiario: chiome di famiglia” ho cercato di raccogliere le varie connessioni estetiche, politiche e religiose dei capelli per le donne della mia famiglia.

In Wigs (1994), la fotografa Lorna Simpson esplora come le persone vengono solitamente identificate, giudicate e classificate dai loro capelli, in particolare le afroamericane. L’artista di origine cubana María Magdalena Campos-Pons usa i capelli lunghi come elemento di riconoscimento di sé e di riconnessione con le sue radici Yoruba in opere come De las dos aguas (2007).

È interessante riflettere su The Hijab Series: Mother, Daughter & Doll, dell’artista yemenita Boushra Yahya Almutawakel, che si occupa della scomparsa sociale delle donne nella sua cultura; un’opera tanto potente quanto devastante.

The Hijab series: Mother, Daughter, Doll, by Boushra Yahya Almutawakel. Boushra Yahya Almutawakel
The Hijab series: Mother, Daughter, Doll“, concessa da Boushra Yahya Almutawakel a fini informativi o educativi.

L’ultimo lavoro di un artista controverso che spicca è quello di aleXsandro Palombo, che ha dipinto Marge Simpson che taglia i suoi peculiari capelli blu nei graffiti davanti al consolato iraniano a Milano per mostrare il suo sostegno a Mahsa Amini.

I graffiti sono scomparsi il giorno dopo essere stati dipinti. Li ha poi dipinti di nuovo, ma con un’espressione e un gesto più provocatori e aggressivi, un trattamento del soggetto diverso dalle artiste che ho citato. Le donne nell’arte tendono ad essere energiche ma più sottili quando usano i capelli per rivendicare problemi politici, di identità o per i loro diritti più elementari, come essere in grado di mostrarli senza paura di essere uccise per questo.

Davide Galati

Nato professionalmente nell'ambito finanziario e dedicatosi in passato all'economia internazionale, coltiva oggi la sua apertura al mondo attraverso i media digitali. Continua a credere nell'Economia della conoscenza come via di uscita dalla crisi. Co-fondatore ed editor della testata nonché presidente dell’omonima A.P.S.

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